2018-06-08
Di Maio promette: «Alt al fisco inquisitore»
Il vicepremier si trasforma per la platea Confcommercio: con un discorso dagli echi berlusconiani ottiene l'ovazione all'annuncio dell'abolizione di spesometro e redditometro e dell'inversione dell'onere della prova. Poi assicura: «L'Iva non aumenterà».Il capogruppo del Pd, che si è guadagnato le prime pagine dei giornali accusando il premier Conte di imperdonabili amnesie su Cosa nostra, dimentica le proprie. Nel 2012 davanti ai pm antimafia fece una pessima figura dicendo di non ricordare nulla.La replica alle critiche di Conte: «Il mio incarico all'Anac scade nel 2020, sono sereno».Lo speciale contiene tre articoli.Esattamente due anni fa, il 9 giugno 2016, l'allora premier Matteo Renzi fu contestato a suon di fischi all'assemblea generale di Confcommercio. A scatenare le proteste della platea, fu la difesa da parte di Renzi degli 80 euro di bonus in busta paga, provvedimento che Confcommercio giudicava assistenzialista. Ieri, a Roma, Luigi Di Maio ha conquistato quella stessa platea: applausi, sorrisi, richieste di selfie a raffica per il vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. Sembrava di essere tornati ai tempi di Silvio Berlusconi, idolo assoluto di Confcommercio, alla cui assemblea regalava immancabilmente barzellette e storielle, sicuro dell'apprezzamento dei commercianti italiani, che approvavano le sue politiche e lo sostenevano immancabilmente alle urne, costituendo lo zoccolo duro del suo elettorato.Eppure, Luigi di Maio, con la sua promessa del reddito di cittadinanza, correva il rischio di incorrere nelle stesse proteste suscitate da Renzi. Invece no: il vicepremier di Pomigliano d'Arco, diventata Pomigliano d'Arcore per l'occasione, ha tenuto un discorso in pieno stile liberal, rassicurando i delegati dell'assemblea generale di Confcommercio su tutti i fronti, pronunciando parole d'ordine storicamente care a Berlusconi. Di Maio è partito dall'argomento che più di ogni altro sta a cuore ai commercianti: l'Iva. «Sull'Iva», aveva ammonito poco prima dal palco il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, «non si tratta e non si baratta!». Un diktat dovuto alle voci circolate nei giorni scorsi, alle indiscrezioni su una presunta volontà del governo di non disinnescare le clausole di salvaguardia del valore di 12,5 miliardi di euro, provocando così l'aumento dal 1 gennaio 2019 dell'aliquota agevolata (dal 10% attuale all'11,5%), e di quella ordinaria (dal 22% al 24,2%).«Avete la mia parola», ha promesso solennemente Di Maio, «qui a Confcommercio che l'Iva non aumenterà e le clausole di salvaguardia saranno disinnescate». Bene, bravo, bis: la platea si è infiammata, spellandosi le mani per Giggino, che non si è accontentato e ha deciso di mandare in solluchero l'assemblea. «La ricetta», ha aggiunto il vicepremier, «per fare decollare le imprese che creano lavoro, sviluppo, nuove tecnologie nella loro crescita è lasciarle in pace. Rivolgo una preghiera al Parlamento: prima di tutto alleggerite un po' le leggi che ci sono perché ce ne sono già troppe. Aboliremo tutti gli strumenti come lo spesometro e il redditometro», ha aggiunto Di Maio, «e inseriremo l'inversione dell'onere della prova. Perché siete tutti onesti ed è onere dello Stato provare il contrario».Parole che hanno letteralmente esaltato i delegati, probabilmente dettate dalla volontà di corteggiare un elettorato lontano dalle parole d'ordine tradizionali del M5s. Non a caso, l'altro vicepremier, Matteo Salvini, pur presente all'assemblea generale, ha lasciato a Di Maio il palcoscenico. «Sono state fatte», ha proseguito Di Maio, «delle norme antievasione che però rendono tutto troppo complicato e trattano tutti come fossero evasori, e finiscono col perseguitare i cittadini che le tasse le hanno sempre pagate. Non credo a spesometro, redditometro o split-payment: sono strumenti che dovevano servire a punire i disonesti e premiare gli onesti, ma in realtà si impiegano ancora 100 giorni l'anno per tutti gli adempimenti. Li aboliremo tutti».Meno tasse, meno controlli, e addirittura l'inversione dell'onere della prova: «Siete tutti onesti ed è onere dello Stato provare il contrario». Luigi Di Maio ha abbattuto quello che fino a 12 ore prima sembrava uno dei pilastri del governo guidato da Giuseppe Conte, la tanto denunciata «stretta giustizialista», mandando in visibilio i delegati di Confcommercio, che al termine del suo intervento lo hanno letteralmente preso d'assalto per strette di mano, selfie e congratulazioni, manco fosse (ma forse lo è) una pop star. Certo, bisognerà verificare fino a che punto Di Maio sarà in grado di realizzare le sue promesse, ma questo è un problema che hanno avuto, hanno e avranno tutti i governi di tutte le nazioni. Quello che però appare significativo, è che Di Maio e Salvini stanno sostituendo, passo dopo passo, gli annunci roboanti con un