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2022-11-10
DeSantis trionfa, Trump lo minaccia. L’elefantino è dentro una cristalleria
Donald Trump e Ron DeSantis (Ansa)
Inutile negarlo: uno dei principali effetti delle ultime elezioni di metà mandato è stato quello di un mezzo terremoto all’interno del Partito repubblicano. Nonostante i suoi candidati senatoriali in Ohio e North Carolina siano andati bene, Donald Trump è uscito politicamente indebolito dal voto di martedì. La ragione sta nei pessimi risultati conseguiti in Pennsylvania da Mehmet Oz e Doug Mastriano: candidati trumpisti rispettivamente alla poltrona di senatore e governatore dello Stato. Il dato è grave sotto due punti di vista. Non solo perché i repubblicani hanno perso un seggio senatoriale che detenevano, ma anche perché l’ex presidente americano ha mostrato evidenti segni di affaticamento in un’area operaia di fondamentale importanza come la Pennsylvania.
Di contro, se c’è un chiaro vincitore alle elezioni dell’altro ieri quello è Ron DeSantis: non solo è stato riconfermato a valanga governatore della Florida, ma il suo Stato - storicamente cruciale per i repubblicani in sede di elezioni presidenziali - è ormai diventato saldamente conservatore. «Abbiamo riscritto la mappa politica», ha detto il governatore uscente la sera del trionfo, «grazie per averci onorato con la vittoria del secolo». Parole che lasciano presagire le mai realmente celate ambizioni presidenziali nutrite da DeSantis. Ambizioni che Trump ha da tempo messo nel mirino. L’ex presidente ha, non a caso, usato parole minacciose nei confronti del governatore. «Non so se correrà. Penso che se corre, potrebbe ferirsi molto gravemente. Credo davvero che potrebbe ferirsi gravemente. Non credo che andrebbe bene per il partito», aveva dichiarato, sostenendo inoltre di sapere «cose su di lui che non sarebbero molto lusinghiere».
Attenzione: il nodo presidenziale è qualcosa di maledettamente urgente. Tradizionalmente le prime manovre in vista delle primarie iniziano già poche settimane dopo le elezioni di Midterm. Tuttavia il punto vero da capire è che la rivalità tra DeSantis e Trump non ha tanto una natura politica (salvo alcune eccezioni, i due sono ideologicamente affini). No, il tema è personalistico, ma soprattutto generazionale. Ciò vuol dire che qui non è in discussione il trumpismo: fenomeno politologico complesso che, piaccia o meno, ha riportato il Partito repubblicano ad essere competitivo, dopo che, ai tempi di Mitt Romney nel 2012, era additato da tutti come lo schieramento dei bianchi e dei ricchi. Trump ha, infatti, riportato l’elefantino a crescere tra la working class e le minoranze etniche: un fattore, questo, che è stato ormai incamerato da larga parte dell’establishment e dei big del partito stesso. Il punto vero è, quindi, cercare di capire se, per far proseguire l’elefantino su questa strada, sia necessario affidarsi nuovamente a Trump o puntare su qualcuno di più giovane (un DeSantis, un Mike Pompeo o una Nikki Haley). Va da sé che, dopo la batosta dell’altro ieri in Pennsylvania, per l’ex presidente sarà più difficile mantenere graniticamente la propria presa sul partito. È pur vero che il repubblicano Adam Laxalt potrebbe riuscire a prendere il seggio senatoriale del Nevada, controbilanciando quella cocente Caporetto. Ma è altrettanto vero che, come accennato, dal punto di vista simbolico la sconfitta nel cosiddetto Keystone State risulta significativamente problematica per Trump.
