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2022-03-27
A fine carriera «Max» scopre di essere un ingenuo
Massimo D'Alema (Ansa)
Ora, immaginate un uomo che nella sua vita può vantare un passato da segretario della Federazione giovanile comunista, direttore dell’Unità, segretario dei Democratici di sinistra, presidente della commissione bicamerale per le riforme, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, presidente del Copasir, cioè del comitato che vigila sui servizi segreti, e pure da vicepresidente dell’Internazionale socialista, che è costretto a chiedere a un cronista parlamentare, seppur qualificato come Labate, che cosa voglia dire lobbista. Glielo spieghiamo noi. Basta aprire il dizionario Garzanti per scoprire che il lobbista è colui che fa parte di una lobby, ovvero di qualcuno che appartiene, citiamo senza aggiungere una virgola, a un «gruppo di interesse che, esercitando pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore». Ecco, noi dopo aver letto l’intervista al quotidiano di via Solferino, siamo certi che l’ex premier, oggi consulente per aziende che non vuole nemmeno nominare per non metterle nei guai, non abbia esercitato alcuna pressione illecita su uomini politici. Come ammette lui stesso nel colloquio con Labate, è stato semplicemente ingenuo. Sì è fidato di persone che si erano presentate come immacolate, senza guardare il loro curriculum e senza neppure dare un occhio a internet, dove pure avrebbe potuto scoprire che i figuri a cui si accompagnava per «aiutare le aziende italiane» non erano così titolati come sembravano. Sì, ha scambiato un ex paramilitare, condannato a 40 anni di carcere e poi graziato, per un senatore, ma che cosa volete che sia? Sì è fidato di un imprenditore salentino, che conosceva da anni e di cui avrebbe dovuto sapere i trascorsi non proprio intonsi, raccomandandolo all’ambasciatore in Colombia per alcune forniture militari? Beh, ma quello gli aveva detto di essere già in ottimi rapporti con due consiglieri del ministero degli Esteri e lui ha pensato bene di aggiungere alle conoscenze del conoscente anche il nostro rappresentante a Bogotà. Teme di essere indagato? E perché? risponde il candido D’Alema: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente». Anzi, quasi quasi da quel che dice si capisce che si ritiene una vittima. Non è stata una leggerezza fidarsi di certi personaggi, senza controllare chi realmente fossero? Sì, forse il suo è stato un peccato di ingenuità. «In questa vicenda c’è stata una mancanza di cautela». Ma se lui è stato poco accorto, le aziende che intendeva aiutare, ovviamente per puro spirito solidaristico nei confronti del Made in Italy, «hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». E gli 80 milioni di provvigione di cui parla al telefono? «Ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere - in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale - una massa di investimenti come quella di cui si parlava». Insomma, niente di concreto, solo una valutazione generica, da uomo che conosce il mondo, la politica e gli affari, sebbene scambi ex paramilitari per senatori. Di certo gli 80 milioni non erano una richiesta. E come mai intendeva affidarsi a uno studio legale di Miami? Semplice conoscenza e stima nei confronti di una società con cui ha già lavorato in passato. E lei che cosa ci avrebbe guadagnato in questa storia? chiede ancora Labate. Niente soldi, per favore. Solo eterna riconoscenza. «Vantaggi nel campo dell’energia, delle infrastrutture, in rapporto alle società private con cui collaboro». Un do tu des da cui sarebbero state escluse le aziende pubbliche. Ma Fincantieri e Leonardo, le due società che con l’interessamento di D’Alema e la fattiva collaborazione di mediatori poco raccomandabili, non sono pubbliche? Sì, ma il povero D’Alema, impegnato in un’arrampicata sugli specchi per giustificare il suo ruolo in una trattativa che preferisce chiamare promozione, dimentica questi dettagli. Alla fine, dopo l’impegnativa scalata, alla domanda se, conoscendo con chi aveva a che fare, si sarebbe infilato in questo pasticcio, l’inesperto Massimino, l’uomo che al telefono cercava di convincere i suoi interlocutori che il BU-SI-NESS (lo disse scandendo bene le parole e le S) valeva 80 milioni da dividersi equamente, risponde: «Non direi».
