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2023-03-17
Su Disney+ il film sullo «Strangolatore di Boston»
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«Lo Strangolatore di Boston» (Disney+)
Quando i fatti avvennero, negli Stati Uniti non si sapeva nulla. Non ancora. La definizione dei profili criminali era da venire e gli assassini non erano descritti come «seriali». I crimini violenti venivano trattati alla stregua di fatti brutali, ma circoscritti: meteore, senza passato né futuro. Senza uno schema ricorrente, un modus operandi. Senza quel che gli anni e gli studi e una dose generosa di narrazione mediatica ci avrebbero insegnato esistere.
La mente criminale, nella prima metà degli anni Sessanta, quando i fatti avvennero, era materia inaccessibile. A tratti, pareva che nemmeno interessasse comprenderne i meccanismi. Non alle forze dell’ordine, quantomeno. Loretta McLaughlin e Jean Cole, giornaliste a Boston del Record American, un piccolo quotidiano locale, si dice abbiano dovuto lottare perché la polizia desse loro retta. Volevano una maggiore attenzione su quella serie di omicidi che ritenevano connessi fra loro. Chiedevano approfondimenti, indagini. E, alla fine, ottennero che il caso, a livello mediatico, fosse trattato con la dovuta serietà. Soprattutto, con la dovuta trasparenza.
Loretta McLaughlin e Jean Cole, costrette nell’America degli anni Sessanta a firmare qualche pezzullo sulla gestione della casa o i bei vestiti delle donne in vista, furono le prime a individuare uno schema ricorrente nelle azioni di quelle che poi fu ribattezzato «lo Strangolatore di Boston». L’uomo stuprava le vittime, le strangolava con una calza, poi ne esponeva i corpi. Le morti aumentavano. Boston, Cambridge, Lynn, Salem, Lawrence. Le giornaliste chiedevano di poter divulgare le proprie scoperte. Le autorità minacciavano ritorsioni. Ma il direttore del Record American, Jake McLaine, decise di sostenerle. Fu allora che il caso esplose. Lo Strangolatore di Boston, cui il regista Matt Ruskin ha dedicato un film, su Disney+ da venerdì 17 marzo, divenne l’incubo di ogni donna. Sembrava non avere una vittima prediletta. Non uccideva per fasce di età. Non pareva attratto da una qualche, particolare caratteristica. Seviziava e ammazzava senza logica apparente. Le vittime avevano età comprese fra i diciannove e i settantacinque anni. Erano more o bionde, basse o alte. Non si somigliavano. Non provenivano da uno stesso segmento sociale. Eppure, nel caos della razionalità, Loretta McLaughlin e Jean Cole riuscirono a trovare dei punti fermi. Un modus operandi, diremmo con il senno del poi. Un senno che in Ruskin ha portato ad una decisione ferma. Il regista, Lo Strangolatore di Boston, ha voluto girarlo da una prospettiva particolare, quella delle due donne che per prime ne hanno raccontato l’agire.
La pellicola, con Keira Knightley e Carrie Coon protagoniste, ripercorre il caso attraverso gli occhi delle due giornaliste, senza indugiare sulla violenza e la brutalità dei fatti. «Non volevo cedere al sensazionalismo o mostrare violenza gratuita. Il mio obiettivo era quello di umanizzare le vittime, non di trattarle con mancanza di tatto», ha spiegato Ruskin, che nel film non si è addentrato nel merito di polemiche che ancora oggi risuonano. Albert DeSalvo, che negli anni Sessanta confessò una parte degli omicidi, non per tutti è lo Strangolatore di Boston. Poco importa si sia proclamato tale. A suo carico non esisterebbero prove e pure l’esame del Dna, effettuato nel 2013 sui resti biologici ritrovati su una delle vittime, non dimostrerebbe nulla. DeSalvo, per alcuni, sarebbe innocente: un ladro, uno stupratore, non un assassino. Ma di questo Ruskin non ha voluto parlare.
Lo Strangolatore di Boston si limita a ripercorrere le indagini e il lavoro giornalistico che è corso parallelo a queste. Si limita a restituire il merito di certe scoperte a due donne che la storia ha cancellato. «Il film è una sorta di canzone d'amore dedicata al giornalismo investigativo delle reporter», ha detto Keira Knightley.
