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2020-05-25
Disabili. Dimenticati due volte
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Nel decreto Rilancio la disabilità è stata trattata come una seccatura da sbrigare in poche righe, senza interventi energici capaci di offrire soluzioni dignitose a 2,3 milioni di famiglie italiane nelle quali vive almeno una persona con limitazioni gravi. Appena 90 milioni di euro al Fondo non autosufficienze (dal quale almeno è stato tolto il vincolo della disabilità gravissima per poter utilizzare le risorse), che sale a 661 milioni di euro per il 2020, mentre le associazioni chiedevano almeno un miliardo di euro in sostegni. Poi sono stati concessi 40 milioni di euro per mettere in sicurezza le strutture semiresidenziali. Fine delle misure del governo giallorosso in aiuto dei disabili, duramente colpiti durante l'emergenza dal blocco completo di molti servizi essenziali, quali i centri diurni, e dalla sospensione dei progetti sperimentali di inclusione sociale e residenzialità.
Sono stati penalizzati pure dal decreto Cura Italia, che non ha consentito ai lavoratori con grave disabilità o con rischi immunitari di astenersi dal lavoro fino a fine aprile. Zero assoluto sul promesso aumento delle pensioni di invalidità, ancora ferme a 285 euro al mese, così pure sul riconoscimento dell'assistenza familiare sotto il profilo economico.
Insomma, arriverà una manciata di spiccioli che non serviranno a chi si prende cura di una persona disabile, né offriranno a quest'ultima spiragli concreti di «una vita indipendente e inclusiva, con parità di diritti e di opportunità», come aveva auspicato il ventisettenne Christian Durso scrivendo al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Aveva consegnato la lettera a mano, lo scorso 29 novembre, durante una visita del premier all'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, nel Salernitano. «Fu molto gentile con me», racconta il giovane disabile, «mi lasciò con la promessa di contattarmi. Purtroppo quella bellissima impressione iniziale si è poi rivelata l'ennesima delusione». Conte infatti, non gli ha mai scritto né telefonato, eppure Christian segnalava difficoltà in Campania dove barriere architettoniche impediscono l'accesso a chi non ha due gambe per muoversi. Malgrado le denunce, pesano assieme ad altri vuoti legislativi che bloccano di fatto ogni aspirazione di vita autonoma.
La protesta del giovane non ha colore politico: «Rifletto soltanto sulle parole “il governo del cambiamento", “l'avvocato del popolo", “ho il vizio di mantenere le promesse". Da una persona che utilizza tale enfasi espressiva, mi sarei aspettato qualcosa di nuovo, di giusto».
Fin qui, l'amaro sfogo di Christian Durso. Ma al premier era stato rivolto in Rete anche un «Appello alla disabilità», per ottenere «risposte certe e attenzione reale», capaci di contrastare la povertà derivante dall'avere limitazioni gravi. Si mettevano a fuoco «emergenze indifferibili» quali «la verifica e il monitoraggio sulla reale applicazione dei Livelli essenziali di assistenza, inclusa la fornitura di ausili». L'emergenza coronavirus ha creato un'ulteriore battuta d'arresto nelle iniziative e come si legge nelle testimonianze riportate in queste due pagine, anche la fase due non promette ripartenze per i disabili.
Autistici lasciati soli senza infermieri e insegnanti dedicati
«Due mesi passati con il terrore che i nostri figli si ammalassero, perché hanno altre patologie come epilessia o problemi gastrointestinali associati e in caso di contagio immaginarli in un pronto soccorso o intubati è un delirio. L'ansia maggiore nasce dal loro non saper rispettare le distanze che il virus obbliga a mantenere. Vogliono toccare, abbracciare, chi li riesce a fermare?». Così Benedetta Demartis, 67 anni, presidente Angsa, l'Associazione nazionale genitori soggetti autistici (una settantina di sedi in tutta Italia), riassume il tormento dei genitori di ragazzi con «una disabilità che da anni soffre di scarsa attenzione da parte delle autorità».
«Per fare uscire di casa bambini, ragazzi che sono super attivi ma non sanno indirizzare le loro energie, abbiamo lottato, scrivendo anche al presidente Conte», racconta. «Alla fine siamo stati ascoltati, abbiamo ottenuto deroghe però intanto era passato più di un mese». Prende fiato, poi affonda: «Ai nostri figli sono stati tolti gli educatori del Comune, gli assistenti cui hanno diritto per legge. Gli infermieri hanno continuato a lavorare negli ospedali e perché loro no? Bastava avere tutte le precauzioni del caso, invece c'è stato un fuggi fuggi generale. Il pubblico non è stato in grado di darci risposta, solo qualche centro privato specializzato, a pagamento, per consigli a distanza. E se ci ammalavamo noi genitori?».
