2022-06-03
La doppia fregatura sul risparmio italiano: un terzo è all’estero e mal difeso in Europa
Circa 900 miliardi degli investimenti dei privati vengono gestiti da operatori stranieri. Penalizzati da nostre leggi e dalle lobby Ue.Oltre un terzo della ricchezza finanziaria delle famiglie è oggi investito in strumenti del risparmio gestito e l’industria del cosiddetto asset management non è mai stata così forte: con oltre 2.500 miliardi di masse alla fine del 2021 (solo cinque anni fa il livello era sotto quota 2 mila miliardi) e una spinta nella raccolta di 93 miliardi lo scorso anno, i segnali dei primi mesi del 2022 confermano la solidità del settore. Questo, grazie ai big italiani che sono pionieri ma devono fare i conti con la concorrenza sempre più agguerrita delle società straniere a caccia di clienti in un mercato assai ghiotto. I numeri parlano da soli: nel 2005 il patrimonio gestito da gruppi di diritto italiano era di oltre 1.033 miliardi (tra gestioni collettive e di portafoglio), mentre quello gestito da soggetti esteri era poco più di 81 milioni, pari al 7% del totale. Nel 2021, quella percentuale è lievitata: a fronte degli 1,7 miliardi di patrimonio gestito da italiani, quelli in mano a gruppi di diritto estero sono stati quasi 890 milioni, ovvero il 34%. Per competere, i big nazionali hanno però bisogno di poter giocare la partita ad armi pari, ovvero potendo contare su un quadro normativo e fiscale chiaro e che non cambia in continuazione ma anche su un’attività di lobbying che rappresenti adeguatamente gli interessi dell’industria in Europa. Gli operatori italiani finora si sono fatti rappresentare dall’associazione Efama (European Funds and Asset Management Association), di cui fa parte Assogestioni, ma con scarsi risultati. Anche perché dentro questo organismo hanno ancora molta presa, nonostante la Brexit, le società inglesi che premono affinché vengano adottati sul mercato europeo modelli di remunerazione come quello introdotto in Uk qualche anno fa, il cosiddetto ban sugli sconti alle commissioni di gestione, che però è tarato sul loro sistema di vendita dei prodotti mentre sarebbe un problema per il nostro basato invece su promotori monomandatari. Non solo. Gli interessi dei gruppi italiani del risparmio gestito si scontrano a Bruxelles con quelli di altri Paesi come il Lussemburgo che ha fatto dell’efficienza una carta vincente per attrarre nuovi clienti, o come l’Irlanda che offre un tax rate estremamente conveniente. Per questo servirebbe in Europa una capacità di ascolto e di confronto, che finora è mancata. Soprattutto in vista di nuovi provvedimenti che impatteranno sul comparto: la Commissione europea ha proposto una revisione della Direttiva europea sull’Iva proponendo in alternativa di rimuovere l’esenzione per tassare i servizi finanziari e assicurativi, o mantenerla, ma modificando la sua portata attraverso una tassazione limitata ad alcuni tipi di servizi. È però difficile far sentire la propria voce, e farsi rispettare, se si opera in un settore che non è considerato strategico dalle istituzioni nazionali e se si deve partire già svantaggiati per le normative contraddittorie, per i rapporti faticosi con i tanti regolatori e per un sistema di tassazione che spesso opera in maniera retroattiva alimentando l’incertezza, ovvero il peggio nemico per chi opera nella finanza. Prima di poter illustrare le proprie istanze a Bruxelles, dunque, andrebbe risolta la relazione complicata tra i nostri big del risparmio gestito con i politici che stanno a Roma. Martedì scorso, nelle sue considerazioni finali davanti all’assemblea di Bankitalia, il governatore Ignazio Visco ha sottolineato come sia ancora bassa la quota di risparmio italiano gestito dai fondi comuni che viene impiegato per finanziare le imprese nazionali. Ma la crescita della «finanza non bancaria deve avvenire in condizioni di stabilità», ha aggiunto Visco, secondo cui «i rischi degli investimenti finanziari non possono essere annullati ma devono essere meglio compresi dai risparmiatori». Il governatore ha ricordato come i fondi gestiscano 1.300 miliardi contro i 1.400 miliardi di depositi bancari ma solo il 5% delle risorse amministrate è investita in titoli di imprese nazionali contro il 34% della Francia e il 14% di Germania. «Queste differenze», ha spiegato, «riflettono, in buona parte, la struttura del settore produttivo italiano, caratterizzata da un numero relativamente elevato di aziende di dimensioni contenute, che meno ricorrono ai mercati dei capitali per finanziare le proprie attività. Le competenze dei gestori attivi negli investimenti in settori innovativi e negli interventi di rilancio aziendale possono svolgere un ruolo importante nella selezione e nel finanziamento delle imprese a più alto potenziale di crescita». In sostanza, il messaggio è questo: la ricchezza finanziaria degli italiani è uno dei punti di forza del Paese, ma potrebbe e dovrebbe essere sfruttata meglio. Parole sacrosante che però hanno suscitato amarezza in molti operatori del mercato che hanno subito pensato alla fine fatta dai Pir, affossati proprio dalla politica dopo infinite trattative che hanno paralizzato l’utilizzo dei piani individuali di risparmio come canale di investimento verso le piccole aziende.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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