sano realismo. Va in questa direzione il dibattito sulla introduzione della flat tax, che potrebbe essere modulata sui prossimi due anni, per poter centrare l'obiettivo senza appesantire troppo il bilancio dello Stato. Il discorso di ieri di Di Maio, però, non può non essere sottolineato: la coalizione legastellata si lancia alla conquista di un'altra fascia di elettori, quelli tradizionalmente più affezionati a Silvio Berlusconi e a Forza Italia. «Per tutta la generazione di lavoratori», ha precisato Di Maio, «fuori dalla contrattazione nazionale, va garantito almeno un salario minimo, almeno fino a che non si arriva alla contrattazione». Nessun applauso ma neanche nessun dissenso esplicito per questo passaggio, l'unico «di sinistra» dell'intero discorso del vicepremier. Una piccola sterzata, del resto, era necessaria, per non sbandare e finire fuori strada, in questa giornata così particolare, quella della apparente svolta liberale, liberista e garantista di Luigi Di Maio. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-promette-alt-al-fisco-inquisitore-2576061446.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sappanna-la-stella-di-cantone-lui-corre-dal-m5s" data-post-id="2576061446" data-published-at="1762037909" data-use-pagination="False"> S’appanna la stella di Cantone, lui corre dal M5s Il giudizio non propriamente generoso di Conte, poi la telefonata riparatrice e, infine, l'incontro con il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Due giorni burrascosi per Raffaele Cantone presidente Anac (Autorità nazionale anticorruzione) che, da star indiscussa della lotta alla corruzione durante il governo Renzi, ha ricevuto dal nuovo premier, Giuseppe Conte, una tiratina di orecchie già nella prima apparizione in aula durante il discorso di insediamento di mercoledì. Durante la replica alla Camera, infatti, Conte riferendosi ad Anac ha spiegato di non avere visto «i risultati che ci attendevamo» e di aver «lanciato l'idea di valutare bene il ruolo di Anac», anche alla luce di questo. Immediata, lo stesso pomeriggio, la risposta allarmata di Cantone che prima si è detto stupito delle dichiarazioni di Conte e lo aveva invitato ad ascoltare la presentazione delle attività di Anac che si terrà prossimamente e, poi, ha tentato di superare la critica, ribadendo il suo ruolo e la durata dell'incarico: «Continuerò a fare anticorruzione, il mio incarico scade nel 2020», ha dichiarato mercoledì sera. La notte però non deve essere stata delle più tranquille. Così ieri, da entrambe le parti, c'è stato un riavvicinamento. In mattinata Conte ha sentito al telefono il presidente di Anac. Una telefonata raccontata da un comunicato ufficiale che ha definito «cordiale» il colloquio tra i due, che avrebbero «convenuto sulla necessità di rafforzare la lotta alla corruzione, individuando specifici percorsi di legalità nell'ambito pubblica amministrazione» e «operando, tuttavia, una semplificazione del quadro normativo vigente, in modo da consentire il riavvio degli investimenti nel settore dei contratti pubblici». Sempre ieri mattina, in nome della vecchia amicizia con il Movimento 5 stelle (il presidente Anac era stato anche tra i papabili candidati per la presidenza della Repubblica), Cantone ha incontrato il neoministro delle Infrastrutture, Toninelli, che rassicurandolo ha fatto sapere di voler cercare con Anac la «massima collaborazione» e di avere l'intenzione di «aprire un tavolo di confronto per le migliorie legislative che servono» a potenziare l'anticorruzione in Italia, «Abbiamo parlato in particolar modo del nuovo codice dei contratti e di quello che in esso va migliorato per far partire e ripartire tante opere pubbliche oggi bloccate», ha detto ancora Toninelli.Alessia Pedrielli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-promette-alt-al-fisco-inquisitore-2576061446.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="sulla-memoria-delrio-non-puo-fare-prediche" data-post-id="2576061446" data-published-at="1762037909" data-use-pagination="False"> Sulla memoria Delrio non può fare prediche Il fustigatore delle amnesie altrui deve aver dimenticato i propri vuoti di memoria. Forse causati dallo sciopero della fame che ha inutilmente praticato nei mesi scorsi in favore dello Ius soli. Graziano Delrio, capogruppo alla Camera del Pd, ha conquistato le prime pagine dei giornali per la foga con cui, a dito sguainato, ha inchiodato il neo premier Giuseppe Conte alle sue presunte responsabilità. E lo ha fatto con la voce un po' strozzata del mite padre di famiglia costretto all'improvviso a indossare i panni del caporione: «Signor presidente del Consiglio, Piersanti si chiamava, Piersanti!», ha gridato stridulo. Il riferimento era al nome di battesimo del fratello del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l'ex governatore della Sicilia Piersanti Mattarella trucidato nel 1980 dalla mafia, un nome