La signora Benedetta vive a Novara, ha una figlia di 28 anni, Giulia, che soffre di una grave forma di autismo: «Fosse stata aiutata subito, oggi sarebbe un'altra persona. Allora purtroppo si curava la madre, non il bambino». La giovane donna non è iperattiva ma ha atteggiamenti autolesionistici se non viene continuamente stimolata a fare qualche cosa. «Un impegno stressante che per fortuna condivido con il mio ex marito che vive in Lombardia, in un'altra Regione. Si è preso un prepensionamento e tutti i giorni si sposta con autocertificazioni».
La presidente Angsa afferma che le famiglie temono molto di venire escluse dalla ripresa dell'attività scolastica: «L'autistico non collabora, non sopporta la mascherina, non rispetta le distanze. Penso che i nostri figli saranno gli ultimi a essere chiamati per reinserirli nella società». «Le persone con disturbi del neurosviluppo hanno sofferto molto, soprattutto preadolescenti e adolescenti, mentre i bambini piccoli sono stati gestiti meglio tra mura di casa», spiega Leonardo Zoccante, neuropsichiatra infantile e coordinatore del Centro regionale disturbi dello spettro autistico di Verona, uno dei due istituiti della Regione Veneto.
«In questo periodo tutto si è bloccato e non si possono utilizzare tablet, collegamenti via Skype per interventi educativi, occupazionali in soggetti con certe disabilità mentali. Nemmeno per l'apprendimento scolastico, dopo 5 minuti di lezione l'attenzione viene meno», precisa il professore.
Penalizzati sono stati soprattutto i soggetti con disturbi di iperattività e deficit di attenzione (Adhd), quelli con sindrome di Tourette, condizione neurologica caratterizzata da tic, movimenti rapidi e improvvisi spesso accompagnati da versi o parolacce «e le persone con disturbi dello spettro autistico, tra i quali c'è la sindrome di Asperger, che non hanno bisogno di riabilitazione bensì di abilitazione di funzioni che non si sono mai sviluppate». Fra autismo (che colpisce un bambino ogni 77), ritardi mentali, malattie genetiche rare e Adhd, solo per ricordarne alcune, le disabilità dovute a disturbi del neurosviluppo interessano «il 15% dei bambini in età pediatrica. Per fortuna molti piccoli disturbi, come le dislessie, si riducono con la crescita. L'autismo no, è un disturbo cronico».
Zoccante ha redatto un questionario sugli effetti di due mesi in emergenza Covid 19, al quale hanno risposto 500 famiglie venete: «È emerso che l'aggressività, i disturbi del comportamento sono peggiorati nel 40% di bambini e ragazzi, da 8 a 18 anni», spiega. «Le conseguenze sono regressione, perdita di quanto avevano raggiunto».
«Il governo non ascolta, ma ai sordi servono le mascherine trasparenti»
«Quando vedo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, o il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, che parlano affiancati da un'interprete senza che compaia un sottotitolo, mi chiedo quando cominceranno a rispettare le esigenze dei sordi. Che cosa vuole che capiamo di quei gesti?», sbotta Antonio Cotura, presidente nazionale Fiadda che raggruppa famiglie per la difesa dei diritti degli audiolesi. «In Italia siamo quasi tutti oralisti», spiega Cotura, ovvero educati alla lingua vocale.
«In Italia ci sono 6.500 alunni sordi certificati che sanno leggere, parlare e scrivere e che per fortuna frequentano scuole normali, non istituti speciali come accade in altri Paesi. Questa degli interpreti è una nuova epidemia, scoppiata con il coronavirus. Le persone sorde si dovrebbero ribellare, pretendere i sottotitoli». A detta del presidente, non vengono nemmeno rispettate le esigenze degli ipoacusici e di chi ha deficit uditivi in quanto anziano: «Per tutto il periodo dell'emergenza Covid 19, non si è vista una trasmissione con sottotitolo. Non avevamo diritto a essere informati pure noi? A parte il pregiudizio di fondo, quello di far credere che i sordi abbiano bisogno di un'altra lingua, la cosiddetta Lis, lingua italiana dei segni».
Cotura ricorda anche che fare scuola a distanza può essere molto difficile per chi è sordo: «Docenti che fanno chiamate solo audio e non video, o che non prestano attenzione ai tempi diversi nel seguire di uno studente audioleso, sono solo alcuni dei problemi lasciati irrisolti».
Punta il dito pure contro le mascherine coprenti, «impossibili da utilizzare per un sordo abituato alla lettura labiale», tuona il presidente della Fiadda che racconta di aver segnalato il problema al team di esperti nominati da Conte, «ma le mascherine perfettamente omologate sono fabbricate da un'azienda americana e le scorte risultano esaurite da tempo. Potrebbero funzionare quelle “di comunità" o fai da te, consentite dall'Istituto superiore di sanità, basterebbe solo farle trasparenti. Sono tempestato di richieste da parte di giovani che hanno apparecchi acustici o impianti cocleari e trovano solo presìdi coprenti. Il governo è sordo alle nostre richieste, non incentiva la produzione sebbene le mascherine trasparenti risultino più utili a tutti, per comunicare meglio. Pensiamo a un logopedista, a un audioprotesista, come fanno a lavorare con il labiale? Non stiamo parlando solo nell'emergenza, dovremo indossarle per molto tempo ancora e devono essere funzionali».
«Risorse ridotte e spalmate tra le regioni. Così è dura»
Germano Tosi, presidente Enil Italia (European network on independent living, cioè Rete europea per la vita indipendente) si batte perché i disabili possano vivere in maniera autonoma con il supporto adeguato. Tetraplegico da 30 anni, dopo un tremendo incidente in auto mentre si recava al lavoro, nonno felice da un mese, questo sessantenne che vive da solo a Carmagnola, alle porte di Torino, fa i salti mortali per arrangiarsi in casa pagando un assistente.
«Ricevo circa 1.600 euro al mese dalla regione Piemonte come assegno per la vita indipendente. Si tratta di un contributo economico alla persona con grave disabilità motoria certificata, che dimostri capacità di autodeterminazione e chiara volontà di gestire in modo autonomo la propria vita e le proprie scelte. Con quei soldi dovrei vivere e pagare tre assistenti domiciliari che si alternino, perché da solo non sono in grado di far nulla. In realtà posso permettermi solo un contratto per cinque ore di assistenza al giorno, trenta ore settimanali».
Per fortuna, continua, «ho una rendita Inail altrimenti sarei già confinato in una struttura, ridotto a poter solo respirare bloccato a letto». Germano ricorda che un disabile grave in istituto costa almeno 140 euro al giorno, più di 4.000 euro al mese e che comunque la scelta rappresenta una sconfitta per l'individuo, costretto a vivere segregato e privo di ogni autonomia. Enil fa parte di Fish, la Federazione italiana per il superamento dell'handicap che sull'aumento del fondo per il «Dopo di noi», previsto dal decreto Rilancio, ha detto di augurarsi che «sia decisamente diretto verso gli intenti espressi nella norma: costruire l'autonomia e il supporto alle persone quando la famiglia viene a mancare».
Tosi evidenzia come i 20 milioni di euro in più, vincolati alla realizzazione di progetti per la vita indipendente, «in realtà diventeranno un milione di euro per Regione. Abbiamo un aumento sulla carta e comunque molto ridotto. Ricordiamoci che serve continuità, non “sperimentazione" sulle vite dei disabili come si legge nella legge del “Dopo di noi". Sappiamo che gli enti locali si muovono in base alle risorse disponibili, le possono rimodulare e se non esistono vincoli ferrei di continuità oggi posso utilizzare un fondo ma domani quando gli stanziamenti verranno a mancare, che cosa succederà?».
Ciò che serve è «mettere in sicurezza i progetti di vita delle persone disabili, non si può partire ogni volta ex novo con il rischio che non si realizzino non solo i bisogni di sostegno personali, ma anche e soprattutto i bisogni di sostegno dei contesti di vita avviati».
«Bisogna affrontare i problemi in modo nuovo. Non c’è prospettiva»
Il capitolo IV del decreto Rilancio contiene Disposizioni per la disabilità e la famiglia che prevedono quest'anno altri 90 milioni di euro al Fondo per la non autosufficienza, 20 milioni dei quali destinati al «Dopo di noi», come viene chiamata la legge 112 del 2016 che punta a migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità grave, consentendo di vivere in autonomia e senza essere confinati in istituto, se viene a mancare il supporto della famiglia.
«Sono 90 milioni di euro che permettono di fare qualche intervento di carattere aggiuntivo. Rimangono ancora tante ombre e bisogna vedere quando e come arriveranno questi stanziamenti», commenta Alessandro Manfredi presidente di Ledha Lombardia, Lega per i diritti delle persone con disabilità (rappresenta oltre 180 organizzazioni). «Nell'emergenza coronavirus abbiamo visto il limite dei servizi a favore delle persone con disabilità e anche nel decreto Rilancio non vediamo una modalità nuova di affrontare i problemi. Il “Dopo di noi" manca di prospettiva, restiamo in attesa di risposte che vanno costruite», segnala Manfredi.
«Avevamo chiesto un raddoppio del fondo», interviene Roberto Speziale, presidente nazionale Anffas, Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e relazionale, «perché fosse portato ad almeno 1 miliardo di euro. La spesa complessiva per la non autosufficienza in Italia è di 5,4 miliardi di euro, di questi solo 700 milioni vengono garantiti dallo Stato, il resto dalle Regioni. Sarebbe stato quanto mai opportuno che a livello centrale si provvedesse a cifre più alte per la disabilità, in una manovra complessiva sulla ripartenza di 55 miliardi di euro». Vincenzo Falabella e Nazaro Pagano, rispettivamente presidente della Federazione italiana per il superamento dell'handicap (Fish) e presidente della Federazione tra le associazioni nazionali delle persone con disabilità (Fanda), ricordano di «aver chiesto in tutti i modi e le forme di chiarire e rendere operativa l'indicazione dell'articolo 26 del decreto Cura Italia», dove si parla di certificazioni richieste ma senza specificare chi le deve fornire.
