2020-04-21
Dibba straparla, ma i China boys sono altri
Alessandro Di Batista (Ansa)
L'eroe grillino dei due mondi è pittoresco nelle sue uscite filo Pechino. Però i reali svenditori della democrazia e della nostra cultura sono nei Palazzi del potere. Da Luigi Di Maio e Giuseppe Conte a Romano Prodi, da Sergio Mattarella a Bergoglio, tutti pronti a inchinarsi al Dragone.Vuole «un rapporto privilegiato con Pechino che, piaccia o non piaccia è anche merito del lavoro di Luigi Di Maio ministro dello Sviluppo economico prima e degli Esteri poi». Perché la Cina «uscirà meglio di chiunque altro da questa crisi». Insomma: «La Cina vincerà la terza Guerra mondiale senza sparare un colpo e l'Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europei tale relazione».Così ha scritto due giorni su Il Fatto quotidiano Alessandro Di Battista, l'eroe grillino dei due mondi. E giù tutti a scandalizzarsi, a indignarsi, a protestare (giustamente) per l'idea vigliacca e opportunista di tradire l'alleanza con le democrazie occidentali per consegnarsi mani e piedi al governo di Pechino che - nella migliore delle ipotesi - per almeno un mese ha criminalmente nascosto al consesso internazionale il contagio del Covid-19, e comunque resta uno dei regimi più oppressivi del globo: una dittatura che spia 1,4 miliardi di sudditi con un sistema di controllo autoritario al cui confronto il Grande fratello di George Orwell fa ridere. Ma chi è Di Battista? Oggi, obiettivamente, è un «signor nessuno»: un ex deputato che scrive per il giornale diretto da Marco Travaglio. È il personaggio che nell'agosto 2014, quando era parlamentare, ci invitava a trattare con i tagliagole dell'Isis: «Dovremmo smetterla», scriveva sul blog di Beppe Grillo, «di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione». È quello che un giorno proclamò che «l'attentato alle Torri Gemelle è stato una panacea per il capitale nordamericano», e un altro ancora spiegò che «se domani s'inventasse una medicina miracolosa per sconfiggere il cancro, il Pil diminuirebbe».Insomma, il Dibba è abituato a spararla grossa per carattere e ora, forse, anche per contratto editoriale. Per questo la sua ultima intemerata da «pechinese acquisito» può sì scatenare giustificate reazioni, ma lascia il tempo che trova. Al contrario, chi vede nella deriva autoritaria made in China un concreto pericolo per il nostro futuro dovrebbe puntare gli occhi su altri personaggi, i reali s-venditori della democrazia e della nostra cultura. Il primo è proprio quel Di Maio di cui il Dibba celebra le affettuose attenzioni per il comune amico Xi Jinping. Il ministro degli Esteri ha fatto di tutto per convincere gli italiani che la Repubblica popolare ci stia aiutando con commovente generosità, senza mai spiegare quanta parte delle dubbie forniture di Pechino siano davvero gratuite. Gli «aiuti fraterni» targati con la bandiera rossa a cinque stelle dorate (curiosa coincidenza estetica) hanno esaltato il capo grillino della Farnesina: «Chi ci ha deriso sulla Via della seta deve ammettere che investire su quella amicizia ci ha permesso di salvare vite in Italia».La Via della seta, già, come dimenticarla? Il 22 marzo 2019, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva deciso lo strappo con l'Europa e gli Stati Uniti, e aveva accolto Xi a Roma per firmare 29 oscuri «protocolli introduttivi» al progetto cinese della Belt road initiative. Da allora, Conte si è sbracciato più volte a favore della nuova alleanza con Pechino, tesa a connettere Asia, Europa e Africa con reti infrastrutturali per mille miliardi di dollari. Eppure molti temono che la Bri sia il cavallo di Troia che permetterà a Pechino di attrarre le democrazie europee nella sua sfera d'influenza. Padre putativo e grande timoniere della svolta filocinese, del resto, è Romano Prodi, che non per nulla da un anno è il solo italiano nell'advisory board della Bri. Nel 2019 l'ex premier dell'Ulivo ha fatto campagna a favore degli investimenti di Pechino nei porti italiani. Ma sono anni che insegna nelle università cinesi, e gioca per accrescere i legami tra la Repubblica popolare e mezza Europa.E Sergio Mattarella? Lo scorso 13 febbraio, il capo dello Stato è stato l'alfiere della ricucitura con l'ambasciatore cinese, Li Junhua, dopo le durissime proteste di Pechino per il blocco dei voli dalla Repubblica popolare. Mattarella ha riportato il sorriso sulla bocca di Xi con un concerto nella cappella Paolina del Quirinale: «Le difficoltà sono temporanee, le amicizie imperiture», gli ha risposto il capo del Partito comunista cinese. La diplomazia presidenziale è proseguita una settimana dopo, con il viaggio ufficiale di Mattarella a Pechino.Alla lista degli «amici imperituri» della Cina va aggiunto il Papa. È dal 2018 che Jorge Bergoglio vuole un nuovo status diplomatico con la Cina, grazie a un «accordo provvisorio» dove si stabilì che la nomina dei vescovi cinesi sarebbe stata concordata con l'Associazione patriottica cattolica di Pechino, emanazione del regime. Da allora, papa Francesco ha ordinato nuovi vescovi e istituito diocesi. Ma ha anche «riconosciuto retroattivamente» una decina di presuli scelti dal Partito comunista. Lo scorso 9 aprile, Bergoglio ha ringraziato Xi Jinping per gli aiuti spediti alla farmacia vaticana. E da ieri la Civiltà cattolica, rivista diretta da Antonio Spadaro, esce anche in mandarino: «Vogliamo scrivere nuove pagine, frutto dell'incontro amichevole con la ricca tradizione cinese» ha spiegato Spadaro. Il segretario di Stato Pietro Parolin, artefice della svolta vaticana (che i suoi critici di oltre Tevere hanno ribattezzato «VatiCina»), ha aggiunto: «Dobbiamo costruire ponti». Di Battista, sullo sfondo, annuiva.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson