2024-11-12
Donatella Turri: «Non me n’è mai fregato nulla del cinema»
Donatella Turri e Luigi Tenco durante le riprese de La Cuccagna (1962) di Luciano Salce (Getty Images)
L’ex attrice: «Non ricordo i film che ho fatto. Mentre mi truccavano addirittura dormivo. La carriera? Non era una preoccupazione. Luchino Visconti mi stava davvero sulle scatole: faceva tanto il “compagno” ma se non veniva chiamato “eccellenza” si storceva».Donatella Turri anche per i cinefili più incalliti è un nome nei titoli di testa del cinema italiano e francese anni Sessanta, scomparsa apparentemente nel nulla. Una meteora. E invece volava più alto, seguendo le coordinate di uno strano fenomeno di costume che ora fa impallidire le star e starlette dei social. La vita di Donatella Turri profuma di jet set, una fragranza ormai perduta.«Mi sono sposata a 22 anni con l’attore Maurizio Bonuglia e siamo andati ad abitare a Londra, ma eravamo quasi sempre a Saint-Tropez. Voglia di lavorare pochissima, voglia di divertirci tanta! Siamo stati insieme due anni. Non ne potevo più perché era spiritoso, divertente, ma anche un po’ squinternato. Gli ho detto: “Vado a trovare mamma a Ischia”. Non sono più tornata!».Dove l’aveva incontrato?«All’inaugurazione del Piper. Maurizio aveva appena fatto Il Gattopardo. Ogni tanto qualcuno mi chiama e mi chiede di un film che avrei fatto... io non ricordo nulla. Pensa quanto l’ho preso sul serio il cinema! Non avevo il sacro fuoco di emergere».Com’è capitato che ha fatto il suo primo film, I dolci inganni di Alberto Lattuada? «Quando cercavano ragazze che parlassero un po’ di lingue, la gente di cinema veniva all’uscita dei licei internazionali».L’hanno fermata?«Ogni volta mi fermavano». Per la sua bellezza…«Non solo. Sprizzavo gioia di vivere, attaccavo bottone con tutti perché ero stata per anni ingessata a causa di una lussazione dell’anca. Nella Bologna distrutta dalla guerra fui salvata dal professor Oscar Scagnetti, luminare dell’ortopedia. Ho combattuto per sei anni, camminando dieci minuti al giorno, attaccata ai muri. Quando ho potuto finalmente sgambettare, mi sono scatenata e non mi ha fermato più nessuno». Si era trasferita dal Friuli a Bologna per farsi curare? «Sono nata a Palmanova sotto un bombardamento e mia madre, che era rimasta vedova da quattro mesi, non riuscì nemmeno ad arrivare in ospedale. Poi è sfollata con Riccardo Bacchelli, che aveva appena finito il romanzo Il mulino del Po. A Bologna ha conosciuto Roberto Gandolfi, il mio fantastico patrigno, anzi mio papà. Ecco perché mi chiamo Donatella Turri Gandolfi, anzi Maria Donatella Valeria Turri Gandolfi! Sono dovuta andare da un notaio per fare ordine tra i miei nomi».Quando è venuta a vivere a Roma?«Finita la terza media. Mamma ha detto che Bologna ci stava stretta: simpatici, divertenti, ma un po’ campagnoli! “Torno a Roma”, perché prima della guerra aveva lavorato all’Unione degli industriali. Mamma era un altro personaggio incredibile: era scappata da Venezia perché la detestava. Siccome aveva la bambinaia tedesca, ha fatto una scuola assurda per quei tempi, Avviamento amministrativo, e grazie a quegli studi ha gestito varie imprese di costruzioni».A Roma è entrata nel mondo del cinema. Il film che l’ha lanciata è La cuccagna di Luciano Salce del 1962, dov’è la protagonista insieme a un certo Luigi Tenco.«Me lo ha fatto conoscere Luciano: “Ho conosciuto un ragazzo che sta facendo il suo primo disco”. La macchina della produzione passava prima a prendere lui, poi veniva da me, visto che per tirarmi giù dal letto bisognava prendermi a calci. Luigi faceva colazione con mamma, mentre io in trance raggiungevo faticosamente la cucina. Loro parlavano e così sono diventati amici. Poi andavamo al lavoro e mentre mi truccavano, dormivo. Quando dovevano dare il ciak, Salce con una pedata mi spediva sul set, però ce l’ho fatta in qualche modo. Tenco non si è ammazzato, non mi convincerà mai nessuno. Io in quel periodo lavoravo al programma radiofonico Bandiera gialla con Gianni Boncompagni».Di cosa si occupava?«Io ero quella poveraccia che stava chiusa in una stanza e si vedeva recapitare una pila di dischi. Gianni mi diceva: “Dimmi quelli che ti piacciono perché devono piacere ai giovani”. Renzo Arbore e anche Gianni amavano molto la musica orientale, a me dopo un quarto d’ora sentivi russare al terzo piano: mi piaceva ballare il rhythm and blues. Un giorno mi ha chiamato il portiere: “Qui c’è un matto che dice che lo avete invitato in trasmissione. Ha un cilindro in testa, una mantella dal colore improponibile e delle scarpe con i tacchi alti». Ho capito subito...».Chi era?