«Sono passati due mesi e ancora non c'è nessuna circolare che spieghi ai lavoratori e ai datori di lavoro come si richiede l'astensione dal lavoro, quando c'è una situazione personale ad alto rischio. Il nuovo decreto si limita a estendere un vago beneficio di altri due mesi. Una lacuna molto grave e irrispettosa che si assomma al mancato recepimento di altri correttivi, ad esempio sulle indennità ai lavoratori autonomi disabili dell'agricoltura o dello spettacolo».
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Nel decreto Rilancio i giallorossi hanno stanziato solo pochi spiccioli per loro, già penalizzati dal Cura Italia.Autistici lasciati soli senza infermieri e insegnanti dedicati. «I nostri figli non sanno rispettare le distanze e hanno bisogno di stimoli continui», racconta Benedetta Demartis, presidente Angsa.«Il governo non ascolta, ma ai sordi servono le mascherine trasparenti». Parla Antonio Cotura, presidente di Fiadda, a difesa degli audiolesi: «Vogliamo i sottotitoli». «Risorse ridotte e spalmate tra le regioni. Così è dura». Germano Tosi, tetraplegico e responsabile Enil Italia: «L'aumento c'è solo sulla carta».«Bisogna affrontare i problemi in modo nuovo. Non c'è prospettiva». I fondi sono scarsi ma restano tanti altri punti di domanda, denuncia Vincenzo Falabella (Fish). Lo speciale comprende cinque articoli.Nel decreto Rilancio la disabilità è stata trattata come una seccatura da sbrigare in poche righe, senza interventi energici capaci di offrire soluzioni dignitose a 2,3 milioni di famiglie italiane nelle quali vive almeno una persona con limitazioni gravi. Appena 90 milioni di euro al Fondo non autosufficienze (dal quale almeno è stato tolto il vincolo della disabilità gravissima per poter utilizzare le risorse), che sale a 661 milioni di euro per il 2020, mentre le associazioni chiedevano almeno un miliardo di euro in sostegni. Poi sono stati concessi 40 milioni di euro per mettere in sicurezza le strutture semiresidenziali. Fine delle misure del governo giallorosso in aiuto dei disabili, duramente colpiti durante l'emergenza dal blocco completo di molti servizi essenziali, quali i centri diurni, e dalla sospensione dei progetti sperimentali di inclusione sociale e residenzialità. Sono stati penalizzati pure dal decreto Cura Italia, che non ha consentito ai lavoratori con grave disabilità o con rischi immunitari di astenersi dal lavoro fino a fine aprile. Zero assoluto sul promesso aumento delle pensioni di invalidità, ancora ferme a 285 euro al mese, così pure sul riconoscimento dell'assistenza familiare sotto il profilo economico. Insomma, arriverà una manciata di spiccioli che non serviranno a chi si prende cura di una persona disabile, né offriranno a quest'ultima spiragli concreti di «una vita indipendente e inclusiva, con parità di diritti e di opportunità», come aveva auspicato il ventisettenne Christian Durso scrivendo al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Aveva consegnato la lettera a mano, lo scorso 29 novembre, durante una visita del premier all'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, nel Salernitano. «Fu molto gentile con me», racconta il giovane disabile, «mi lasciò con la promessa di contattarmi. Purtroppo quella bellissima impressione iniziale si è poi rivelata l'ennesima delusione». Conte infatti, non gli ha mai scritto né telefonato, eppure Christian segnalava difficoltà in Campania dove barriere architettoniche impediscono l'accesso a chi non ha due gambe per muoversi. Malgrado le denunce, pesano assieme ad altri vuoti legislativi che bloccano di fatto ogni aspirazione di vita autonoma. La protesta del giovane non ha colore politico: «Rifletto soltanto sulle parole “il governo del cambiamento", “l'avvocato del popolo", “ho il vizio di mantenere le promesse". Da una persona che utilizza tale enfasi espressiva, mi sarei aspettato qualcosa di nuovo, di giusto». Fin qui, l'amaro sfogo di Christian Durso. Ma al premier era stato rivolto in Rete anche un «Appello alla disabilità», per ottenere «risposte certe e attenzione reale», capaci di contrastare la povertà derivante dall'avere limitazioni gravi. Si mettevano a fuoco «emergenze indifferibili» quali «la verifica e il monitoraggio sulla reale applicazione dei Livelli essenziali di assistenza, inclusa la fornitura di ausili». 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Vogliono toccare, abbracciare, chi li riesce a fermare?». Così Benedetta Demartis, 67 anni, presidente Angsa, l'Associazione nazionale genitori soggetti autistici (una settantina di sedi in tutta Italia), riassume il tormento dei genitori di ragazzi con «una disabilità che da anni soffre di scarsa attenzione da parte delle autorità». «Per fare uscire di casa bambini, ragazzi che sono super attivi ma non sanno indirizzare le loro energie, abbiamo lottato, scrivendo anche al presidente Conte», racconta. «Alla fine siamo stati ascoltati, abbiamo ottenuto deroghe però intanto era passato più di un mese». Prende fiato, poi affonda: «Ai nostri figli sono stati tolti gli educatori del Comune, gli assistenti cui hanno diritto per legge. Gli infermieri hanno continuato a lavorare negli ospedali e perché loro no? Bastava avere tutte le precauzioni del caso, invece c'è stato un fuggi fuggi generale. Il pubblico non è stato in grado di darci risposta, solo qualche centro privato specializzato, a