omesso da Conte nel suo primo discorso alla Camera. Il professore aveva laconicamente citato «un congiunto» del capo dello Stato all'interno di una frase dai toni concilianti: «Vorrei ricollegarmi al ringraziamento per il presidente Mattarella perché una delle cose che più mi ha addolorato nei giorni scorsi è stato l'attacco alla memoria di un suo congiunto sui social, adesso non ricordo esattamente… e questa è stata una cosa che veramente mi è dispiaciuta», aveva detto. A molti quel «non ricordo esattamente» sembrava riferito agli insulti apparsi su Internet, ma, invece, per il Delrio descamisado si è trattata di lesa maestà. Con questo intervento sanguigno l'ex ministro delle Infrastrutture è diventato l'eroe dei barricaderi dell'aperitivo in terrazza, l'icona di chi sogna la rivoluzione da bordo piscina. È stato promosso sul campo argine contro la montante marea gialloblù. Peccato che il novello partigiano della Brigata Capalbio condanni le dimenticanze altrui, ma scordi le proprie. Nel 2012 Delrio è stato coinvolto (senza essere indagato) in un'importante inchiesta anti 'ndrangheta, la cosiddetta Aemilia. I magistrati lo convocarono per avere delucidazioni su un suo viaggio durante il quale prese parte a una processione a Cutro, paesino del Crotonese da cui proviene buona parte dei calabresi trapiantati a Reggio Emilia, 'ndranghetisti compresi. Un tour di cui rimase a imperitura memoria pure qualche foto. Non basta. Nei mesi successivi Delrio accompagnò una delegazione di consiglieri comunali originari di Cutro a protestare contro le interdittive antimafia nell'ufficio di chi quelle misure anticlan aveva adottato: il prefetto Antonella De Miro. Negli stessi mesi numerosi cutresi trasferiti in Emilia finirono sotto indagine e Delrio nell'ottobre 2012 venne ascoltato dai magistrati antimafia di Bologna come persona informata dei fatti. Ebbene in quell'interrogatorio la memoria di Delrio apparve piuttosto labile. Non mancarono gli «uhm» e i «non ricordo». Nel verbale la prima raffica di domande riguarda un noto boss cutrese. «Ma lei sa che esiste una persona che si chiama Nicola Grande Aracri?» chiede, con una punta di sarcasmo, il pm. «So che esiste Grande Aracri, Nicola non… non lo avevo realizzato», è la risposta evasiva del subcomandante reggiano, che scivola proprio su un nome di battesimo. «Sa che è di Cutro?», insiste il magistrato. «No, non sapevo che fosse originario di Cutro; sapevo che era calabrese, ma non sapevo fosse originario di Cutro. Perché abita lì nel centro di Cutro? No, io non lo sapevo», balbetta l'ex ministro. La toga infierisce: «Scusi, che tutta la criminalità organizzata che proviene da Cutro oggi si ispiri a Nicola Grande Aracri, penso che lo sappia anche lei se ha letto i giornali relativi agli interventi del prefetto, quantomeno quelli di revoca del porto d'armi…». Il futuro capogruppo Pd è all'angolo: «Sì, no, però io ho risposto alla sua domanda. Se lei mi chiede: “Lei sa che Grande Aracri è nativo di Cutro?", la mia risposta è non lo so, non ne sono sicuro, cioè non lo ricordo francamente, so che è collegato con la criminalità legata alla... cioè diciamo... anche a Cutro... ma non so se è di Cutro, di Steccato, anziché del paese vicino, insomma questo era il senso della mia risposta». L'inquirente passa alle interdittive e chiede al futuro maestrino della penna rossa se «abbia caldeggiato davanti al prefetto la posizione» di imprenditori «che si ritenevano ingiustamente colpiti dalle iniziative prefettizie». L'ex sindaco ammette di aver portato i calabresi davanti al prefetto perché nei loro confronti c'era una specie di «linciaggio mediatico» e si stava affermando l'equazione «calabrese uguale mafioso». Un pregiudizio che i cutresi avvertivano anche nei palazzi del potere: «Mi hanno chiesto di poterla incontrare (il prefetto De Miro, ndr); quindi io ho portato alcuni esponenti, adesso non ricordo quali, sicuramente c'era uno dei consiglieri comunali, il presidente della commissione consigliare comunale…». Il pm lo incalza: «Solo una cosa: con uno sforzo se lei ricorda altri nomi di quel giorno. Uno l'ha detto…». Il novello paladino dell'Antimafia ha un altro vuoto di memoria: «Ricordo solo che c'era Salvatore Scarpino, forse c'era anche l'altro consigliere comunale, ma non ci giurerei, Antonio Olivo… mmm (…) le altre due persone non le ricordo come esponenti vicine al Pd, secondo me eravamo in quattro…». Il magistrato insiste: «Però lei non ricorda chi fossero». «No. Politici? No, non mi pare. Non mi ricordo se c'era anche l'altro esponente del Pdl, questo Rocco Gualtieri che è sempre originario della Calabria; non mi ricordo, ma mi pare che non ci fosse lui. Però francamente è successo più di un anno fa e non…». Delrio rivendica per sé il diritto all'oblio, ma non perdona le presunte smemoratezze di chi non la pensa come lui.Giacomo Amadori
Cristian Murianni-Davide Croatto-Andrea Carulli