
Bruxelles ha perseguito il dissenso per imporre il trionfo dell’uguale. Siamo diventati una società pavida, lontana dalla retorica del coraggio invocata per il riarmo europeo.D’improvviso, la virtù è tornata di moda. L’Unione europea - usando come scusa un’emergenza artificiale - ha deciso di riarmarsi (in realtà di spendere soldi in armi, che è cosa ben diversa, ma passi) e ovviamente, come tutti i regimi, pretende dei cittadini la mobilitazione totale. Gli intellettuali, ferri di lancia della propaganda, si precipitano allora a rispolverare l’armamentario retorico adatto all’occasione, e disseppelliscono parole dimenticate. Antonio Scurati, nei giorni scorsi, ha pianto l’assenza di «guerrieri d’Europa, notando giustamente che «nella nostra millenaria vicenda, [...] da Omero a Ernst Jünger la nostra civiltà ha pensato il combattimento armato frontale, micidiale e decisivo addirittura come proprio fondamento». Anna Foa, ieri sulla Stampa, ha dedicato invece un profondo scritto al coraggio. In cui, per altro, ha ribadito alcune verità. «Si fa un gran parlare di coraggio, molto di più, ci sembra, che nel recente passato», ha scritto. «In questi rapidi cambiamenti degli eventi, sembrano cambiare non solo le nostre emozioni ma anche i nomi con cui le designiamo. Usiamo ormai definire “coraggio” comportamenti che fino a non molto tempo fa ci potevano sembrare comuni, segno al massimo di un alto sentire». Nulla di più vero. Come ha notato il satirista americano Bill Burr, oggi definiamo «coraggiosa» una modella con qualche chilo in più che si metta in posa (sfidando il «body shaming») per la copertina di una rivista patinata. Ma se questo è coraggio, che cosa allora caratterizza il vigile del fuoco che sfida le fiamme o il militare impavido? Continua Anna Foa: «Abbiamo bisogno di coraggio, di trovare esempi di cuori senza timori e senza viltà. Coraggio viene infatti da cuore, dal tardo latino coraticum. Ammiriamo il coraggio, questo è positivo, ma non c’è anche una mancanza di coraggio in questo bisogno di ammirarlo, quasi una distanza che ci ammonisce che non potremo a nostra volta essere coraggiosi, che mentre lo ammiriamo ce ne teniamo lontani? Anche perché normalmente si pensa che il coraggio sia qualcosa di innato: coraggiosi si nasce, non si diventa. Così, chi non ha coraggio e si limita ad ammirare quello altrui, può rassegnarsi pensando che non dipenda da carenze sue, ma dalla sua stessa natura». In realtà il coraggio si può acquisire: non si nasce coraggiosi ma lo si può diventare tramite opportuno allenamento. Eppure sembra che di questo allenamento i più facciano volentieri a meno: «È vero, abbiamo bisogno di eroi, non di essere eroi», dice Foa. «In questo senso la nostra ammirazione del coraggio resta lontana da un’altra modalità dell’essere che pure dal coraggio non è tanto di stante, la responsabilità». La responsabilità è in effetti una componente rilevante del coraggio. È appunto questo l’antico spirito della aretè greca, la virtù di cui il coraggio è l’abito più pregiato. La virtù che dà l’esempio, «che spinge, o dovrebbe spingere, a prendersi responsabilità, a tenere alta la testa di fronte al pericolo e a non guardare solo a se stessi e ai propri bisogni». Sono queste stesse parole a indicare che cosa oggi ci manchi. Il coraggio è, propriamente, l’avere cuore. Ovvero la fortezza, la forza d’animo necessaria a superare le avversità mantenendo un comportamento retto. Qui c’è il senso profondo della aretè, derivante dalla radice ar. La quale a suo volta, ricorda la Treccani, «risale al verbo greco ararískō, connettere/accordare». Coraggio come virtù dunque. Ma seguiamo ancora le parole: dentro virtus si ritrova il latino vir, parlando di forza d’animo ci riferiamo alla vis. Ne deriva che il fondamento del coraggio è la forza virile, la virilità, esso è maschile a livello archetipico. Ciò non significa che il coraggio sia soltanto maschile: anche le donne possono partecipare della virilità (e talvolta lo fanno ben più degli uomini). Coraggio non è soltanto forza fisica, è soprattutto disposizione alla virtù, e all’esempio. Il che comporta necessariamente un rapporto con l’altro, una relazione. Giungiamo dunque alla radice del problema attuale. La Grande Madre europea, che l’Ue limacciosa perfettamente incarna, ha da tempo dichiarato guerra al maschile (identificandolo come tossico) e alla sua forza, descritta come necessariamente pericolosa. Contemporaneamente, la nostra società narcisistica ha svalutato il rapporto con l’altro e la relazione: siamo chiusi in noi stessi, autoriferiti, ci sentiamo vittime e ci mostriamo costantemente risentiti. Eliminare la relazione è servito anche a cancellare il conflitto, Polemos che secondo Eraclito è «padre di tutte le cose». I rapporti si formano anche attraverso il conflitto, lo scontro sano, l’agonismo. A tutto questo abbiamo rinunciato per sentirci al sicuro e protetti. Non soltanto sono svalutati il coraggio e la forza fisica, ma lo è anche il nerbo morale, il coraggio di prendere posizione e di dire no, la forza di opporsi. Non è un caso che l’Ue perseguiti il dissenso e cerchi di impedire il conflitto di opinioni per imporre l’uniforme trionfo dell’uguale. Ora tuttavia le stesse istituzioni e la stessa cultura politica che ci hanno resi imbelli e timorosi per sottometterci ci invitano ad avere coraggio per meglio obbedire ai loro ordini, per combattere le guerre che essi dispongono. Ebbene è vero: serve coraggio, ora più che mai. Ma non per armarsi, bensì per rifiutare l’imposizione e dire no, grazie. Serve la forza di rifiutare la comodità del male, e le banalità viscide dei suoi sostenitori.
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