pagamento, per consigli a distanza. E se ci ammalavamo noi genitori?». La signora Benedetta vive a Novara, ha una figlia di 28 anni, Giulia, che soffre di una grave forma di autismo: «Fosse stata aiutata subito, oggi sarebbe un'altra persona. Allora purtroppo si curava la madre, non il bambino». La giovane donna non è iperattiva ma ha atteggiamenti autolesionistici se non viene continuamente stimolata a fare qualche cosa. «Un impegno stressante che per fortuna condivido con il mio ex marito che vive in Lombardia, in un'altra Regione. Si è preso un prepensionamento e tutti i giorni si sposta con autocertificazioni». La presidente Angsa afferma che le famiglie temono molto di venire escluse dalla ripresa dell'attività scolastica: «L'autistico non collabora, non sopporta la mascherina, non rispetta le distanze. Penso che i nostri figli saranno gli ultimi a essere chiamati per reinserirli nella società». «Le persone con disturbi del neurosviluppo hanno sofferto molto, soprattutto preadolescenti e adolescenti, mentre i bambini piccoli sono stati gestiti meglio tra mura di casa», spiega Leonardo Zoccante, neuropsichiatra infantile e coordinatore del Centro regionale disturbi dello spettro autistico di Verona, uno dei due istituiti della Regione Veneto. «In questo periodo tutto si è bloccato e non si possono utilizzare tablet, collegamenti via Skype per interventi educativi, occupazionali in soggetti con certe disabilità mentali. Nemmeno per l'apprendimento scolastico, dopo 5 minuti di lezione l'attenzione viene meno», precisa il professore. Penalizzati sono stati soprattutto i soggetti con disturbi di iperattività e deficit di attenzione (Adhd), quelli con sindrome di Tourette, condizione neurologica caratterizzata da tic, movimenti rapidi e improvvisi spesso accompagnati da versi o parolacce «e le persone con disturbi dello spettro autistico, tra i quali c'è la sindrome di Asperger, che non hanno bisogno di riabilitazione bensì di abilitazione di funzioni che non si sono mai sviluppate». Fra autismo (che colpisce un bambino ogni 77), ritardi mentali, malattie genetiche rare e Adhd, solo per ricordarne alcune, le disabilità dovute a disturbi del neurosviluppo interessano «il 15% dei bambini in età pediatrica. Per fortuna molti piccoli disturbi, come le dislessie, si riducono con la crescita. L'autismo no, è un disturbo cronico». Zoccante ha redatto un questionario sugli effetti di due mesi in emergenza Covid 19, al quale hanno risposto 500 famiglie venete: «È emerso che l'aggressività, i disturbi del comportamento sono peggiorati nel 40% di bambini e ragazzi, da 8 a 18 anni», spiega. «Le conseguenze sono regressione, perdita di quanto avevano raggiunto». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/disabili-dimenticati-due-volte-2646076548.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="il-governo-non-ascolta-ma-ai-sordi-servono-le-mascherine-trasparenti" data-post-id="2646076548" data-published-at="1590350411" data-use-pagination="False"> «Il governo non ascolta, ma ai sordi servono le mascherine trasparenti» «Quando vedo il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, o il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, che parlano affiancati da un'interprete senza che compaia un sottotitolo, mi chiedo quando cominceranno a rispettare le esigenze dei sordi. Che cosa vuole che capiamo di quei gesti?», sbotta Antonio Cotura, presidente nazionale Fiadda che raggruppa famiglie per la difesa dei diritti degli audiolesi. «In Italia siamo quasi tutti oralisti», spiega Cotura, ovvero educati alla lingua vocale. «In Italia ci sono 6.500 alunni sordi certificati che sanno leggere, parlare e scrivere e che per fortuna frequentano scuole normali, non istituti speciali come accade in altri Paesi. Questa degli interpreti è una nuova epidemia, scoppiata con il coronavirus. Le persone sorde si dovrebbero ribellare, pretendere i sottotitoli». A detta del presidente, non vengono nemmeno rispettate le esigenze degli ipoacusici e di chi ha deficit uditivi in quanto anziano: «Per tutto il periodo dell'emergenza Covid 19, non si è vista una trasmissione con sottotitolo. Non avevamo diritto a essere informati pure noi? A parte il pregiudizio di fondo, quello di far credere che i sordi abbiano bisogno di un'altra lingua, la cosiddetta Lis, lingua italiana dei segni». Cotura ricorda anche che fare scuola a distanza può essere molto difficile per chi è sordo: «Docenti che fanno chiamate solo audio e non video, o che non prestano attenzione ai tempi diversi nel seguire di uno studente audioleso, sono solo alcuni dei problemi lasciati irrisolti». Punta il dito pure contro le mascherine coprenti, «impossibili da utilizzare per un sordo abituato alla lettura labiale», tuona il presidente della Fiadda che racconta di aver segnalato il problema al team di esperti nominati da Conte, «ma le mascherine perfettamente omologate sono fabbricate da un'azienda americana e le scorte risultano esaurite da tempo. Potrebbero funzionare quelle “di comunità" o fai da te, consentite dall'Istituto superiore di sanità, basterebbe solo farle trasparenti. 