2022-04-05
Fosse comuni e torture. Però qualcosa non torna
La liberazione già il 31 marzo e l’operazione di pulizia. Il Pentagono: «Non possiamo confermare la mattanza.Il fango della guerra è marrone, uniforme e insozza tutto. Un tempo copriva le grida e i massacri senza testimoni, oggi (nell’era della bulimica post-verità imposta dai social) quel fango ( impedisce a chi racconta di distinguere il vero dal falso, almeno nell’immediato. «Se il verosimile è piegato dall’ideologia stanne lontano», raccomandava Peter Arnett che narrò i bombardamenti su Baghdad durante la Guerra del Golfo. Mentre le fotografie dell’eccidio di Bucha scuotono la coscienza collettiva nel profondo, il cronista non può mettersi al pianoforte e suonare una sola nota. Ha il dovere dell’equilibrio, dell’approfondimento, dell’onestà nei confronti di chi legge.È legittimo che nel giorno dell’orrore Ursula Von der Leyen, interpretando la sensibilità del mondo occidentale scosso da quei 300 cadaveri abbandonati sul ciglio delle strade, chieda giustizia, la sua giustizia. «La Ue ha istituito assieme all’Ucraina un team investigativo per raccogliere prove su crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Siamo pronti ad aumentare gli sforzi inviando squadre investigative sul terreno a sostegno della procura ucraina. Eurojust ed Europol sono pronti all’aiuto». Fare luce, togliere il fango sapendo che Ue e Ucraina sono una parte in causa. Ne siamo tutti consapevoli, mentre l’altra parte confeziona una diversa verità. Spiega infatti il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov: «Quella di Bucha è una messinscena fatta girare suo social network da Occidente e Ucraina. La Russia la considera una provocazione; durante il periodo in cui la città era sotto il controllo delle forze armate russe nessun residente locale ha subito azioni violente». La Russia chiede che l’arbitro di sempre, l’Onu, apra un’inchiesta indipendente. Per ora ha ottenuto due risultati: un «No» secco e l’inserimento nella narrazione di una parola che somiglia a un salvagente. Come dichiara il segretario Antonio Guterres: «Le immagini dei civili uccisi sollevano domande sul presunto massacro». Il Financial Times rilancia il termine, il New York Times usa il condizionale. E il Pentagono sottolinea in un comunicato diffuso dall’agenzia Reuters: «L’esercito americano non è in grado di confermare in modo indipendente i resoconti ucraini delle atrocità commesse dalle forze russe contro i civili a Bucha». La crudeltà e l’orrore non si attenuano ma quel fango copre la verità. E pur lasciando alla vulgata le distorsioni video (per qualcuno cadaveri in movimento, per altri gocce d’acqua su parabrezza e retrovisori) qualcosa non torna nello storytelling ufficiale di Kiev. Si deve alzare il sopracciglio senza correre il rischio di essere bollati come putiniani dai campioni del «bianco e nero» che si sono allenati per due anni durante la pandemia. Il massacro sarebbe avvenuto il 2 aprile, ma lo scorso 31 marzo il sindaco di Bucha, Anatoly Fedoruk, in un videomessaggio aveva confermato che non c’erano più soldati russi in città. E dopo averlo annunciato, non aveva fatto cenno ai residenti uccisi. È una tesi accreditata dai russi, che per interesse vanno oltre: «Non sorprende che tutte le prove dei crimini siano apparse a 4 giorni di distanza quando ufficiali del servizio di sicurezza ucraino e rappresentanti della tv sono entrati in città». Resta il fatto che lo stesso 2 aprile, una volta ritiratosi il contingente di Vladimir Putin, la testata ucraina Unian scriveva: «Nella città liberata le unità speciali della polizia ucraina hanno iniziato a ripulire l’area dai sabotatori e complici delle truppe russe. La polizia sta facendo tutto il possibile per ripristinare la legge e l’ordine nelle città liberate». È da chiarire per quale motivo i liberatori, nella civiltà digitale del «tempo reale», abbiano atteso due giorni prima di denunciare il massacro. Nel frattempo Human Rights Watch avrebbe già individuato il responsabile: il tenente colonnello Omurekov Azatbeck Asanbekovich, a capo di un’unità della 64a brigata di artiglieria motorizzata proveniente dalla Jacuzia, nella Siberia orientale. Gli attivisti di InformNapalm aggiungono: «Siamo riusciti a trovare anche l’indirizzo di casa del boia russo». Il Corriere della Sera riporta la notizia ma predica cautela: «Queste informazioni possono ingannare e vanno verificate». Sempre nella cittadina a 30 km da Kiev sono state individuate da un satellite della società Maxar fosse comuni vicino alla chiesa di Sant’Andrea. Approfondire, indagare e poi condannare con durezza è doveroso. Senza dimenticare che l’altro ieri il sindaco Fedoruck ha raccontato alla France Press: «Abbiamo dovuto seppellire in fosse comuni almeno 280 persone perché era impossibile farlo nei tre cimiteri della zona, tutti ancora nel raggio di tiro dei soldati russi». Gli errori passati ci inseguono come fantasmi e invitano alla prudenza: molto presunte fosse comuni serbe in Kosovo diedero il via ai bombardamenti Nato su Belgrado e altrettanto percepite fosse comuni in Libia furono la tomba di Muhammar Gheddafi. L’emotività è nemica della verità. Diceva Indro Montanelli: «Per capire una tragedia bisogna compiere due operazioni uguali e contrarie. La prima è entrarci, la seconda è uscirne».