Per capirci: la forza di Trump nel 2016 era la sua trasversalità. Una trasversalità che mescolava elementi conservatori con altri più legati alla tradizione dem, il tutto condito da una efficace dose di populismo (categoria, questa, che nella storia politica americana non è affatto una parolaccia). Il problema è forse iniziato ad emergere quando si è man mano consolidata una sorta di «ortodossia trumpista»: un fattore che ha compattato il movimento dell’ex presidente ma che gli ha al contempo reso sempre più difficile intercettare il voto degli indipendenti.
E quindi, la soluzione? È ovvio che Trump continui a essere popolare tra la base repubblicana. Ma forse, da solo, non basta più. Quello che l’elefantino dovrebbe replicare è l’efficace campagna delle elezioni governatoriali in Virginia dell’anno scorso: una campagna in cui tutti i settori del partito (a partire dal mondo trumpista) diedero il loro contributo in un vero e proprio gioco di squadra. Un gioco di squadra che permise al candidato repubblicano, Glenn Youngkin, di arrivare infine alla vittoria.
Ecco: o il Partito repubblicano comprende fino in fondo questa necessità o, nel 2024, perderà un’occasione d’oro per riconquistare la Casa Bianca dopo una presidenza disastrosa e fallimentare come quella di Joe Biden. Il Partito repubblicano ha bisogno di Trump. Ma Trump deve capire che il Partito repubblicano non può essere ipso facto identificato con i propri destini personali.
DeSantis potrebbe rappresentare il futuro dell’elefantino. Si spera pertanto, eventualmente, in primarie dure ma leali. Perché l’obiettivo non è farsi la guerra interna. Ma mandare finalmente a casa il presidente peggiore che gli Stati Uniti abbiano mai avuto nella loro storia.
Ma quale vittoria, Biden si è salvato. Ora deve trattare per governare
Occorreranno probabilmente giorni prima di conoscere i risultati definitivi delle ultime elezioni di Midterm. Al momento, è quasi certo che i repubblicani riusciranno a conquistare la Camera dei rappresentanti. La situazione appare invece ambigua per quanto riguarda il Senato. L’elefantino perso il seggio senatoriale della Pennsylvania a causa della sconfitta di Mehmet Oz. Tuttavia ieri sera, a spoglio ancora in corso, il repubblicano Adam Laxalt era avanti rispetto alla senatrice uscente del Nevada, la democratica Catherine Cortez Masto. Se Laxalt riuscisse nel colpaccio, potrebbe quindi compensare la disfatta della Pennsylvania. L’attenzione è inoltre puntata sulla corsa senatoriale della Georgia: qui si assiste, di fatto, a un testa a testa e siccome nessuno dei candidati in corsa sembra essere in grado di superare la soglia del 50% dei voti, sulla base della legge statale si terrà assai probabilmente un ballottaggio il 6 dicembre. Un ballottaggio che quasi certamente deciderà la maggioranza definitiva del Senato.
Ieri sera, il seggio del Wisconsin è stato inoltre riassegnato ai repubblicani, mentre è relativamente probabile che quello dell’Arizona sia destinato a restare in mano dem. D’altronde, se vuole la maggioranza al Senato, l’elefantino deve strappare almeno due seggi all’asinello. Lo sappiamo: l’onda repubblicana che qualcuno aveva preconizzato non si è alla fine verificata. Questo, però, non autorizza a ritenere che i democratici abbiano conseguito chissà quale risultato.
È da ieri che vari analisti cercano di spiegarci che, tutto sommato, Joe Biden avrebbe registrato una performance dignitosa. Certo: per lui si preannunciavano nubi ancor più nere. Ma non bisogna, comunque, trascurare il fatto che il presidente perderà il controllo della Camera. Un elemento, questo, che lo renderà innanzitutto la proverbiale anatra zoppa, impantanandogli l’agenda parlamentare. In secondo luogo, bisogna fare attenzione: il controllo della Camera permette potenzialmente all’elefantino di avviare un processo di impeachment contro il presidente. Uno scenario che, negli scorsi mesi, è stato evocato da vari big repubblicani.
