Draghi cede sui rubli. L’Ungheria non molla sugli oleodotti: «No all’embargo»

Il sovranista regna sovrano. Per adesso, almeno. Il premier ungherese, Viktor Orbán, continua a bloccare il negoziato sul sesto pacchetto di sanzioni. Mentre il nostro premier, da Washington, apre indirettamente al compromesso sul pagamento del gas russo.
Orbán ha invece fatto capire che darà il via libera a un embargo dell’Ue sul greggio russo solo a una condizione, rimarcata dal ministro degli Esteri magiaro, Peter Szijjarto: escludere «la parte destinata agli oleodotti». Budapest rilancia così il suo diniego alle misure, che prevedono comunque una deroga per i Paesi dell’Est Europa: la messa al bando, per loro, sarebbe entrata in vigore a partire dal 2025. Szijjarto spiega che le sanzioni distruggerebbero l’economia ungherese. Del resto, qualche giorno fa, Orbán aveva accusato la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, di avere «volontariamente o no attaccato l’unità europea. Le sanzioni al petrolio sarebbero per noi una bomba atomica».
In senso figurato, ovviamente. Toni da economia di guerra. Che però stridono con la risolutezza mostrata dal premier italiano, Mario Draghi, in visita a Washington. Ieri, nello studio ovale, ha incontrato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. «Siamo uniti nelle sanzioni e nell’aiutare l’Ucraina come ci ha chiesto il presidente Zelensky» conferma il presidente del Consiglio. Che, in conferenza stampa, apre sorprendentemente pure all’acquisto del gas in rubli, chiesto da Mosca e inizialmente avversato dall’Ue. «È una zona grigia», ammette Draghi. Che però aggiunge: «Non c’è nessuna dichiarazione ufficiale che si violino le sanzioni». Quindi, si dice «fiducioso». Anche perché «il più grande importatore, la Germania, ha già pagato in rubli e la maggior parte degli importatori di gas hanno già aperto dei conti in rubli». Eppure, lo scorso 25 marzo tuonava indignato: «È una violazione contrattuale». L’Italia, insomma, non si sarebbe piegata.
L’impasse sembra ora superato da una buona dose di realismo. A differenza delle sanzioni sul petrolio, che continuano a sgretolare la già provata compattezza continentale. L’Ungheria rimane inamovibile. La recente visita a Budapest della Von der Leyen è stata addirittura controproducente. Il diniego di Orbán è una deflagrante interdizione. L’impedimento alla sollecitata unanimità, indispensabile per applicare le nuove sanzioni. Nonostante la deroga temporale concessa dalla Commissione a Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca. A Budapest finirebbe anche una congrua somma di denaro, a fondo perduto, come compensazione per la «riconversione» industriale. Almeno 2 miliardi di euro: l’1,5 per cento del Pil nazionale. Ma il premier ungherese non cede. A dispetto delle accuse ricevute. Anche dall’Italia. «Si pone come chiaro ed esplicito alleato di Putin» dice uno «scandalizzato» Enrico Letta, segretario del Pd.
Il ruvido primo ministro ungherese non sembra però turbato dalle accuse del «Nipotissimo». È preoccupato invece per l’impatto negativo sull’economia. E fa pesare le sue ragioni. Niente unanimità. Niente sanzioni. La Von der Leyen si danna: «Sostengo da sempre che in alcuni settori chiave non abbia più senso, se vogliamo agire più velocemente». Ma il regolamento è chiaro: per le decisioni più importanti, tra cui anche le sanzioni, è necessario un voto concorde. Chi ha già deciso per l’embargo petrolifero alla Russia è invece il G7, che si è riunito in videoconferenza lo scorso 8 maggio. Tra cui, dunque, tre paesi europei: Italia, Francia e Germania. Nella dichiarazione finale viene esplicitato l’impegno a «vietare l’importazione di petrolio russo».
Invece, il sesto pacchetto europeo di sanzioni alla Russia resta travagliatissimo. La Von der Leyen è convinta che sarà comunque adottato: «Se dovesse esserci bisogno di un giorno in più lo prenderemo». Ma l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, avverte: se non si raggiunge un accordo entro domenica, dovrà «convocare una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri dell’Ue la prossima settimana».
Da Mosca, intanto, torna a farsi sentire il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, per controbattere all’accusa di affamare il mondo. L’Onu denuncia: nei porti del Mar Nero, causa invasione russa, rimangono stoccate milioni di tonnellate di cereali. Lavrov replica: «Sono problemi creati esclusivamente dai divieti illegali introdotti dai Paesi occidentali». Comunque sia: ne hanno parlato anche Biden e Draghi, nell’incontro in cui il premier italiano ha inaspettatamente aperto al pagamento del gas russo in fruscianti rubli. «Dobbiamo chiedere alla Russia di far partire il grano bloccato nei porti ucraini» dice al presidente americano. Il ministro degli Esteri russo però rintuzza. Mosca non ha responsabilità. Colpa delle sanzioni, piuttosto. Sarebbero gli ucraini, aggiunge, a non voler collaborare. Nessun dialogo. Scontro totale. Stallo estenuante. Anche sui bastimenti carichi di cereali.






