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Friedrich Merz
Proteste in Israele, i manifestanti bloccano le autostrade chiedendo il rilascio immediato degli ostaggi. I patriarchi Pizzaballa e Teofilo: «Non evacueremo da Gaza verso Sud, sarebbe una condanna a morte».
La Germania non considera maturi i tempi per il riconoscimento di uno Stato palestinese. A ribadirlo è stato il cancelliere Friedrich Merz durante una conferenza stampa a Berlino con l’omologo canadese Mark Carney e il premier belga Bart de Wever. «La posizione del governo federale è chiara: non ci uniremo a questa iniziativa. Non vi sono le condizioni per un riconoscimento dello Stato palestinese», ha dichiarato Merz. La posizione tedesca si contrappone a quella della Danimarca. Il primo ministro Mette Frederiksen ha infatti aperto alla possibilità di un riconoscimento, dichiarando che «non diciamo no a questo passo. Siamo favorevoli da tempo, è ciò che vogliamo, ma dobbiamo avere la certezza che si tratti di uno Stato democratico». Tale dibattito arriva all’indomani dell’attacco israeliano contro l’ospedale Nasser di Khan Yunis, che secondo fonti palestinesi avrebbe causato venti vittime, tra cui cinque giornalisti. Merz ha affermato di non ritenere che si sia trattato di un’azione deliberata e ha invitato ad attendere l’esito dell’inchiesta avviata dalle autorità israeliane.
Un’indagine preliminare presentata al capo di Stato maggiore Eyal Zamir ha chiarito alcuni aspetti dell’attacco del 25 agosto all’ospedale Nasser. Secondo le informazioni raccolte l’obiettivo non era la struttura sanitaria in sé, ma una telecamera installata da Hamas per monitorare i movimenti delle truppe israeliane e coordinare azioni ostili. Le forze della brigata Golani, operative nell’area, hanno individuato il dispositivo e lo hanno neutralizzato con un missile. «Tra i morti vi sono sei militanti di Hamas, incluso un uomo coinvolto negli attacchi del 7 ottobre», ha dichiarato Zamir, aggiungendo un’espressione di rammarico per la perdita di vite civili. Tuttavia, dall’episodio emergono dettagli controversi. Alcuni dei morti presentati come giornalisti risultano avere legami diretti con Hamas. Mohammed Salama, reporter di Al Jazeera, era stato ripreso il 7 ottobre 2023 all’interno di Israele mentre gridava «Allahu Akbar» durante l’attacco di Hamas. Sei mesi più tardi lo stesso Salama aveva filmato la cerimonia in cui furono esposti i corpi della famiglia Bibas, vittime della milizia palestinese. Altri presunti reporter - Muaz Abu Taha, Hussam Al Masri e Hatem Khaled - non risultano iscritti al Palestinian Journalists Syndicate e sono stati collegati alla diffusione di immagini manipolate di bambini malnutriti tra il 2024 e il 2025. Anche il freelance Ahmed Abu Aziz, inizialmente riconosciuto da organizzazioni internazionali, ha mostrato evidenti legami con Hamas attraverso i propri canali social. Infine, Mariam Abu Dagga, sostenuta apertamente dal movimento, ha più volte propagandato la linea della «resistenza palestinese».
Sul fronte interno, Israele appare attraversato da una crescente tensione sociale. Decine di manifestanti hanno bloccato la Route 1 e la Route 6, principali arterie che collegano Gerusalemme e Tel Aviv, incendiando pneumatici e mostrando striscioni con la scritta «Fine della guerra, riportiamo tutti a casa». Nel corso della giornata le proteste si sono estese: in serata migliaia di persone hanno marciato dalla stazione Savidor di Tel Aviv fino a Piazza degli ostaggi, chiedendo un accordo immediato per la liberazione dei circa cinquanta rapiti ancora in mano a Hamas. Dopo quasi due anni di guerra cresce in Israele la sfiducia verso la leadership politica, incapace di liberare gli ostaggi e sconfiggere Hamas. Mentre le piazze si riempivano di contestatori, a Gerusalemme si è riunito il gabinetto di guerra. Secondo quanto riportato dai media israeliani la riunione si è conclusa senza affrontare nel dettaglio l’accordo di cessate il fuoco di 60 giorni e il rilascio degli ostaggi proposto da Hamas. L’incontro, durato meno di tre ore, non ha previsto alcuna votazione formale, come riferisce Channel 12. La seduta era stata anticipata per consentire ai ministri di partecipare a una cena organizzata dal Consiglio regionale di Binyamin in Cisgiordania. Israele avrebbe ribadito all’Egitto la propria indisponibilità a un accordo graduale, insistendo invece su un’intesa globale. L’ipotesi in discussione prevedeva una tregua di due mesi con la liberazione di dieci ostaggi, ma la posizione del governo resta immutata: proseguire l’offensiva su Gaza City per aumentare la pressione su Hamas e costringerlo ad accettare un accordo complessivo. Il presidente statunitense Donald Trump ha cercato di proiettare ottimismo, dichiarando che «la guerra di Gaza giungerà a una conclusione definitiva entro due o tre settimane. È difficile dirlo, perché combattono da migliaia di anni». Parole che, tuttavia, non sono state accompagnate da spiegazioni concrete su come si possa giungere a una soluzione tanto rapida. In questo scenario di incertezza il patriarca latino Pierbattista Pizzaballa e il patriarca greco ortodosso Teofilo III hanno diffuso una nota congiunta in cui annunciano la decisione di rimanere a Gaza insieme al clero e alle suore, nonostante l’occupazione israeliana della Striscia. «Il clero e le suore hanno deciso di rimanere e continuare a prendersi cura di tutti coloro che saranno nei complessi. Lasciare Gaza e cercare di fuggire verso Sud sarebbe una condanna a morte», hanno scritto i due leader religiosi, ribadendo che «non può esserci futuro basato sulla prigionia, sullo sfollamento dei palestinesi o sulla vendetta. Non c’è motivo di giustificare lo sfollamento di massa deliberato e forzato di civili». Proteggerli sarà una sfida enorme per l’esercito israeliano.