L’intento non sarebbe, ovviamente, quello di arrivare alla destituzione di Biden (occorrerebbe una pressoché impossibile maggioranza di due terzi al Senato). No: se verrà percorsa questa strada, lo si farà per cercare di mettere l’inquilino della Casa Bianca ancor più in difficoltà. Un po’ come accadde, a parti invertite, a Donald Trump con l’impeachment che i dem gli intentarono nel 2019: quel Trump che, alle Midterm del 2018, aveva perso la maggioranza alla Camera, mantenendo quella al Senato.
L’attuale presidente americano non può quindi permettersi di dormire sonni troppo tranquilli, anche perché le divisioni che vedono da anni contrapposte le varie correnti in seno al Partito democratico non spariranno di certo. Anzi, con una probabilissima Camera in mano all’elefantino, Biden dovrà cercare costantemente delle mediazioni con i repubblicani: una circostanza che prevedibilmente irriterà l’ala più oltranzista e barricadiera dell’asinello. Insomma, le tensioni intestine rischiano seriamente di aggravarsi, anziché affievolirsi. In tutto questo, non è ancora chiaro come queste Midterm influiranno sulla prossima corsa presidenziale. Biden sceglierà di ricandidarsi? E che cosa farà Trump?
Aveva reso noto di voler fare un grande annuncio il prossimo 15 novembre: un fattore che aveva spinto molti a ipotizzare una sua nuova discesa in campo. Non si può escludere che lo faccia, per quanto la debacle repubblicana in Pennsylvania lo abbia significativamente azzoppato. Nel complesso, la situazione generale resta quindi ricca di incognite sia per l’asinello sia per l’elefantino.
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Il Partito repubblicano non sfonda nelle elezioni di Midterm: il volto nuovo dei conservatori ha vinto a valanga mentre l’ex presidente ne è uscito indebolito. Una diarchia che può essere fatale nella corsa alla Casa Bianca.Ha perso la Camera e l’ala più oltranzista dei dem non lo aiuterà nelle mediazioniLo speciale contiene due articoliInutile negarlo: uno dei principali effetti delle ultime elezioni di metà mandato è stato quello di un mezzo terremoto all’interno del Partito repubblicano. Nonostante i suoi candidati senatoriali in Ohio e North Carolina siano andati bene, Donald Trump è uscito politicamente indebolito dal voto di martedì. La ragione sta nei pessimi risultati conseguiti in Pennsylvania da Mehmet Oz e Doug Mastriano: candidati trumpisti rispettivamente alla poltrona di senatore e governatore dello Stato. Il dato è grave sotto due punti di vista. Non solo perché i repubblicani hanno perso un seggio senatoriale che detenevano, ma anche perché l’ex presidente americano ha mostrato evidenti segni di affaticamento in un’area operaia di fondamentale importanza come la Pennsylvania. Di contro, se c’è un chiaro vincitore alle elezioni dell’altro ieri quello è Ron DeSantis: non solo è stato riconfermato a valanga governatore della Florida, ma il suo Stato - storicamente cruciale per i repubblicani in sede di elezioni presidenziali - è ormai diventato saldamente conservatore. «Abbiamo riscritto la mappa politica», ha detto il governatore uscente la sera del trionfo, «grazie per averci onorato con la vittoria del secolo». Parole che lasciano presagire le mai realmente celate ambizioni presidenziali nutrite da DeSantis. Ambizioni che Trump ha da tempo messo nel mirino. L’ex presidente ha, non a caso, usato parole minacciose nei confronti del governatore. «Non so se correrà. Penso che se corre, potrebbe ferirsi molto gravemente. Credo davvero che potrebbe ferirsi gravemente. Non credo che andrebbe bene per il partito», aveva dichiarato, sostenendo inoltre di sapere «cose su di lui che non sarebbero molto lusinghiere».Attenzione: il nodo presidenziale è qualcosa di maledettamente urgente. Tradizionalmente le prime manovre in vista delle