«Renato Zero. Lo adoravo: era simpatico, generoso, buono. Mi piacerebbe rivederlo. Alla Rca gli aprivo le porte di nascosto e rubavamo le lacche con cui lui preparava i provini. Aveva un Maggiolino ma non aveva la patente, mentre io avevo la patente ma i miei ancora non mi avevano comprato la macchina perché ero scapestrata, allora guidavo io la sua macchina. Gli ho presentato una mia amica che abitava al piano sopra di noi e sono stati insieme per anni. È lei che ha scelto il nome Zero perché occorreva un nome corto». In Uno strano tipo di Lucio Fulci il protagonista era un altro cantante in grande ascesa, Adriano Celentano.«Sul set ad Amalfi gli ho presentato Claudia Mori, che avevamo conosciuto durante i provini de La dolce vita. Fellini era amico di mamma. Si erano conosciuti quando mi portava in vacanza dalle parti di Rimini a fare le sabbiature. Il provino non andò bene perché serviva una ragazza innocente per la scena finale sulla spiaggia, ma io ero solo una “padellata” d’occhi, per il resto ero secca secca. Claudia Mori arrivò sulla canna della bicicletta del padre che portava il cappello fatto con le pagine dei giornali, come usavano i muratori dell’epoca. Poi non l’ho più vista, fino alle riprese di Uno strano tipo». Com’è avvenuto l’incontro tra i due?«Io ero nella hall dell’albergo e lei, appena arrivata da Roma, mi ha chiesto come fosse Celentano. “È una persona carina e simpatica”, le ho risposto. È arrivato in quel momento Adriano... colpo di fulmine! Lui ha perso la testa per lei, che poi gli ha fatto il vuoto attorno, facendo scappare tutti i ragazzi del Clan».In Uno strano tipo c’era anche Don Backy.«Alle tre di notte Adriano e Don Backy, ubriachi come due cucuzze, mi hanno fatto la serenata, solo che hanno sbagliato finestra e sono andati a farla sotto la stanza accanto, dove dormiva mia mamma. Lei aveva dei fiori in camera, li ha tolti dal vaso e poi ha buttato loro l’acqua in testa!».Sua madre l’accompagnava?«Non incombeva, però mi faceva delle sorpresine. A Parigi ha sentito che avevo un raffreddore, ha preso l’aereo e mi ha raggiunta. Mannaggia a lei! Dovevo andare a cena con una vecchia fiamma di Brigitte Bardot. Suona il campanello e me la ritrovo davanti. Mi ha messo a letto, all’epoca non c’erano i cellulari per avvertire. Sono andata a casa sua a cena dopo anni».Perché ha interrotto la carriera? «Perché non me ne fregava niente. Il nipote del presidente della Regione Sardegna, amico di mio padre che all’epoca aveva delle costruzioni a Oristano, era console italiano alle Seychelles. Insisteva: “Venitemi a trovare, è il paradiso in terra”. I miei hanno fatto il primo viaggio prima di Natale, che è la stagione delle piogge, non proprio il massimo. Al ritorno mio padre era stato effettivamente in paradiso, mia madre alla Cayenna! Odiava il mare e le zanzare lì ti pungono come scorpioni. Sembrava che fossero andati in posti diversi. Allora io, genio, ho detto: “Decide la maggioranza” e siamo partiti tutti e tre. Mi sono innamorata del posto. Sono stata lì dai 26 ai 35 anni. Dovrei scrivere un libro solo sulle Seychelles».Quindi ha mollato tutto?«Tutto tutto no. Partivo a fine ottobre e tornavo a maggio. A maggio e giugno stavo a Ischia, a luglio a Saint-Tropez, ad agosto in Costa Smeralda, che mio padre ha contribuito a far nascere».Perché siete tornati in Italia?«Quando c’è stato il colpo di Stato, hanno cominciato a entrare nelle case con il mitra. Ci siamo detti: “No, grazie. Abbiamo quelli di San Babila che ci tirano i sanpietrini, andiamo a prendere quelli di casa nostra!”». A Saint-Tropez aveva un appartamento accanto a quello di Brigitte Bardot, con cui condivide l’amore per gli animali, in particolare i cani...«Nel 1968 Brigitte stava facendo i lavori nella villa La Madrague e si è trasferita sopra il Papagayo, al Residence du Port, dove nell’appartamento di fianco c’eravamo Maurizio Bonuglia e io. Era l’estate del grande amore con Gigi Rizzi. Spesso litigavano e lei lo buttava fuori di casa. La prima volta ce lo siamo trovati nudo che bussava al nostro appartamento perché lei gli aveva chiuso la porta in faccia. Maurizio gli ha dato un paio di pantaloni e una maglietta e Gigi è andato a dormire nella Rolls di lei parcheggiata sotto il residence. Poi alle prime ore del mattino Brigitte è andata a recuperarlo. Per un paio di giorni sembrava tutto bene, poi ce lo siamo ritrovati davanti, stavolta in mutande. Maurizio gli ha detto: “Però riportami i vestiti che ti do perché fra un po’ non ne ho più io!”. Quando sentivamo che alzavano la voce, Maurizio gli metteva fuori un paio di pantaloni». A Ischia invece avevate come vicino Luchino Visconti...“Mi è sempre stato sulle scatole. Faceva il compagno che arrivava con l’Unità sottobraccio, però se non lo chiamavano “eccellenza e non issavano la bandiera dei Visconti di Modrone si storceva. Una notte insieme a Luca Stucchi, Egon von Fürstenberg e Helmut Berger gli abbiamo rubato la bandiera con il serpentone. Vi lascio immaginare cosa abbiamo disegnato sopra e poi l’abbiamo rimessa sull’asta. La mattina è successo una Caporetto: licenziata tutta la servitù! Se lo meritava».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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