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Ansa
- Le prigioni europee sono sempre più incubatori della violenza islamista I programmi di deradicalizzazione sono inefficaci e i controlli scarseggiano.
- L’esperta: «Il punto debole di molti piani governativi contro l’estremismo è che l’adesione è volontaria. Far cambiare idea ai fanatici non è facile, ma è possibile. Anche l’intelligenza artificiale predittiva può aiutare».
Lo speciale contiene due articoli
Le prigioni europee si stanno trasformando in incubatori di radicalizzazione jihadista. A più di un decennio dalla comparsa dei primi segnali d’allarme, il fenomeno non solo non è stato contenuto, ma secondo gli esperti rischia oggi una nuova escalation. Le celle diventano terreno fertile per la diffusione dell’estremismo islamista, soprattutto tra detenuti giovani, vulnerabili o con precedenti per reati comuni.
Secondo l’Europol, i luoghi di detenzione restano uno dei principali canali di reclutamento del terrorismo jihadista in Europa. Le dinamiche osservate includono proselitismo, creazione di microgerarchie interne, uso del carcere come «campo di addestramento ideologico», e consolidamento di reti tra detenuti radicali e futuri aspiranti jihadisti. La Francia – il Paese europeo con il più alto numero di detenuti schedati per terrorismo – segnala oltre 500 prigionieri condannati per reati legati all’estremismo islamico e oltre 900 classificati come a rischio di radicalizzazione. Il governo ha creato unità speciali e centri sperimentali di deradicalizzazione, ma con risultati contrastanti.
Nel 2020, un rapporto del Senato francese ha definito «deludenti» gli effetti delle politiche di prevenzione. Il Belgio, Paese colpito duramente dagli attentati di Bruxelles del 2016, ha adottato un approccio di separazione dei detenuti radicalizzati (circa 200) per limitarne l’influenza sugli altri. Tuttavia, il modello è difficile da applicare su larga scala a causa del sovraffollamento e della mancanza di personale specializzato. Secondo gli ultimi dati ufficiali, al 30 giugno 2024 nel Regno Unito si trovavano in custodia 252 persone accusate di terrorismo o di reati collegati al terrorismo: si tratta del dato più elevato da quando, nel 2020, sono iniziate le rilevazioni statistiche comparabili. La maggioranza degli individui detenuti (63%) è stata classificata come aderente a ideologie estremiste di matrice islamista. Un ulteriore 29% risulta legato a correnti dell’estrema destra, mentre il restante 9% è associato ad altre forme di radicalismo.