primarie iniziano già poche settimane dopo le elezioni di Midterm. Tuttavia il punto vero da capire è che la rivalità tra DeSantis e Trump non ha tanto una natura politica (salvo alcune eccezioni, i due sono ideologicamente affini). No, il tema è personalistico, ma soprattutto generazionale. Ciò vuol dire che qui non è in discussione il trumpismo: fenomeno politologico complesso che, piaccia o meno, ha riportato il Partito repubblicano ad essere competitivo, dopo che, ai tempi di Mitt Romney nel 2012, era additato da tutti come lo schieramento dei bianchi e dei ricchi. Trump ha, infatti, riportato l’elefantino a crescere tra la working class e le minoranze etniche: un fattore, questo, che è stato ormai incamerato da larga parte dell’establishment e dei big del partito stesso. Il punto vero è, quindi, cercare di capire se, per far proseguire l’elefantino su questa strada, sia necessario affidarsi nuovamente a Trump o puntare su qualcuno di più giovane (un DeSantis, un Mike Pompeo o una Nikki Haley). Va da sé che, dopo la batosta dell’altro ieri in Pennsylvania, per l’ex presidente sarà più difficile mantenere graniticamente la propria presa sul partito. È pur vero che il repubblicano Adam Laxalt potrebbe riuscire a prendere il seggio senatoriale del Nevada, controbilanciando quella cocente Caporetto. Ma è altrettanto vero che, come accennato, dal punto di vista simbolico la sconfitta nel cosiddetto Keystone State risulta significativamente problematica per Trump.Per capirci: la forza di Trump nel 2016 era la sua trasversalità. Una trasversalità che mescolava elementi conservatori con altri più legati alla tradizione dem, il tutto condito da una efficace dose di populismo (categoria, questa, che nella storia politica americana non è affatto una parolaccia). Il problema è forse iniziato ad emergere quando si è man mano consolidata una sorta di «ortodossia trumpista»: un fattore che ha compattato il movimento dell’ex presidente ma che gli ha al contempo reso sempre più difficile intercettare il voto degli indipendenti.E quindi, la soluzione? È ovvio che Trump continui a essere popolare tra la base repubblicana. Ma forse, da solo, non basta più. Quello che l’elefantino dovrebbe replicare è l’efficace campagna delle elezioni governatoriali in Virginia dell’anno scorso: una campagna in cui tutti i settori del partito (a partire dal mondo trumpista) diedero il loro contributo in un vero e proprio gioco di squadra. Un gioco di squadra che permise al candidato repubblicano, Glenn Youngkin, di arrivare infine alla vittoria.Ecco: o il Partito repubblicano comprende fino in fondo questa necessità o, nel 2024, perderà un’occasione d’oro per riconquistare la Casa Bianca dopo una presidenza disastrosa e fallimentare come quella di Joe Biden. Il Partito repubblicano ha bisogno di Trump. Ma Trump deve capire che il Partito repubblicano non può essere ipso facto identificato con i propri destini personali.DeSantis potrebbe rappresentare il futuro dell’elefantino. Si spera pertanto, eventualmente, in primarie dure ma leali. Perché l’obiettivo non è farsi la guerra interna. Ma mandare finalmente a casa il presidente peggiore che gli Stati Uniti abbiano mai avuto nella loro storia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/desantis-trionfa-trump-lo-minaccia-lelefantino-e-dentro-una-cristalleria-2658624482.