2025-04-04
Made in Italy, calma con gli allarmismi: «Aliquote fino al 25% sono sopportabili»
Gli imprenditori del settore agroalimentare predicano cautela. Divella: «Non saranno 10 centesimi a penalizzare la pasta».A 24 ore dall’annuncio dei dazi al 20% sulle importazioni made in Italy, il mondo dell’agroalimentare fa i conti di quanto potrebbero impattare sulle esportazioni. Il punto da cui partono le associazioni di categoria per lanciare dichiarazioni allarmistiche sono i valori dell’export. I numeri sono importanti. La prima voce resta il vino con 8,1 miliardi seguita da ortofrutta fresca (6,5 miliardi), ortofrutta trasformata (5,7 miliardi), formaggi (5,4 miliardi), pasta (4,3 miliardi), olio (2,5 miliardi), pesce (1 miliardo). Una stima di Coldiretti indicava, al netto dei dazi, un valore annuale dell’export agroalimentare a 100 miliardi nel 2030 ma che ora, secondo l’associazione degli agricoltori, rischia di essere compromesso dalle nuove tariffe. Al momento sta prevalendo l’incertezza, rileva Laura Dalla Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza, secondo cui l’importante è non perdere di vista il quadro d’insieme: il Veneto ha un export verso tutto il mondo che vale circa 80 miliardi, quello diretto verso gli Usa vale intorno al 10%. Per reagire, spiega Dalla Vecchia, bisogna cercare di comprendere le diverse interazioni tra partner commerciali e le eventuali conseguenze indirette.La Cia ha tracciato una mappa delle province più colpite, a cominciare dalla Maremma toscana grande esportatore di olio di oliva, alle province di Sassari e Nuoro, dove il 65% del loro export agroalimentare è rivolto agli Usa. Poi l’area siciliana di Trapani per vino e olio, solo per citarne alcuni. Ma scendendo dallo scenario generale ai singoli comparti, emergono voci che inducono a una certa cautela. Una conferma in questo senso viene proprio dal comparto del vino che pure, stando al valore dell’export, sarebbe a maggior rischio. Oltre 3.000 buyer americani hanno confermato la loro presenza a Verona alla 57a edizione del Vinitaly. Un dato che replica il primato dell’anno scorso. «La presenza degli operatori statunitensi - commenta Adolfo Rebughini, direttore generale di Veronafiere - è una notizia incoraggiante per le aziende e per Vinitaly». Poi un messaggio di ottimismo: «Il vino italiano è forte e supererà anche questo momento». Nella delegazione dei 3.000 operatori Usa, sono presenti anche i 120 top buyer statunitensi (10% del contingente totale del piano di incoming 2025).Anche Nicola Chiaromonte, produttore pugliese che ha venduto il suo vino alla Casa Bianca e conosce bene il mercato americano, non si lascia scoraggiare: «Fino al 25% i dazi si possono sopportare». Poi spiega che «i consumatori americani sono disposti a pagare cifre importanti. Un italiano non spenderebbe mai 15 euro di spedizione per una bottiglia da 15 euro, gli americani sì. Ho visto ordini via internet in cui si acquistano vini per 300-500 euro e si è disposti a pagare anche 600 euro di spedizione. Hanno un potere economico e una cultura enologica che giustifica queste spese». Inoltre spiega che «gran parte della ristorazione negli Usa è in mano agli italiani e loro non venderebbero mai un vino francese al posto di uno italiano». Non c’è il rischio nemmeno per un crollo della manodopera in Puglia, come paventato dai sindacati: «Il sistema Usa continuerà a funzionare: un rincaro del 20% non sconvolge il mercato».I prodotti di alta gamma del made in Italy agroalimentare hanno un loro mercato radicato e alto spendente che difficilmente si lascerà spaventare dai rincari. Ed è il discorso che fa anche Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio del Parmigiano reggiano. «I dazi sul nostro prodotto passano dal 15% al 35%. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il Parmigiano Reggiano è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente a una riduzione dei consumi. Chi lo acquista è difficile che scelga di non comprarlo più. Lavoreremo per cercare con la via negoziale di fare capire per quale motivo non ha senso applicare dazi a un prodotto come il nostro che non è in reale concorrenza con i parmesan americani».Non è affatto sfiduciato Vincenzo Divella, patron dell’omonima marca di pasta. «Per i prodotti italiani di largo consumo non ci saranno problemi. Per la pasta non sarà l’aumento di 10 centesimi in più al chilo che comprometterà le esportazioni» afferma alla Verità l’imprenditore, che ricorda quando fu applicata l’Iva. «Allora si disegnarono scenari funesti. Tutti a dire che la pasta sarebbe scomparsa dalle tavole degli italiani, invece noi siamo i maggiori consumatori al mondo di questo cibo. E comunque anche Divella vende molto bene negli Stati Uniti per la grande presenza di italiani. Esportiamo anche in altre parti del mondo, in ben 110 Paesi. C’è tutta l’Asia da scoprire e anche la Cina è molto interessata ai nostri prodotti. Quindi non mi preoccupo». Atteggiamento cauto da Conserve Italia che raggruppa 48 cooperative di primo grado, presente sui mercati con succhi, frutta allo sciroppo, derivati del pomodoro, conserve di ortaggi. «Negli Usa abbiamo un mercato residuale ma non pensiamo di perderlo», affermano dal gruppo.Un altro settore sotto i riflettori è la farmaceutica che ha il maggior export negli Usa. Marcello Cattani, presidente di Farmindustria confida nella «ragionevolezza del dialogo politico» intrapreso dalle istituzioni europee e la Casa Bianca. «Gli Stati Uniti sono ampiamente dipendenti dai farmaci italiani e europei, e i dazi significano creare carenze di farmaci per gli americani, oltre a isolare gli Stati Uniti rafforzando la Cina che sta accelerando negli investimenti in ricerca e produzione».
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Fabrizio Pregliasco (Imagoeconomica)
Beppe Sala (Imagoeconomica)