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Così è dura» Germano Tosi, presidente Enil Italia (European network on independent living, cioè Rete europea per la vita indipendente) si batte perché i disabili possano vivere in maniera autonoma con il supporto adeguato. Tetraplegico da 30 anni, dopo un tremendo incidente in auto mentre si recava al lavoro, nonno felice da un mese, questo sessantenne che vive da solo a Carmagnola, alle porte di Torino, fa i salti mortali per arrangiarsi in casa pagando un assistente. «Ricevo circa 1.600 euro al mese dalla regione Piemonte come assegno per la vita indipendente. Si tratta di un contributo economico alla persona con grave disabilità motoria certificata, che dimostri capacità di autodeterminazione e chiara volontà di gestire in modo autonomo la propria vita e le proprie scelte. Con quei soldi dovrei vivere e pagare tre assistenti domiciliari che si alternino, perché da solo non sono in grado di far nulla. In realtà posso permettermi solo un contratto per cinque ore di assistenza al giorno, trenta ore settimanali». Per fortuna, continua, «ho una rendita Inail altrimenti sarei già confinato in una struttura, ridotto a poter solo respirare bloccato a letto». Germano ricorda che un disabile grave in istituto costa almeno 140 euro al giorno, più di 4.000 euro al mese e che comunque la scelta rappresenta una sconfitta per l'individuo, costretto a vivere segregato e privo di ogni autonomia. Enil fa parte di Fish, la Federazione italiana per il superamento dell'handicap che sull'aumento del fondo per il «Dopo di noi», previsto dal decreto Rilancio, ha detto di augurarsi che «sia decisamente diretto verso gli intenti espressi nella norma: costruire l'autonomia e il supporto alle persone quando la famiglia viene a mancare». Tosi evidenzia come i 20 milioni di euro in più, vincolati alla realizzazione di progetti per la vita indipendente, «in realtà diventeranno un milione di euro per Regione. Abbiamo un aumento sulla carta e comunque molto ridotto. Ricordiamoci che serve continuità, non “sperimentazione" sulle vite dei disabili come si legge nella legge del “Dopo di noi". Sappiamo che gli enti locali si muovono in base alle risorse disponibili, le possono rimodulare e se non esistono vincoli ferrei di continuità oggi posso utilizzare un fondo ma domani quando gli stanziamenti verranno a mancare, che cosa succederà?». Ciò che serve è «mettere in sicurezza i progetti di vita delle persone disabili, non si può partire ogni volta ex novo con il rischio che non si realizzino non solo i bisogni di sostegno personali, ma anche e soprattutto i bisogni di sostegno dei contesti di vita avviati». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/disabili-dimenticati-due-volte-2646076548.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="bisogna-affrontare-i-problemi-in-modo-nuovo-non-ce-prospettiva" data-post-id="2646076548" data-published-at="1590350411" data-use-pagination="False"> «Bisogna affrontare i problemi in modo nuovo. Non c’è prospettiva» Il capitolo IV del decreto Rilancio contiene Disposizioni per la disabilità e la famiglia che prevedono quest'anno altri 90 milioni di euro al Fondo per la non autosufficienza, 20 milioni dei quali destinati al «Dopo di noi», come viene chiamata la legge 112 del 2016 che punta a migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità grave, consentendo di vivere in autonomia e senza essere confinati in istituto, se viene a mancare il supporto della famiglia. «Sono 90 milioni di euro che permettono di fare qualche intervento di carattere aggiuntivo. Rimangono ancora tante ombre e bisogna vedere quando e come arriveranno questi stanziamenti», commenta Alessandro Manfredi presidente di Ledha Lombardia, Lega per i diritti delle persone con disabilità (rappresenta oltre 180 organizzazioni). «Nell'emergenza coronavirus abbiamo visto il limite dei servizi a favore delle persone con disabilità e anche nel decreto Rilancio non vediamo una modalità nuova di affrontare i problemi. Il “Dopo di noi" manca di prospettiva, restiamo in attesa di risposte che vanno costruite», segnala Manfredi. «Avevamo chiesto un raddoppio del fondo», interviene Roberto Speziale, presidente nazionale Anffas, Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e relazionale, «perché fosse portato ad almeno 1 miliardo di euro. La spesa complessiva per la non autosufficienza in Italia è di 5,4 miliardi di euro, di questi solo 700 milioni vengono garantiti dallo Stato, il resto dalle Regioni. Sarebbe stato quanto mai opportuno che a livello centrale si provvedesse a cifre più alte per la disabilità, in una manovra complessiva sulla ripartenza di 55 miliardi di euro». Vincenzo Falabella e Nazaro Pagano, rispettivamente presidente della Federazione italiana per il superamento dell'handicap (Fish) e presidente della Federazione tra le associazioni nazionali delle persone con disabilità (Fanda), ricordano di «aver chiesto in tutti i modi e le forme di chiarire e rendere operativa l'indicazione dell'articolo 26 del decreto Cura Italia», dove si parla di certificazioni richieste ma senza specificare chi le deve fornire. «Sono passati due mesi e ancora non c'è nessuna circolare che spieghi ai lavoratori e ai datori di lavoro come si richiede l'astensione dal lavoro, quando c'è una situazione personale ad alto rischio. Il nuovo decreto si limita a estendere un vago beneficio di altri due mesi. Una lacuna molto grave e irrispettosa che si assomma al mancato recepimento di altri correttivi, ad esempio sulle indennità ai lavoratori autonomi disabili dell'agricoltura o dello spettacolo».