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-quale-vittoria-biden-si-e-salvato-ora-deve-trattare-per-governare" data-post-id="2658624482" data-published-at="1668028556" data-use-pagination="False"> Ma quale vittoria, Biden si è salvato. Ora deve trattare per governare Occorreranno probabilmente giorni prima di conoscere i risultati definitivi delle ultime elezioni di Midterm. Al momento, è quasi certo che i repubblicani riusciranno a conquistare la Camera dei rappresentanti. La situazione appare invece ambigua per quanto riguarda il Senato. L’elefantino perso il seggio senatoriale della Pennsylvania a causa della sconfitta di Mehmet Oz. Tuttavia ieri sera, a spoglio ancora in corso, il repubblicano Adam Laxalt era avanti rispetto alla senatrice uscente del Nevada, la democratica Catherine Cortez Masto. Se Laxalt riuscisse nel colpaccio, potrebbe quindi compensare la disfatta della Pennsylvania. L’attenzione è inoltre puntata sulla corsa senatoriale della Georgia: qui si assiste, di fatto, a un testa a testa e siccome nessuno dei candidati in corsa sembra essere in grado di superare la soglia del 50% dei voti, sulla base della legge statale si terrà assai probabilmente un ballottaggio il 6 dicembre. Un ballottaggio che quasi certamente deciderà la maggioranza definitiva del Senato. Ieri sera, il seggio del Wisconsin è stato inoltre riassegnato ai repubblicani, mentre è relativamente probabile che quello dell’Arizona sia destinato a restare in mano dem. D’altronde, se vuole la maggioranza al Senato, l’elefantino deve strappare almeno due seggi all’asinello. Lo sappiamo: l’onda repubblicana che qualcuno aveva preconizzato non si è alla fine verificata. Questo, però, non autorizza a ritenere che i democratici abbiano conseguito chissà quale risultato. È da ieri che vari analisti cercano di spiegarci che, tutto sommato, Joe Biden avrebbe registrato una performance dignitosa. Certo: per lui si preannunciavano nubi ancor più nere. Ma non bisogna, comunque, trascurare il fatto che il presidente perderà il controllo della Camera. Un elemento, questo, che lo renderà innanzitutto la proverbiale anatra zoppa, impantanandogli l’agenda parlamentare. In secondo luogo, bisogna fare attenzione: il controllo della Camera permette potenzialmente all’elefantino di avviare un processo di impeachment contro il presidente. Uno scenario che, negli scorsi mesi, è stato evocato da vari big repubblicani. L’intento non sarebbe, ovviamente, quello di arrivare alla destituzione di Biden (occorrerebbe una pressoché impossibile maggioranza di due terzi al Senato). No: se verrà percorsa questa strada, lo si farà per cercare di mettere l’inquilino della Casa Bianca ancor più in difficoltà. Un po’ come accadde, a parti invertite, a Donald Trump con l’impeachment che i dem gli intentarono nel 2019: quel Trump che, alle Midterm del 2018, aveva perso la maggioranza alla Camera, mantenendo quella al Senato. L’attuale presidente americano non può quindi permettersi di dormire sonni troppo tranquilli, anche perché le divisioni che vedono da anni contrapposte le varie correnti in seno al Partito democratico non spariranno di certo. Anzi, con una probabilissima Camera in mano all’elefantino, Biden dovrà cercare costantemente delle mediazioni con i repubblicani: una circostanza che prevedibilmente irriterà l’ala più oltranzista e barricadiera dell’asinello. Insomma, le tensioni intestine rischiano seriamente di aggravarsi, anziché affievolirsi. In tutto questo, non è ancora chiaro come queste Midterm influiranno sulla prossima corsa presidenziale. Biden sceglierà di ricandidarsi? E che cosa farà Trump? Aveva reso noto di voler fare un grande annuncio il prossimo 15 novembre: un fattore che aveva spinto molti a ipotizzare una sua nuova discesa in campo. Non si può escludere che lo faccia, per quanto la debacle repubblicana in Pennsylvania lo abbia significativamente azzoppato. Nel complesso, la situazione generale resta quindi ricca di incognite sia per l’asinello sia per l’elefantino.
Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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Ecco #DimmiLaVerità del 5 dicembre 2025. Il senatore Gianluca Cantalamessa della Lega commenta il caso dossieraggi e l'intervista della Verità alla pm Anna Gallucci.