2022-02-26
Francesco Flachi: «Dopo 12 anni ho detto “bravo” a me stesso»
L’asso di Fiorentina e Samp, recidivo col doping, ha scontato la maxisqualifica. A 46 primavere è in Eccellenza: «Volevo rigiocare prima di allenare». Sul calcio di oggi: «I giocatori sembrano robot. Io ero istintivo: ho fatto danni fuori ma la differenza in campo».Quando portava la maglia numero 10 della Fiorentina, la curva Fiesole cantava: «Il ragazzo gioca bene». Metà degli anni Novanta, con lui c’erano Gabriel Batistuta e Rui Costa. Più tardi anche Marcello Lippi se ne accorse e lo chiamò in Nazionale. Era la storia del talento sregolato che sfonda. La favola s’incrinò nel 2007: positivo al doping. Una volta, poi una seconda. Dodici anni di squalifica. La cocaina lo spinse ai margini. Aprì una paninoteca, poi un altro locale. Pian piano si è riavvicinato al primo amore. Collaborando con altri allenatori perché la domenica, in panchina, non poteva andarci. Domenica 13 febbraio, invece, Francesco Flachi, 46 anni, ha calzato di nuovo gli scarpini con il Signa 1914, squadra di Eccellenza toscana. Rinascita, riscatto, rivincita: che parola userebbe per raccontare la sua parabola?«Non saprei neanch’io. Questa vicenda è nata un po’ per caso, non pensavo avesse tutta questa risonanza mediatica. Non ero preparato... Diciamo la verità: sono solo tre mesi nel campionato di Eccellenza. L’età è quella che è. La parola giusta forse è rinascita. Anche considerando gli alti e bassi di questi 12 anni. Quello che mi è successo mi ha cambiato la vita, ho dovuto arrangiarmi con altre attività, quindi sì, rinascita ci può stare».È stato un nuovo debutto?«Questo sì. Sul piano emotivo è stato un momento quasi più coinvolgente di quand’ero giovane perché avevo perso l’abitudine. Al campo, alla partita. C’era molta attesa… Arrivare al campo, giocare davanti a tanti vecchi amici».Qual è stato il primo pensiero, la prima cosa che ha detto a sé stesso?«Dopo tutto quello che è successo un “bravo” me lo sono detto. Sono passato in un attimo dall’avere tutto all’avere niente. Perciò è servito un lavoro di ricostruzione a livello personale e di immagine. Un “bravo” credo di meritarmelo».Qual è stata la molla?«È nato tutto da una battuta di Andrea Ballerini, il presidente del Signa che conosco da trent’anni, e con il quale già collaboravo: “Secondo me non ce la fai a giocare”. Ho raccolto la provocazione per vedere dove potevo arrivare. Per tre mesi mi sono allenato quattro volte la settimana. Rimettersi in gioco dopo 12 anni è faticoso, ma più passava il tempo e più mi sentivo meglio sia fisicamente che mentalmente, perciò ho accettato la sfida. La sera tornavo distrutto dagli allenamenti, quasi quasi mi ci volevano le stampelle, di notte dormivo poco per i dolori. Però la sensazione di riprendere a fare quello che mi piace e che mi sono rovinato da solo mi ha ripagato e motivato».Le hanno dato 12 anni di squalifica perché recidivo: troppi?«Quando uno sbaglia deve pagare, non sta a me dire se sono troppi. Li ho scontati e ora guardo avanti». Ha giocato con Batistuta e Rui Costa, ha sfiorato la qualificazione alla Champions league con la Sampdoria di Walter Novellino e Beppe Marotta: come fa a giocare in Eccellenza?«I palcoscenici sono diversi, ma il calcio dà emozione anche nelle categorie inferiori. Non sono stato un buon esempio per i ragazzi di ora. Il mio contributo è consigliare, anche da allenatore, di non buttarsi via. Se si hanno qualità e ambizioni, si possono fare cose importanti per e con gli altri. Quello che non ho fatto io».Com’è giocare con ragazzi molto più giovani?«Molti di loro potrebbero essere miei figli, infatti ho una ragazza di vent’anni. Sono loro a trascinarmi, a farmi sentire importante. Poi vanno a mille all’ora e per me è dura. Provo a dare qualche stimolo, a essere un esempio di serietà, arrivando al campo un’ora prima dell’allenamento».Fa loro da padre o li consiglia solo dal punto di vista tecnico?«Da padre non mi posso certo permettere. E sulla tecnica c’è l’allenatore, magari posso dare qualche consiglio per migliorarli sul piano tattico. Ma tutto parte e finisce con l’allenatore».Che cosa pensa di Zlatan Ibrahimovic, 41 anni, e Fabio Quagliarella, 39, che non mollano in Serie A e di Gianluigi Buffon a 44 in Serie B?«Se, oltre a essere un lavoro, giocare a calcio è la passione della tua vita non vorresti mai smettere. Per continuare e magari raggiungere traguardi importanti si è disposti a fare grossi sacrifici. Chi si allena con loro o ci gioca contro dovrebbe capire cos’hanno dentro e cosa possono trasmettere questi campioni. Dovrebbero apprendere da loro. Invece, i ragazzi di oggi hanno un atteggiamento un po’ diverso».In che senso?«Sono un po’ presuntuosi, dopo due partite pensano di essere arrivati. Non tutti, certo. Ma il calcio è cambiato, si guarda troppo a sé stessi e alla propria riuscita, e poco all’appartenenza alla società e ai tifosi».Colpa dell’eccessiva importanza conquistata dai procuratori?