D’altronde, quando la Casa Bianca aveva minacciato la prima volta un intervento militare, era stato addirittura il consigliere della Segreteria di Stato vaticana, padre Giulio Albanese, a descrivere alla Stampa l’«equilibrio quasi perfetto tra cristiani e musulmani» in Nigeria, turbato dal tycoon allo scopo di «consolidare consenso in casa». E allora, come funziona davvero tale fulgido esempio di coesistenza tra confessioni diverse?
Un dato dice tutto: i cristiani rischiano 6 volte e mezzo di più dei musulmani di finire uccisi e cinque volte di più di essere rapiti. Lo si evince dai report dell’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa (Orfa). Quelli della Fondazione Porte aperte sono altrettanto sconvolgenti: nel 2025, l’82% degli omicidi e dei rapimenti di fedeli di Gesù nel mondo è risultato concentrato in Nigeria. Nei primi sette mesi dell’anno, hanno perso la vita oltre 7.000 cristiani. È una tendenza ormai consolidata. Tra ottobre 2019 e settembre 2023 - sempre stando alle ricerche Orfa, illustrate anche dal portale Aciafrica - la violenza religiosa, nella nazione affacciata sul Golfo di Guinea, ha provocato la morte di 55.910 persone in 9.970 attentati. I cristiani ammazzati sono stati 16.769, i musulmani 6.235. Di 7.722 vittime civili non si conosceva la religione. Nello stesso periodo, i rapiti cristiani sono stati 21.621. La World watch list, per il 2024, ha contato 3.100 vittime cristiane, oltre a 2.380 sequestrati. La relazione di Aics-Aiuto alla Chiesa che soffre sottolineava che, lo scorso anno, la Nigeria era all’ottavo posto nella ignominiosa classifica del Global terrorism index. «Sebbene anche i musulmani siano vittime delle violenze», precisava il documento, «i cristiani rappresentano il bersaglio di gran lunga prevalente».
Ciò non significa che gli islamici se la spassino, oppure che i jihadisti non approfittino della povertà per attirare miliziani e conseguire obiettivi politici ed economici, tipo il controllo delle risorse naturali. Le sofferenze dei musulmani sono atroci. Per dire: la sera del 21 dicembre, 28 persone, tra cui donne e bambini, sono state catturate nello Stato di Plateau, nel centro del Paese, mentre si recavano a un raduno per la festività maomettana del Mawlid, in cui si onora la nascita del «profeta». Pochi giorni prima, le autorità avevano ottenuto il rilascio di 130 tra studenti e insegnanti di alcune scuole cattoliche.
Un mese fa, intervistato da Agensir, padre Tobias Chikezie Ihejirika, prete somasco nigeriano, di stanza nel Foggiano, era stato chiaro: «I responsabili di questi attacchi sono quasi sempre musulmani». E la classe dirigente, esattamente come lamentato da Trump, non ha profuso grandi sforzi per prevenire i massacri: alcuni criminali, riferiva padre Tobias, sono persino «figure protette all’interno del governo. […] Sarebbe di grande aiuto se le organizzazioni internazionali tracciassero il flusso di denaro destinato alla risoluzione dei conflitti e identificassero coloro che ci speculano su. Questi fondi dovrebbero essere impiegati per risolvere i problemi, non per alimentare la violenza». Solito quadretto dell’ipocrisia occidentale: noi ci laviamo la coscienza spedendo aiuti, il denaro finisce in mani sbagliate e gli innocenti continuano a morire. Bombardare è inutile? Ma anche le strade battute finora si sono rivelate vicoli ciechi.
Stando alle indagini più recenti del Pew research center (2020), il 56,1% della popolazione, specie nel Nord della Nigeria, è islamica, con una nettissima prevalenza di sunniti. I cristiani sono il 43,4%, in maggioranza protestanti (74% del totale dei fedeli, contro il 25% di cattolici e l’1% di altre Chiese, compresa la ortodossa).
