2021-10-27
L’infermiera di Lugo assolta due volte: «Tornerei in corsia»
Daniela Poggiali, al centro (Ansa)
Dopo sei gradi di giudizio, la Poggiali è libera: non ha ucciso i pazienti in ospedale. «Mi pento delle foto scattate con la morta». «Sì, ora mi piacerebbe tornare a fare l'infermiera». Accanto all'incontenibile felicità per l'assoluzione, per la scarcerazione e per il rientro in famiglia dopo gli ultimi 10 mesi trascorsi in cella, Daniela Poggiali oggi esprime un solo, forte sentimento: il desiderio di essere «risarcita» nella sua immagine professionale e di tornare a lavorare nella corsia di un ospedale. Non sarà facile, e lei lo sa: «I giornali mi hanno definito “killer" per tanto tempo», dice alla Verità, «e so benissimo quanto sia faticoso togliersi il fango di dosso dopo vicende come questa, anche quando si viene scagionati». In effetti lunedì scorso la donna, che per sette lunghi anni giornali e tv avevano universalmente bollato d'infamia come «l'infermiera assassina», è stata assolta dalla Corte d'appello di Bologna: e per di più assolta con formula piena, perché il fatto non sussiste. I giudici hanno disposto anche la sua immediata scarcerazione, ponendo fine (almeno per il momento), a una delle più cupe vicende giudiziarie italiane dell'ultimo decennio.Accusata di avere ucciso due pazienti, Rita Calderoni di 78 anni e Massimo Montanari di 94, entrambi morti nell'ospedale di Lugo di Romagna tra il marzo e l'aprile 2014, la Poggiali venne arrestata su ordine della Procura di Ravenna nell'ottobre di quello stesso anno. L'infermiera fu accusata di avere utilizzato cloruro di potassio sulle vittime, che a un certo punto s'ipotizzò potessero essere anche molte più di due: una perizia dell'accusa certificò che in due anni - dall'aprile 2012 all'aprile 2014 - nel suo reparto e durante il suo turno di lavoro si erano verificati 139 «decessi anomali». E a nulla servirono i suoi disperati proclami d'innocenza: «Mi hanno già condannato come serial killer», protestò la Poggiali già dopo l'arresto, «ma la verità è che senza la prescrizione di un medico io non ho mai dato neppure un sedativo ai pazienti. Figuriamoci se ho ucciso!». La gogna venne poi alimentata da due fotografie, scovate dagli inquirenti: due scatti obiettivamente crudeli e quanto mai inopportuni, che la ritraevano, sorridente, accanto al cadavere di una terza paziente, defunta a 102 anni.In primo grado, l'imputata era stata condannata all'ergastolo per la morte della signora Calderoni e a 30 anni di reclusione per quella del paziente Montanari. In Corte d'appello, dopo 1.003 giorni esatti trascorsi in custodia cautelare, l'ex infermiera era stata invece già assolta due volte successive nel primo processo, e nel 2017 era stata liberata. Entrambe quelle sentenze erano state però annullate dalla Cassazione, che in tutti e due i casi aveva imposto un nuovo giudizio di secondo grado. L'accanimento dell'accusa ha avuto un ultimo guizzo lo scorso dicembre, quando alla vigilia di Natale la Poggiali è stata nuovamente rinchiusa in cella a Forlì per un'ordinanza di custodia cautelare che ipotizzava il pericolo di reiterazione del reato: un'eventualità obiettivamente difficile, per un'infermiera con la sua fama, per di più licenziata dall'Azienda sanitaria. Ora il castello delle accuse è franato per una terza volta, grazie a questa nuova decisione della Corte d'appello di Bologna che riguarda entrambi i presunti omicidi. L'imputata, nel frattempo, ha trascorso altri 10 mesi di custodia cautelare in cella. «In prigione mi hanno sempre trattato bene», racconta, «e facevano il tifo per me». La donna risponde con tono sicuro a ogni domanda, mostrando un carattere forte che le ha consentito resistere a questa prova. Si pente di una sola cosa, le due foto: «Sono scatti che mi fece una collega», dice, «e un errore di cui ho già chiesto tante volte perdono. Me ne dolgo, perché sono nate in un momento di particolare stress emotivo e lavorativo, e sono il frutto di una terribile leggerezza. Voglio ripeterlo oggi: non dovevano essere scattate, quelle foto. Ma erano contenute in una messaggistica privata del cellulare, da cui non sarebbero mai dovute uscire, mentre invece per questa vicenda sono divenute di dominio pubblico, mondiale. Oggi vorrei solo aggiungere, però, che quelle due fotografie per quanto sbagliate non fanno di me un mostro, o un serial killer. E per quell'errore credo comunque di aver pagato anche più del dovuto».Tornata a casa, la donna ringrazia «per lo splendido lavoro» i suoi due avvocati, Lorenzo Valgimigli di Faenza e Gaetano Insolera di Bologna, che l'hanno difesa per questi sette anni. E critica, pacatamente, l'accanimento giudiziario nei suoi confronti: «Già nel secondo processo d'appello del 2019», dice, «a mio modo di vedere tutti gli argomenti erano stati sviscerati e si poteva chiudere il procedimento. La Cassazione poi ha ritenuto diversamente, ma lunedì ancora una volta la giustizia mi ha dato ragione, e doppiamente. A questo punto mi auguro che l'accanimento si fermi e possa terminare una vicenda infinita, che ha fatto soffrire non soltanto me, ma anche la mia famiglia: fosse stata gestita in modo diverso fin dall'inizio, tutta questa sofferenza si sarebbe potuta evitare».Anche l'avvocato Valgimigli, com'è ovvio, è soddisfatto dal risultato. Ma l'esperienza, e forse anche la durezza del caso, sembrano indurlo alla prudenza: «Speriamo sia davvero finita», dichiara alla Verità, «anche se in teoria la Procura generale potrebbe anche fare un nuovo ricorso in Cassazione… Ovvio, io spero proprio che questo non avvenga». Dopo il terzo giudizio d'appello di lunedì scorso, un nuovo passaggio davanti alla suprema corte rappresenterebbe di fatto un settimo grado di giudizio, un record anche per la spesso insensata roulette della giustizia italiana. Decisamente troppo, anche per una delle più cupe vicende processuali del decennio.