2023-11-10
Il «Bmj» dà ragione a De Donno: «La sua cura funziona ma non è redditizia»
Giuseppe De Donno (Getty Images)
La rivista medica: «Plasma utile se usato subito». Un’amara rivincita per l’ex primario e l’ennesima mazzata alla vigile attesa.La terapia con il plasma di pazienti convalescenti è efficace contro il Covid, specie se somministrato entro cinque giorni dai sintomi e nei soggetti immunocompromessi, proprio come i farmaci sviluppati ad hoc. A differenza di questi però è un rimedio a basso costo (e margine), poco interessante per il business farmaceutico. Sono i contenuti di un articolo pubblicato in questi giorni sul British Medical Journal (Bmj), a poche settimane da uno studio belga apparso nel The New England Journal of Medicine (Nejm) che dimostra come il plasma iperimmune abbia ridotto del 10% la mortalità nei pazienti Covid-19 in distress respiratorio acuto e sottoposti a assistenza respiratoria artificiale. È l’ennesima conferma - purtroppo tardiva - che aveva ragione Giuseppe De Donno, l’ex primario di pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova che per primo nel 2020 aveva iniziato a curare il Covid con le trasfusioni di plasma iperimmune e che si è tolto la vita nel 2021, sull’onda di una tempesta mediatica. Da pioniere di una terapia che prevede l’infusione di sangue di contagiati da Sars-Cov2, opportunamente trattato, in altri pazienti infetti, il medico si è visto ridicolizzato da molti giornali e contestato dai colleghi. Invece aveva ragione, sia dal punto di vista clinico, sull’efficacia, che sulla denuncia del poco interesse per la bassa redditività. Dalle colonne del Bmj emergono i limiti di una gestione pandemica basata esclusivamente sulla fede cieca nei vaccini e nella vigile attesa, altra panzana screditata addirittura dalle stesse indicazioni delle terapie più all’avanguardia: sono efficaci solo se somministrate nei primi giorni di contagio. Come si legge nel Bmj, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nel 2021 aveva sconsigliato l’impiego del plasma convalescente sull’onda degli scarsi risultati dei primi studi, ma la maggior parte di questi riguardavano pazienti ospedalizzati con Covid grave. I primi studi, sottolinea Arturo Casadevall, professore di Microbiologia molecolare e immunologia alla Bloomberg School of Public Health e alla Johns Hopkins University di Baltimora, sono stati condotti in condizioni in cui il trattamento «non poteva funzionare perché somministrato troppo tardi per avere effetto» dato che «gli anticorpi funzionano solo quando il virus è attivo, non nelle fasi successive» della malattia. Una revisione sistematica, pubblicata come preprint nel giugno 2023, ha concluso che il plasma iperimmune perdeva di efficace una settimana dopo la comparsa dei sintomi (l’intervallo di tempo necessario per innescare una risposta immunitaria endogena) o nei pazienti in terapia intensiva. Una meta-analisi del 2023 ha registrato una riduzione media del rischio di ricovero pari al 30,1% con le trasfusioni di plasma convalescente, ma la percentuale arrivava al 51,4% se il trattamento era effettuato entro cinque giorni dai sintomi. Nelle persone immunocompromesse, una revisione sistematica degli studi del 2023 ha rilevato che la trasfusione di plasma convalescente era associata a un beneficio in termini di mortalità. Nella sua sintesi, Casadevall afferma che il trattamento entro una settimana è utile «nelle persone immunocompetenti con Covid-19, perché a ucciderle è l’infiammazione, quindi è necessario» agire «prima che l’infiammazione vada fuori controllo». Nelle persone con problemi immunitari, che non muoiono di infiammazione, «perché il loro sistema immunitario non funziona, il momento in cui si somministra il trattamento in realtà è meno importante perché non riescono a eliminare il virus». Rispetto agli «antivirali - remdesivir e paxlovid - che non eliminano il virus» in questi soggetti, il plasma iperimmune può fare una grande differenza, fornendo gli anticorpi che queste persone non riescono a produrre e «riducendo il rischio che l’infezione diventi cronica». Ma c’è di più, soprattutto se si considera che il virus continua a mutare. «Molte terapie con anticorpi monoclonali non sono più efficaci contro la nuova varianti della Sars-Cov2», sottolinea Lise Estcourt, direttore della Clinical Trials Unit dell’Nhs Blood and Transplant nel Regno Unito. «Il virus cambia, ma le terapie con anticorpi monoclonali non possono cambiare» abbastanza rapidamente. Il plasma convalescente, che invece proviene da persone che hanno prodotto anticorpi da sole, risponde a qualunque forma di virus con cui sono state in contatto (o con cui sono state vaccinate). Il trattamento quindi può «adattarsi man mano che i donatori di plasma sono esposti a nuove infezioni o vaccinazioni aggiornate», afferma Estcourt. Inoltre, un recente studio randomizzato ha rilevato che la somministrazione precoce di plasma convalescente ha ridotto significativamente le probabilità di postumi a lungo termine (long -Covid). L’articolo sul Bmj mette nero su bianco anche la questione economica. Il trattamento, come aveva già denunciato su queste colonne De Donno, non gode di molto sostegno perché «non è redditizio», visto che è una trasfusione, ma è paradossalmente anche più costo-efficace rispetto ai trattamenti farmacologici esistenti. Rispetto agli anticorpi monoclonali specifici per ogni variante, che richiedono vari mesi per essere prodotti, «il plasma convalescente, in particolare quello di donatori vaccinati, ha dimostrato una maggiore resilienza alle varianti Sars-Cov2 immunoresistenti, maggiore adattabilità e convenienza complessiva». Gli esperti temono che la mancanza di interesse da parte delle aziende farmaceutiche «renderà sempre marginale» questa linea di trattamento. Eppure, basterebbe attenersi ai dati.