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La pellicola, con Keira Knightley e Carrie Coon protagoniste, ripercorre il caso attraverso gli occhi delle due giornaliste Loretta McLaughlin e Jean Cole, senza indugiare sulla violenza e la brutalità dei fatti. «Non volevo cedere al sensazionalismo o mostrare violenza gratuita. Il mio obiettivo era quello di umanizzare le vittime, non di trattarle con mancanza di tatto», ha spiegato il regista Matt Ruskin.Quando i fatti avvennero, negli Stati Uniti non si sapeva nulla. Non ancora. La definizione dei profili criminali era da venire e gli assassini non erano descritti come «seriali». I crimini violenti venivano trattati alla stregua di fatti brutali, ma circoscritti: meteore, senza passato né futuro. Senza uno schema ricorrente, un modus operandi. Senza quel che gli anni e gli studi e una dose generosa di narrazione mediatica ci avrebbero insegnato esistere.La mente criminale, nella prima metà degli anni Sessanta, quando i fatti avvennero, era materia inaccessibile. A tratti, pareva che nemmeno interessasse comprenderne i meccanismi. Non alle forze dell’ordine, quantomeno. Loretta McLaughlin e Jean Cole, giornaliste a Boston del Record American, un piccolo quotidiano locale, si dice abbiano dovuto lottare perché la polizia desse loro retta. Volevano una maggiore attenzione su quella serie di omicidi che ritenevano connessi fra loro. Chiedevano approfondimenti, indagini. E, alla fine, ottennero che il caso, a livello mediatico, fosse trattato con la dovuta serietà. Soprattutto, con la dovuta trasparenza. Loretta McLaughlin e Jean Cole, costrette nell’America degli anni Sessanta a firmare qualche pezzullo sulla gestione della casa o i bei vestiti delle donne in vista, furono le prime a individuare uno schema ricorrente nelle azioni di quelle che poi fu ribattezzato «lo Strangolatore di Boston». L’uomo stuprava le vittime, le strangolava con una calza, poi ne esponeva i corpi. Le morti aumentavano. Boston, Cambridge, Lynn, Salem, Lawrence. Le giornaliste chiedevano di poter divulgare le proprie scoperte. Le autorità minacciavano ritorsioni. Ma il direttore del Record American, Jake McLaine, decise di sostenerle. Fu allora che il caso esplose. Lo Strangolatore di Boston, cui il regista Matt Ruskin ha dedicato un film, su Disney+ da venerdì 17 marzo, divenne l’incubo di ogni donna. Sembrava non avere una vittima prediletta. Non uccideva per fasce di età. Non pareva attratto da una qualche, particolare caratteristica. Seviziava e ammazzava senza logica apparente. Le vittime avevano età comprese fra i diciannove e i settantacinque anni. Erano more o bionde, basse o alte. Non si somigliavano. Non provenivano da uno stesso segmento sociale. Eppure, nel caos della razionalità, Loretta McLaughlin e Jean Cole riuscirono a trovare dei punti fermi. Un modus operandi, diremmo con il senno del poi. Un senno che in Ruskin ha portato ad una decisione ferma. Il regista, Lo Strangolatore di Boston, ha voluto girarlo da una prospettiva particolare, quella delle due donne che per prime ne hanno raccontato l’agire. La pellicola, con Keira Knightley e Carrie Coon protagoniste, ripercorre il caso attraverso gli occhi delle due giornaliste, senza indugiare sulla violenza e la brutalità dei fatti. «Non volevo cedere al sensazionalismo o mostrare violenza gratuita. Il mio obiettivo era quello di umanizzare le vittime, non di trattarle con mancanza di tatto», ha spiegato Ruskin, che nel film non si è addentrato nel merito di polemiche che ancora oggi risuonano. Albert DeSalvo, che negli anni Sessanta confessò una parte degli omicidi, non per tutti è lo Strangolatore di Boston. Poco importa si sia proclamato tale. A suo carico non esisterebbero prove e pure l’esame del Dna, effettuato nel 2013 sui resti biologici ritrovati su una delle vittime, non dimostrerebbe nulla. DeSalvo, per alcuni, sarebbe innocente: un ladro, uno stupratore, non un assassino. Ma di questo Ruskin non ha voluto parlare. Lo Strangolatore di Boston si limita a ripercorrere le indagini e il lavoro giornalistico che è corso parallelo a queste. Si limita a restituire il merito di certe scoperte a due donne che la storia ha cancellato. «Il film è una sorta di canzone d'amore dedicata al giornalismo investigativo delle reporter», ha detto Keira Knightley.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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