Mr Bce raccoglie l’assist di Giggino per mettere i sigilli al Parlamento

Lo sventurato applaudiva, come un monaco di Monza. Per tre volte Luigi Di Maio, seduto alla sinistra di Mario Draghi a Palazzo Madama, ha offerto un sentito consenso digitale alle parole del premier, ribadendo in faccia a tutti i 73 senatori pentastellati di sentirsi profondamente draghiano. Anzi il prediletto, un anno di Cepu alla Farnesina è servito. Oggi è governista, europeista, atlantista, molto diversamente Di Battista. Ed è riuscito a terremotare il campo di Giuseppe Conte.Quella dell’applausometro è la scena simbolo del lavoro di Supermario: slegare sempre più il governo dal Parlamento, proseguire nell’azione senza fare i conti (e far di conto) con la politica. La maggioranza degli italiani è contro la guerra? Lui si rifà al voto del primo marzo e tira dritto, considerando incidenti di percorso le lacerazioni nei partiti. Un uomo solo al comando, gli manca la sahariana verde per essere un caudillo. Se il Paese si pone la domanda suprema (perché non si vota sull’invio delle armi all’Ucraina?), nei corridoi di Palazzo Chigi la risposta viene sussurrata a ogni giornalista di passaggio: «Perché il governo cadrebbe».
Così, in pieno accordo con il Quirinale, il premier approfitta della litigiosità delle segreterie e delle loro debolezze dopo le amministrative per rafforzare sé stesso e per blindarsi, neanche fosse un carro armato Gepard.
Lo aveva fatto con Giancarlo Giorgetti ai tempi del green pass, mettendo in difficoltà Matteo Salvini. Lo ha sperimentato chiamando direttamente Enrico Letta quando Dario Franceschini si è posto di traverso in Consiglio dei ministri. Lo ha ripetuto con i ministri di Forza Italia sul catasto mentre lo stesso Silvio Berlusconi alzava le barricate contro la patrimoniale nascosta. Divide et impera, vecchia storia da geopolitica di Filippo il Macedone.
Adesso tocca a Conte bruciarsi con la strategia draghiana per mezzo di Di Maio. «Preoccupato per la tenuta della maggioranza? Vediamo, vediamo», rispondeva sornione il premier nella lunga giornata in Senato, mentre i pontieri limavano la risoluzione per farla digerire a tutti.
«Sosteniamo l’Ucraina e imponiamo sanzioni alla Russia, perché Mosca accetti di sedersi al tavolo dei negoziati. I nostri canali di dialogo rimangono aperti, non smetteremo di sostenere la diplomazia e di cercare la pace. Una pace nei termini che sceglierà l’Ucraina». E ancora: «Il governo italiano insieme ai partner Ue e G7 intende continuare a sostenere l’Ucraina come questo parlamento ci ha detto di fare».
Per lui l’indicazione del primo marzo è vangelo, neppure lo sfiora l’idea che al settimo invio di armi e dopo altri quattro mesi di guerra sarebbe utile un tagliando. Draghi non vuol farsi condizionare, da manager è legato al mandato di un cda e tratta il luogo della rappresentatività come una fastidiosa appendice. Per lui la politica non esiste. Eppure ne conosce i limiti, sa come cooptare le persone. Ecco perché oggi il suo baluardo è Di Maio, il ministro più draghiano nella hit parade. Lo vuole al suo fianco, lo definisce «essenziale», «intoccabile» e fa trapelare che «sta onorando il mandato in modo ineccepibile».
Neppure l’uscita dell’ex bibitaro dal Movimento 5 stelle scalfisce il disegno del premier. Alla Farnesina sono tutti convinti che la vicenda non avrà ricadute sul ministero degli Esteri. Nessun rimpasto, le correnti non vinceranno. Motivazione di Palazzo Chigi: «Ha giurato nelle mani del presidente della Repubblica, la funzione istituzionale non può essere confusa con il destino politico». Di Maio non si tocca, un’altra notizia destinata a far imbufalire i contiani e a distanziare l’esecutivo dalle logiche parlamentari.
Mentre il baby ministro è pronto a creare il suo gruppo e a iscriversi come attor giovane in un ipotetico partito centrista per Draghi, il volpone al governo rispolvera un abusato dogma: «Non si sostituisce il ministro degli Esteri durante una guerra». È la replica del già noto emendamento Speranza: «Non si sostituisce il ministro della Salute durante una pandemia». C’è da capirlo, servono solo per applaudire.





