2023-11-19
Quanti democratici con il fez nell’armadio
Da sinistra in senso orario: Indro Montanelli, Michelangelo Antonioni, Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca (Ansa)
Fascisti convinti fino al 25 luglio 1943, nel dopoguerra molti intellettuali di primo piano seppero rifarsi una verginità politica. La lunga lista dei voltagabbana è stata compilata da Nino Tripodi in un libro ristampato da poco. E le sorprese non mancano.Prendetevi un momento per leggere con attenzione queste righe, pubblicate nel 1942. Sono vergate da quello che all’epoca era un giovane intellettuale gonfio d’ardore. «Prima di parlare di guerra rivoluzionaria», scriveva il nostro, «io credo sia necessario, a chiarire tutti gli equivoci e a rimettere sulla via diritta i dispersi, parlare di guerra nazionale, guerra che combattiamo perché ci siamo proposti degli obiettivi concreti da realizzare (irredentismi, spazio vitale mediterraneo-africano, autarchia economica) i quali si innestano all’epico ciclo risorgimentale e lo concludono». Già così è abbastanza evidente il traboccare di uno spirito fascistissimo. Ma andiamo avanti, perché la lettura si fa via via più interessante. «Come in ogni evento umano sotto agli obbiettivi concreti e alle realtà materiali verso cui gli uomini si dirigono, c’è un fondale tutto spirituale sul quale si muovono storicamente le forze ideali ed etiche», prosegue l’articolo, «così naturalmente anche in questa guerra si verificano spostamenti di forze ideali giganteschi e rivoluzioni di valori. La Rivoluzione sociale mondiale del quarto stato, che sembra proceda di pari passo con le armi vittoriose dell’Asse, può essere una di esse ma io credo né che sia l’unica né sia la maggiore per quanto sopra ha esposto. Nell’attuale guerra possiamo intravvedere uno scopo ben più alto nel campo dello spirito: ridare all’uomo, insieme alla sensazione di una nuova stabile sicurezza di vita, una funzione attiva da svolgere, la coscienza d’un compito da portare a termine; possiamo iscrivere sulle nostre bandiere un programma ben più affascinante: Rivoluzione morale. Si tratta di scoprire con rinnovata fede sulla nuda muraglia terminale che sbarra la via ad ogni ulteriore indagine verso l’infinito, una parola: Dio».Occorre ora domandarsi: chi mai ha scritto le fiammeggianti parole di cui sopra? Non sorprenda scoprire che fu Eugenio Scalfari, allora imberbe ma determinatissimo militante sotto le insegne del fascio. La sua parabola e il suo cambio di gabbana sono noti ai più (pur se ogni tanto giova rammentarli), così come quelli di molti altri intellettuali e artisti italiani. Sulla questione, tuttavia, cala sempre un certo imbarazzo, e non da oggi. La materia era pochissimo trattata anche tra la fine degli anni Settanta e i primissimi Ottanta, cioè quando Nino Tripodi pubblicò un libro di rovente polemica che ora torna sugli scaffali grazie alla Scuola di Pitagora: Intellettuali sotto due bandiere. Trattasi di un documento eccezionale che non ha perso un grammo di attualità, e che allora suscitò scalpore furente e risentito imbarazzo. L’autore, in buona sostanza, stilava un lunghissimo elenco di personalità niente affatto secondarie che con sfacciata serenità passarono dal nero al rosso, senza peraltro dismettere l’atteggiamento di superiorità morale. Tra i voltagabbana i più evitarono la questione o la risolsero con una scrollatina di spalle. Ma Tripodi, nel libro, non si accontenta delle scuse. Commentando la posizione di un saltatore di fossi d’eccezione, Davide Lajolo, scrive: «Non conta nulla che egli, come d’altronde lo stesso Zangrandi, o Fidia Gambetti, o Luigi Barzini, o Giorgio Bocca, o Fanfani, o Scalfari o Guido Piovene, dichiarino che quelle corrispondenze di guerra, quei saggi, quegli articoli, li scrivevano, se non proprio mentendo, almeno senza crederci, o per scopi elusivi, o per ispirazioni autonome dal marchio fascista dei fatti. Quel che conta è il significato oggettivo e letterale del componimento, specie quando esso non si presta ad alternative di contenuto, o, lampante com’è, esclude ogni sottofondo. E conta anche la presa propagandistica che siffatte cronache del regime, in pace o in guerra, avevano sull’opinione pubblica, spronandola a consolidare l’impegno col fascismo». Tripodi, con estrema eleganza, va al cuore del problema, e chiarisce come il suo non sia accanimento, ma giusta arringa al tribunale della Storia. «Si chiede spesso cosa sia stato il fascismo, chi siano stati i suoi protagonisti», spiega. «Rispondiamo che protagonisti non erano soltanto i vertici del regime, i quadrumviri