«Questo influisce molto. Ai miei tempi decidevamo noi giocatori dove andare. Adesso il procuratore è molto presente, ma chi deve prendere la decisione dev’essere il giocatore».In questi mesi che cosa si diceva andando ad allenarsi, aveva un suo mantra?«Mi dicevo: ma chi me l’ha fatto fare? Tornavo a casa stremato. Però quelli che avevo erano dolori piacevoli, che mi facevano star bene perché causati dal lavoro che mi piace».In questi anni si era allontanato dal calcio, aveva aperto una paninoteca...«Ho dovuto cercare di fare qualcosa che non immaginavo. Ho aperto due locali, ho lavorato per le radio e le tv locali. Poi mi sono riavvicinato, ho allenato i ragazzi delle giovanili».Ha dato lezioni anche ai bambini.«La prima volta ho allenato la Bagno a Ripoli, una squadra di terza categoria, conquistando la promozione in seconda, poi ci siamo salvati e abbiamo vinto la Coppa toscana di categoria. Per allargare il mio bagaglio tecnico in proiezione futura mi sono voluto confrontare con i bambini. Se voglio fare l’allenatore…».Voleva restituire qualcosa a un mondo che le ha dato tanto?«No, è stato un modo di allargare le mie conoscenze. Ho cercato un approccio… Del resto, il mio contributo era limitato non potendo andare in panchina per la partita. Aiutavo gli allenatori di quattro o cinque squadre, per far migliorare i ragazzi a livello tattico».Quanto è difficile per un ragazzo gestire il proprio talento?«Dipende dal carattere. Io sono sempre stato un istintivo. È una caratteristica che mi ha fatto fare danni fuori dal campo e, a volte, la differenza in campo. Ti trovi in certe situazioni e in quel momento ti va di fare una cosa e la fai senza pensarci. Non pensi se è un’azione positiva o no. Quando smetti di giocare, quando ti allontani, capisci dove hai sbagliato».E adesso?«Suggerisco ai ragazzi di non sprecare un minuto di allenamento o di partita. Se ti alleni poco non puoi lamentarti se la domenica non giochi. L’allenatore deve fare delle scelte e se vede poco impegno… Te ne accorgi quando smetti».Perché un ragazzo che è stato nel giro della Nazionale si butta via?«Non lo so. Sono cose che a volte, istintivamente, momentaneamente, mi sono piaciute. Ma se ti fermi un attimo, ti dici “chi cazzo me l’ha fatto fare?”. Ti trovi in situazioni che ti prendono, ma il giorno dopo ti rendi conto che sei stato un coglione. Forse in quel momento ero più debole e ho scelto l’azione sbagliata».Cosa le piace e cosa non le piace del calcio di oggi?«Faccio fatica a vedere una partita per tutti i 90 minuti?».Perché?«È un calcio diverso, schematizzato, parlo di quello italiano. A volte i giocatori mi sembrano dei robot. Se eseguono gli schemi, bene; se escono, sono persi. Vedo poca genialità, poco estro».Rispetto a vent’anni fa il fattore umano conta di più o di meno?«Prima contava di più. C’erano molti più italiani e un senso di appartenenza alla maglia. C’era uno spirito diverso. Oggi in spogliatoio si parlano otto lingue, è molto più difficile se non impossibile, creare il gruppo».Ha seguito gli Europei e i successi della Nazionale?«Roberto Mancini ha realizzato un’impresa inaspettata. Si è visto un po’ il calcio dei nostri tempi, improntato alla coesione e allo spirito di gruppo. L’Italia non era accreditata eppure ha vinto: questo dimostra che se ci sono le motivazioni e lo spirito giusto si possono raggiungere obiettivi sorprendenti. È stato quasi un miracolo di Mancini, un esempio da tenere davanti».Già adesso per la qualificazione ai Mondiali è difficile ripetersi.«Non mi stupisco, i nostri club faticano in Europa. Non so se l’Inter riuscirà a ribaltare la situazione con il Liverpool. Vedremo la Juventus… Da tanto non ci sono squadre italiane ai vertici europei».La Fiorentina è destinata a vendere sempre i suoi gioielli alla Juventus?«È una situazione che riguarda tante società, non solo la Fiorentina. Come dicevo, il valore dell’appartenenza al club è scomparso. Salvo pochi casi precisi, ai miei tempi si restava più a lungo nella stessa squadra. Oggi c’è più possibilità di guadagnare e reinvestire e le società meno forti sono quasi obbligate a vendere. Poi tutto dipende dal giocatore perché la decisione ultima è sua».Chi vincerà lo scudetto?«È una lotta a tre. Come squadra e come rosa l’Inter è superiore. Il Napoli ha una compattezza e una qualità che la rendono molto competitiva. Il Milan ha un bel gioco, è una mina vagante. È tutto aperto».C’è qualcuno che ammira nell’ambiente di oggi?«Walter Novellino, che mi è sempre rimasto vicino ed è venuto a vedermi con il Signa».Tra i giocatori chi apprezza?«Si fa fatica a scegliere, fuoriclasse non ne vedo molti. Lorenzo Insigne, Domenico Berardi e Giacomo Raspadori sono quelli che tentano la giocata oltre gli schemi».Ha conservato qualche amicizia di quando giocava?«Ho ottimi rapporti con tanti. Ognuno fa la propria vita e ci si vede sempre meno, ma quando ci si ritrova è come se ci si vedesse tutti i giorni».Da giugno frequenterà il corso allenatori, basta giocare?«Sì, basta. Non si possono fare entrambe le cose. Prima prenderò il patentino base e poi m’iscriverò a Coverciano».