2022-08-13
È morto Garella, il portiere di Maradona
Claudio Garella (Alessandro Sabattini/Getty Images)
Leggenda del calcio anni Ottanta, vinse un paio di scudetti epici: quello del Verona nel 1985, poi il primo del Pibe a Napoli nel 1987. Aveva uno stile suo, parava tutto seguendo l’istinto e usando i piedi. Con le mutande imbottite da pezzi di materasso della Simeoni. «State bassi, una punizione di Maradona non l’ho mai presa». Claudio Garella non amava i complimenti, era un timido con il naso e il girovita di Gérard Depardieu. Il flash ci riporta a Pinzolo, anni Ottanta, ritiro precampionato del Napoli. Sotto un diluvio universale Diego, che lo aveva voluto in azzurro, lo sfidò: «Scommettiamo che tiro 20 punizioni dal limite e ti faccio sempre gol?». Il portierone nato sovrappeso sorrideva mentre preparava la barriera di sagome, sapendo come sarebbe andata a finire. Sempre gol, sempre all’incrocio. Alla fine, inzuppato, commentò: «Per forza, non c’era niente in palio».Garella era nato a Torino 67 anni fa ed è morto ieri per complicazioni cardiocircolatorie dopo un intervento chirurgico al cuore. Lascia la moglie Laura e le figlie Claudia e Chantal. Un’uscita improvvisa delle sue, quando si materializzava fra i piedi dell’attaccante di turno rotolando a slavina. Un’uscita, l’ultima, che ha dato voce a chi per 30 anni lo aveva abbandonato nel ripostiglio dei balocchi. Eppure ha vinto due scudetti in due città diverse che non sono Milano e Torino, un record. Ha portato i suoi guantoni sul tetto d’Italia prima con il magico Verona di Osvaldo Bagnoli (1985), poi a Napoli, alla corte del Pibe de Oro nel primo titolo immortale (1987), quello della follia collettiva. In una rara intervista, al mondo del calcio che gli aveva voltato le spalle non ha saputo dire altro che: «Vivo dimenticato. Il pallone che conta si è scordato di me e non so perché. Sono direttore sportivo diplomato a Coverciano e da anni aspetto una telefonata che non arriva. Spiegazioni? Non mi sono inginocchiato davanti a nessuno, non frequento i giri giusti».Il blues di Garella non può prescindere da due note: i soprannomi e la modernità. All’inizio è un disastro, un fantasista della parata frenato da un corpaccione ignorante che si muove sempre un attimo dopo. Alla Lazio lo chiamano Compare Orso o Paperella, il caustico Beppe Viola conia alla Domenica Sportiva l’epiteto «garellata» per definire un suo errore (da qui il derivato «cassanata» per un altro irregolare del mestiere). Qualche anno dopo diventerà sinonimo di genialata. Un anno dopo i tre della rinascita trascorsi alla Sampdoria, quel portiere sarà la grande muraglia del Verona, pronto a trasformarsi in Garellik, un Diabolik imbattibile se in giornata di grazia. Lo ricorda Bagnoli, il filosofo della Bovisa che quello squadrone guidava dalla panchina: «Quando decideva di giocare, quindi di abbassare la saracinesca, nessuno riusciva più a fargli gol».Il più grosso portiere d’Europa parava di tutto, parava con tutto: ginocchia, petto, qualche volta glutei, soprattutto piedi, non sempre usando i guanti e le dita che ci stanno dentro. Sembrava un portiere del calcetto, senza braccia. I fans scherzavano: «Oggi ha giocato con le mani in tasca». In un’Italia già prigioniera del conformismo bastò una battuta di Gianni Agnelli a etichettarlo: «L’unico portiere che para senza mani». Ovviamente era una sciocchezza snob. È sufficiente andare su Youtube per vedere in azione il gigante dalla mente elastica, già avanti nel presidiare l’area piccola, già consapevole che stare sulla linea di porta sarebbe stato perdente. Aveva dentro qualche sprazzo di Julio Cesar, i piedi di Alisson e la follia (non la classe, proprio no) di Manuel Neuer. Aveva intuito il ruolo nell’interpretazione totale di oggi, anche solo per questo Garellik era un vincente. Ma soprattutto «sono stato il portiere di Maradona, e questo resterà per sempre».Istinto? Da vendere. Gli amanti della statistica ricordano le parate volanti con la mano di richiamo (quella sbagliata), gli amanti del Guinness una respinta di con i talloni alla René Higuita, scorpione style. C’è chi incensa una sua partita all’Olimpico contro la Roma quando parò l’impossibile e consentì al Verona di continuare la fuga verso lo scudetto. Ma lui ha sempre amato un altro exploit: «La parata più difficile della mia vita l’ho fatta a San Siro contro il Milan, su un colpo di testa di Mark Hateley». E lo stile? «Sono stato un portiere anomalo. Non ero ortodosso, però avevo un mio codice». Non era un ballerino, lo sapeva lui e anche chi lo stimava. Quando arrivò a Napoli, l’allora general manager Italo Allodi lo accolse con la frase: «L’importante è parare, non importa come».Non importa come. Se lo ricorda ancora Bagnoli, testimone di quei pomeriggi passati nell’antistadio del Bentegodi, impegnato in allenamenti supplementari per affinare la reattività del suo portierone. Garella si esibiva sulle bucce di riso, gettate per preservare il terreno di gioco. Parava tutto con quei tuffi da peso massimo. E ogni volta si alzava mostrando un gran deretano. Per attutire l’impatto si riempiva gli slip con la gommapiuma del materasso su cui si allenava, lì accanto, Sara Simeoni. Verona beat, una suggestione, una capitale. Garellik vinse due scudetti ma si tolse i guanti con un rammarico: non riuscì mai a giocare in Nazionale. La motivazione è facile, l’ha data lui stesso: «A quei tempi la concorrenza era forte. Giovanni Galli, Walter Zenga, Franco Tancredi. Non so se mi spiego». Era un timido e non si inginocchiò davanti a nessuno. Finì per divertirsi nelle serie minori come allenatore, poi come osservatore: Barracuda, Pergocrema, Cit Turin, Canavese. Tanta passione e contratti modesti, quanto basta per campare. Quanto basta per entrare nel cuore di due città, di due tifoserie che non dimenticano. Lunedì, per scherzo o per destino divino, c’è Verona-Napoli.