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Ma quanto è tenero Massimo D’Alema quando chiede, a Tommaso Labate, che lo intervista per il Corriere della Sera, che cosa voglia dire lobbista?Ora, immaginate un uomo che nella sua vita può vantare un passato da segretario della Federazione giovanile comunista, direttore dell’Unità, segretario dei Democratici di sinistra, presidente della commissione bicamerale per le riforme, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, presidente del Copasir, cioè del comitato che vigila sui servizi segreti, e pure da vicepresidente dell’Internazionale socialista, che è costretto a chiedere a un cronista parlamentare, seppur qualificato come Labate, che cosa voglia dire lobbista. Glielo spieghiamo noi. Basta aprire il dizionario Garzanti per scoprire che il lobbista è colui che fa parte di una lobby, ovvero di qualcuno che appartiene, citiamo senza aggiungere una virgola, a un «gruppo di interesse che, esercitando pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore». Ecco, noi dopo aver letto l’intervista al quotidiano di via Solferino, siamo certi che l’ex premier, oggi consulente per aziende che non vuole nemmeno nominare per non metterle nei guai, non abbia esercitato alcuna pressione illecita su uomini politici. Come ammette lui stesso nel colloquio con Labate, è stato semplicemente ingenuo. Sì è fidato di persone che si erano presentate come immacolate, senza guardare il loro curriculum e senza neppure dare un occhio a internet, dove pure avrebbe potuto scoprire che i figuri a cui si accompagnava per «aiutare le aziende italiane» non erano così titolati come sembravano. Sì, ha scambiato un ex paramilitare, condannato a 40 anni di carcere e poi graziato, per un senatore, ma che cosa volete che sia? Sì è fidato di un imprenditore salentino, che conosceva da anni e di cui avrebbe dovuto sapere i trascorsi non proprio intonsi, raccomandandolo all’ambasciatore in Colombia per alcune forniture militari? Beh, ma quello gli aveva detto di essere già in ottimi rapporti con due consiglieri del ministero degli Esteri e lui ha pensato bene di aggiungere alle conoscenze del conoscente anche il nostro rappresentante a Bogotà. Teme di essere indagato? E perché? risponde il candido D’Alema: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente». Anzi, quasi quasi da quel che dice si capisce che si ritiene una vittima. Non è stata una leggerezza fidarsi di certi personaggi, senza controllare chi realmente fossero? Sì, forse il suo è stato un peccato di ingenuità. «In questa vicenda c’è stata una mancanza di cautela». Ma se lui è stato poco accorto, le aziende che intendeva aiutare, ovviamente per puro spirito solidaristico nei confronti del Made in Italy, «hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». E gli 80 milioni di provvigione di cui parla al telefono? «Ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere - in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale - una massa di investimenti come quella di cui si parlava». Insomma, niente di concreto, solo una valutazione generica, da uomo che conosce il mondo, la politica e gli affari, sebbene scambi ex paramilitari per senatori. Di certo gli 80 milioni non erano una richiesta. E come mai intendeva affidarsi a uno studio legale di Miami? Semplice conoscenza e stima nei confronti di una società con cui ha già lavorato in passato. E lei che cosa ci avrebbe guadagnato in questa storia? chiede ancora Labate. Niente soldi, per favore. Solo eterna riconoscenza. «Vantaggi nel campo dell’energia, delle infrastrutture, in rapporto alle società private con cui collaboro». Un do tu des da cui sarebbero state escluse le aziende pubbliche. Ma Fincantieri e Leonardo, le due società che con l’interessamento di D’Alema e la fattiva collaborazione di mediatori poco raccomandabili, non sono pubbliche? Sì, ma il povero D’Alema, impegnato in un’arrampicata sugli specchi per giustificare il suo ruolo in una trattativa che preferisce chiamare promozione, dimentica questi dettagli. Alla fine, dopo l’impegnativa scalata, alla domanda se, conoscendo con chi aveva a che fare, si sarebbe infilato in questo pasticcio, l’inesperto Massimino, l’uomo che al telefono cercava di convincere i suoi interlocutori che il BU-SI-NESS (lo disse scandendo bene le parole e le S) valeva 80 milioni da dividersi equamente, risponde: «Non direi».
Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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