Nel corso dei dodici mesi precedenti al 31 marzo 2024, sono stati rilasciati complessivamente 53 detenuti condannati per reati connessi al terrorismo. In Inghilterra e Galles, la maggior parte dei soggetti condannati per terrorismo sconta la pena in carceri comuni, sottoposta ai regimi detentivi standard. Tuttavia, a partire dal 2017, l’esecutivo guidato dai conservatori ha introdotto tre «unità di separazione» per isolare fino a 28 detenuti ritenuti tra gli estremisti più pericolosi, nel tentativo di limitarne l’influenza sugli altri reclusi. Secondo l’International Centre for the Study of Radicalisation (Icsr), think tank affiliato al King’s College di Londra, le prigioni rappresentano un «incubatore per quasi ogni gruppo terroristico dell’epoca moderna», funzionando spesso da «rampa di lancio verso un’ulteriore radicalizzazione». Al tempo stesso, l’Icsr riconosce che l’ambiente carcerario ha anche «contribuito ad allontanare molti detenuti dall’estremismo e a prevenire nuovi episodi terroristici». Nel suo rapporto dell’aprile 2022, Jonathan Hall Kc, revisore indipendente della legislazione antiterrorismo britannica, ha sottolineato come gli ultimi quattro attacchi terroristici avvenuti sul suolo britannico siano stati compiuti da individui detenuti in custodia (come nel caso del carcere di massima sicurezza Hmp Whitemoor) o recentemente rilasciati in regime di licenza nella comunità, come accaduto negli episodi di Fishmongers’ Hall, Streatham e Reading. Tali circostanze hanno sollevato crescenti timori sull’efficacia delle politiche penitenziarie nella gestione dell’estremismo e hanno riacceso il dibattito sulla necessità di un cambiamento strutturale dell’approccio istituzionale al fenomeno.
In Germania, secondo le più recenti valutazioni dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione (BfV), oltre 200 detenuti sono considerati a rischio radicalizzazione o già influenzati da ideologie estremiste. Una quota rilevante è ritenuta potenzialmente pericolosa, con legami accertati con reti jihadiste, in particolare con ambienti salafiti presenti sul territorio nazionale.
A destare allarme è la duplice funzione del carcere: non solo contenitore di soggetti già radicalizzati, ma anche ambiente fertile per il reclutamento e la diffusione dell’estremismo. L’isolamento, la rabbia verso le istituzioni, le fragilità psicologiche e il bisogno di appartenenza costituiscono un terreno ideale per l’adesione a ideologie violente.
A questo si aggiungono le attività di proselitismo all’interno delle strutture penitenziarie, spesso alimentate da detenuti già indottrinati o da falsi cappellani religiosi infiltratisi nel sistema. Per fronteggiare il problema, diversi Länder tedeschi hanno varato programmi di deradicalizzazione che coinvolgono imam moderati, psicologi e operatori sociali. Tuttavia, l’attuazione incontra ostacoli significativi: carenza di personale qualificato, barriere linguistiche e culturali, e una linea sottile e ambigua tra religione e radicalismo che rende complesso distinguere la fede autentica dalla propaganda estremista.
Uno scenario analogo si registra in Spagna. Secondo il ministero dell’Interno e vari rapporti dei servizi di intelligence, le carceri spagnole si stanno trasformando in veri e propri centri di radicalizzazione jihadista. Alla fine del 2024, erano circa 140 i detenuti classificati come membri dei «Grupos de Internos Radicalizados» (Gid), ossia prigionieri considerati estremisti islamici o particolarmente esposti al proselitismo salafita.
Il dato più significativo riguarda l’origine dei detenuti radicalizzati: oltre il 60% proviene dal Marocco, mentre il resto è composto da algerini, convertiti spagnoli e cittadini di altri Paesi del Maghreb e del Sahel. Non si tratta solo di soggetti passivi: molti proseguono la loro attività all’interno delle carceri, predicando l’ideologia salafita-jihadista e influenzando negativamente detenuti più giovani o psicologicamente vulnerabili. In un contesto segnato dal sovraffollamento e da risorse limitate, il controllo risulta spesso inefficace.
I programmi di deradicalizzazione promossi nei Paesi dell’Unione europea si presentano come frammentati e, nella maggior parte dei casi, scarsamente efficaci. L’assenza di un quadro comune a livello europeo, le difficoltà oggettive nel valutare i risultati concreti dei percorsi riabilitativi e la scarsa disponibilità dei detenuti a prendervi parte rappresentano ostacoli significativi. Un’indagine condotta da Eurojust ha messo in luce un dato allarmante: solo il 25% dei detenuti accetta di avviare volontariamente un processo di de-radicalizzazione, mentre la maggioranza respinge ogni forma di coinvolgimento esterno, percepita come una sorta di «rieducazione imposta dall’Occidente». Nel frattempo, le carceri europee continuano a costituire un terreno fertile per la proliferazione di nuove forme di estremismo. Quelle che dovrebbero essere strutture destinate al contenimento e alla riabilitazione del crimine rischiano sempre più spesso di trasformarsi in incubatori di radicalizzazione, alimentando dinamiche sotterranee ancora più difficili da contrastare.
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«Professore, avvocato e dottore. Viaggio nell’Italia dei sedicenti laureati e gli esperti di tutto». Stefano Piazza ne parla con Riccardo Puglisi, professore ordinario di scienza delle finanze all’Università di Pavia e socio dell’Istituto Lombardo. Si occupa del ruolo politico dei mass media, di finanza pubblica e istituzioni politiche, con pubblicazioni su riviste di economia e scienza politica.