L’elenco di omicidi e rapimenti è agghiacciante. E in occasione delle festività, la ferocia aumenta. A Pasqua 2025, in vari attentati, erano stati assassinati 170 cristiani. A giugno, 100 o addirittura 200 sfollati erano stati presi di mira da bande armate; molti di loro erano cristiani. Il Natale più sanguinoso, forse, è stato quello di due anni fa: 200 morti e 500 feriti in una scia di attacchi jihadisti. E poi ci sono i sequestri dei sacerdoti. Gli ultimi, tra novembre e dicembre 2025: padre Emmanuel Ezema, della diocesi di Zaria, nella parte nordoccidentale del Paese; e padre Bobbo Paschal, parroco della chiesa di Santo Stefano, nello Stato di Kaduna, Centro-Nord della Nigeria. Proprio il primo martire della Chiesa è stato invocato ieri dal Papa, affinché «sostenga le comunità che maggiormente soffrono per la loro testimonianza cristiana». Trump? Bene: chi ha idee migliori, che non siano restare a guardare?
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Il ministro degli Esteri della Nigeria Yusuf Maitama Tuggar (Getty Images)
Gli attacchi dell’aviazione statunitense sono stati concordati anche con il governo di Abuja, che ha subito confermato i bombardamenti contro i terroristi. Il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, aveva cercato di minimizzare il problema, dopo le accuse di Donald Trump, ma la situazione sul campo resta critica per la minoranza cristiana che ancora non ha abbandonato gli Stati del nord come ha già fatto la maggioranza. Yusuf Maitama Tuggar è un diplomatico di lunga esperienza e da circa un anno e mezzo guida il ministero degli Esteri della Nigeria, dopo essere stato ambasciatore in Germania.
Ministro Tuggar, il governo nigeriano ha dichiarato di essere al corrente dell’attacco degli Stati Uniti.
«Il presidente Tinubu e tutto il suo gabinetto ministeriale, così come i vertici delle forze armate, erano stati preventivamente informati delle operazioni militari statunitense. Si tratta di attacchi chirurgici che hanno ucciso un numero ancora imprecisato di pericolosi terroristi. La Nigeria vuole collaborare con gli Stati Uniti, che è un grande alleato e che come noi vuole distruggere il terrorismo islamico. Gli Stati di Sokoto e Kebbi, al confine con Niger e Benin, vivono una situazione complicata per le continue infiltrazioni di gruppi islamisti provenienti dalle nazioni vicine. Non escludiamo che in futuro potremmo operare ancora insieme su obiettivi militari molto precisi e sempre nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale. Una cooperazione che comprende scambio di intelligence, coordinamento strategico e altre forme di supporto, tutto sempre nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale».
Gli Stati Uniti accusano lo Stato islamico di voler sterminare i cristiani nigeriani e il vostro governo di non fare abbastanza per difenderli.
«Utilizzare il termine Stato islamico è una semplificazione, perché si tratta di una galassia molto complessa. Nella nostra nazione non c’è una presenza significativa dell’Isis in quell’area. Nel nord-ovest, abbiamo bande criminali, chiamate localmente banditi, e di recente è arrivato un gruppo chiamato Lakurawa. Si tratta di miliziani che hanno iniziato a riversarsi in Nigeria dal Sahel, ma negli ultimi 18 mesi-due anni si sono stabiliti negli Stati di Sokoto e Kebbi. I capi delle tribù locali hanno fatto un errore permettendo a questo gruppo di insediarsi nelle loro province per utilizzarli per difendersi dalla criminalità comune, ma la situazione è degenerata e adesso sono un pericolo per tutti. I Lakurawa sono un gruppo terroristico, ma smentiamo che siano ufficialmente parte della Provincia dello Stato Islamico del Sahel (Issp), l’ex Provincia dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs). Questo gruppo agisce soprattutto nelle zone occidentali vicino al lago Ciad e le nostre forze armate lo stanno costringendo a lasciare il nostro territorio. Voglio smentire ufficialmente che il governo nigeriano faccia poco per difendere i cristiani. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e sono sotto la protezione dello Stato. Questi terroristi uccidono anche musulmani ed animisti, perché sono dei criminali».
Tutta l’Africa centrale e occidentale rischia di essere travolta dal terrorismo islamico e molte nazioni appaiono impotenti.
«La Nigeria ha istituito una serie di corpi speciali per la lotta all’estremismo islamico che agisce sul territorio. La settimana scorsa abbiamo liberato 30 studentesse rapite da una scuola, arrestando gli uomini che le avevano prese. Il governo federale e quello locale stanno anche portando avanti una serie di azioni di reintegro per tutti quelli che abbandonano i gruppi armati. Nel Sahel ci sono province in mano ai terroristi che vogliono occupare anche il nord della Nigeria. Per questo motivo collaboriamo con diversi stati confinanti in operazioni militari congiunte e siamo felici che gli Stati Uniti ci vogliono aiutare, ma sempre nel rispetto delle decisioni del governo di Abuja».
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Laurent Vinatier (Ansa)
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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