della marcia su Roma, i ministri, i segretari del Pnf o i segretari delle federazioni provinciali fasciste, i podestà o i consiglieri nazionali, ma che protagonisti erano anche quanti ne registravano i fatti, li commentavano, li diffondevano, li facevano assorbire dal popolo come ragionevoli, legittimi e persino magnanimi e affascinanti. A registrare questi fatti provvedevano giornalisti come Barzini e Sorrentino, Malaparte e Ansaldo, Missiroli e Monelli; a diffonderli pensavano editori di giornali come i Perrone del Messaggero o i Crespi del Corriere della Sera ed editori di libri come Mondadori o Bompiani, cineasti come Chiarini o Genina o Blasetti o Antonioni, attori come Cervi, Nazzari, Fosco Giachetti e tutta la caterva dei trasmettitori radiofonici poi travasati nei quadri socialcomunisti della tv; a legittimarli concorrevano giuristi, magistrati, teorici del diritto pubblico interno e internazionale, economisti e filosofi, da Mortati, Eula e Ambrosini a Bosco, Maranini, Fanfani, Jemolo, Cesarini Sforza; a distillarne gli umori soccorrevano poeti e letterati, da Ungaretti a Baldini, da Cardarelli a Sibilla Aleramo, da Bigiaretti a Natalino Sapegno, e tutto questo era fascismo, tutto questo era il fascismo, da Mussolini che ordinava, a Badoglio che organizzava, a Muti che si limitava a combattere, a Davide Lajolo che, alla guisa di Cesare, si magna parvis componere licet, non combatteva soltanto, ma combatteva e scriveva, e, scrivendone, tramutava in cultura l’azione di guerra». Si domanda dunque Tripodi: «Perché non riconoscere che tutto questo, che anche tutto questo, sia stato fascismo e che appunto per questa integrazione, complementare e univoca, dell’azione e dell’agiografica ricezione culturale dell’azione, il fascismo si sia potuto reggere per venti anni, nonostante che dieci di essi rimbalzassero di guerra in guerra? Il fascismo era Lajolo che in terra di Spagna combatteva contro il comunismo e che scriveva e poetava sulle proprie imprese; era Mussolini che ce lo faceva andare e che concordava con i Crespi, i Perrone, i Mondadori, la catena editoriale per la stampa degli articoli con i quali i Montanelli, i Malaparte, gli Zangrandi, i Piovene, i Maccari, gli Ansaldo inducevano gli italiani a credere negli scopi di una guerra. Era Pavolini che mobilitava la stampa di partito perché cronache e versi avessero maggiore divulgazione; era Starace che stimolava negli iscritti il mordente di leggerli. Ma, al punto dell’impatto con l’opinione pubblica, erano gli intellettuali entrati nelle spire di un congegno che funzionava anche per il loro apporto e che portava anche il loro nome. Quando il fascismo e i fascisti sono il bersaglio di beffe sardoniche per i loro usi e costumi, non si riflette che i riti e le liturgie, le aquile e le spalline, il presente!, l’a noi!, il distintivo, il saluto romano, erano regole di contegno alle quali sottostavano gli esponenti di quel medesimo mondo che, in gran parte, pochi anni dopo, lo schernivano senza imbarazzo». Come nota lo storico Giuseppe Parlato nella bellissima postfazione al testo, «quello che colpisce, nel racconto di Tripodi, è il fatto che giornalisti, professori universitari, intellettuali, giuristi, letterati, filosofi e storici, fascisti assolutamente determinati fino al 25 luglio 1943 (o poco prima), non soltanto continuarono a fare gli intellettuali, gli storici, i filosofi o i poeti come se nulla fosse, ma negarono sempre di essere stati davvero fascisti». E qui allora ci giungono alcune lezioni da mandare a memoria. La prima è che l’ossessione inesauribile del mondo progressista per il fascismo di ritorno (vero e soprattutto presunto) si fonda anche su un clamoroso senso di colpa e sulla necessità di sporcare i panni altrui per occultare le macchie proprie. La seconda lezione riguarda gli intellettuali (e gli artisti e gli scienziati): come già spiegava Jacques Ellul, sono la classe più sensibile alla propaganda, quella che la fa e che la subisce. Eppure non cessano mai di sentirsi superiori: pure quando sbagliano clamorosamente, non lo ammettono. Mutano opinione e mantengono la spocchia. Infine, c’è un grande insegnamento per tutti noi: è inutile continuare a nutrire il pensiero binario, ad alimentare le divisioni tra rosso e nero, a fomentare la polarizzazione. La realtà è fatta di idee forti, come no, ma pure di sfumature. Possiamo crocifiggere il nostro nemico oggi, ma c’è sempre il rischio che domani, sulla stessa croce, ci si debba accomodare noi, e i chiodi non faranno meno male.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.