2018-05-18
C'era la regia di Obama dietro l'apertura dell'inchiesta contro Trump
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L'allora presidente avrebbe politicizzato l'Fbi per colpire il magnate e favorire Hillary Clinton. Le indagini partirono tre mesi prima del voto e furono tenute al segreto, probabilmente perché non c'erano elementi sufficienti per un'accusa contro The Donald. I repubblicani parlano di un nuovo Watergate: il marito di Michelle «non poteva non sapere».«Crossfire hurricane». No. Non è del verso della canzone Jumpin' Jack Flash dei Rolling Stones che stiamo parlando. Questo nome indica in realtà un'indagine, avviata dall'Fbi il 31 luglio 2016, sui presunti legami che sarebbero intercorsi tra il comitato elettorale di Donald Trump e il Cremlino. A riportare la notizia è stato il New York Times qualche giorno fa. L'inchiesta sarebbe nata dopo che, nell'estate del 2016, il governo australiano avrebbe permesso a uno dei suoi ambasciatori, Alexander Downer, di essere interrogato dagli uomini del bureau nel contesto delle prime indagini sulle interferenze russe nel processo elettorale statunitense. L'incontro (avvenuto in segreto, vista la sua natura poco ortodossa dal punto di vista protocollare) avrebbe avuto luogo a Londra e si sarebbe concentrato sul controverso consigliere di Trump, George Papadopoulos. L'inchiesta avrebbe quindi preso il via, occupandosi soprattutto di alcune figure legate al comitato del miliardario newyorchese: dallo stesso Papadopoulos, al generale Michael Flynn, passando per Carter Page e per l'ex manager della campagna di Trump, Paul Manafort. Eppure, di tutto questo non si seppe nulla. Anzi, il tutto sarebbe stato mantenuto inusualmente segreto: si pensi solo che appena cinque funzionari del dipartimento di Giustizia sarebbero stati informati dell'indagine (fattore abbastanza strano, visto che nelle operazioni per la sicurezza nazionale il numero funzionari coinvolti è solitamente almeno di 12). Stando a quanto sostiene il New York Times, la segretezza sarebbe stata dovuta al fatto che l'indagine fosse ancora agli stadi iniziali e che non ci fossero elementi sufficienti per portarla alla ribalta. Inoltre, sempre il quotidiano tiene a sottolineare la differenza di trattamento riservata alla candidata democratica, Hillary Clinton, che all'epoca era sotto inchiesta per la questione delle email. Su questo caso, il direttore dell'Fbi, James Comey, inviò una lettera al Congresso sulla riapertura dell'indagine undici giorni prima delle elezioni e successivamente tenne una conferenza stampa sulla sua decisione di non proseguire nelle accuse. In tal senso, alla base di questa disparità ci sarebbe stato un «calcolo politico»: la convinzione, cioè, che Hillary avrebbe sconfitto Trump nel novembre di quell'anno. In conseguenza di ciò, il bureau avrebbe usato il pugno di ferro contro Hillary quasi a testimonianza della propria imparzialità. Perché - questo è il ragionamento del Times - se «Crossfire hurricane» fosse stata resa pubblica, probabilmente avrebbe impedito a Trump di conquistare la Casa Bianca. Interpretazione legittima ma un po' traballante. Non solo, infatti, buona parte dell'elettorato americano non ha mai mostrato - almeno ai tempi della campagna elettorale - di appassionarsi alle presunte ingerenze russe. Ma c'è dell'altro. Nell'articolo del New York Times, si dice non solo che l'Fbi abbia ottenuto registrazioni telefoniche e documenti ma anche che «almeno un informatore del governo» avrebbe incontrato esponenti di spicco del comitato di Trump: Carter Page e George Papadopoulos nella fattispecie. Senza inoltre dimenticare che, qualche giorno fa, l'ex procuratore federale, Andrew McCarthy, citando la testimonianza del capo di Fusion Gps, Glenn Simpson, ha detto che potrebbero essere stati infiltrati alcuni informatori dell'Fbi all'interno dello staff della campagna elettorale di Trump. Queste dichiarazioni hanno fatto storcere il naso a svariati ambienti vicini al Partito repubblicano. Nel dettaglio, l'ex sindaco di New York, Rudy Giuliani (recentemente entrato a far parte del team legale di Trump sul caso Russiagate) si è mostrato particolarmente critico. «Se è vero che hanno messo una spia o due nel comitato elettorale di Trump», ha detto a The Hill, «non è diverso dal Watergate, se non per il fatto che sono i democratici ad agire contro i repubblicani, anziché i repubblicani ad agire contro i democratici». Ora, se il paragone con il Watergate appare forse eccessivo, bisogna tuttavia fare almeno un paio di precisazioni. Innanzitutto, il richiamo allo scandalo che distrusse la presidenza di Richard Nixon è, sino a oggi, stato spesso impropriamente usato dagli avversari (anche repubblicani) del magnate newyorchese. In secondo luogo, se le infiltrazioni di agenti federali all'interno del comitato elettorale di Trump fossero confermate, tutto questo chiamerebbe in causa due questioni: il ruolo dell'allora presidente, Barack Obama, e la politicizzazione del bureau. Due questioni contro cui, da mesi, Trump non ha fatto altro che puntare il dito. È infatti difficile che l'allora direttore dell'Fbi, James Comey, agisse all'insaputa della Casa Bianca. Sebbene all'orizzonte non si profili al momento una violazione della legge, tutto ciò testimonierebbe comunque un interventismo vagamente anomalo da parte di Obama nella campagna elettorale delle ultime presidenziali.Un'anomalia tanto più grave alla luce del fatto che, come abbiamo visto, lo stesso Fbi, nell'estate del 2016, avrebbe avvolto l'indagine nel più totale segreto proprio per la sua assenza di elementi concreti. Un eventuale richiamo a ragioni di sicurezza nazionale per giustificare l'inchiesta appare quindi abbastanza debole, rendendo forse magari più probabile il tentativo da parte di un presidente in carica di mettere i bastoni tra le ruote al candidato del partito avverso al proprio. Che Obama, d'altronde, fosse solito a un uso piuttosto spregiudicato del potere, non è cosa nuova. Basti pensare all'Hezbollah gate, quando il presidente bloccò le indagini sui traffici illeciti del gruppo sciita libanese per non compromettere l'accordo sul nucleare iraniano. Atteggiamenti magari formalmente collocati nei limiti del potere presidenziale. Ma che puzzano maledettamente dell'accusa che, ai tempi, i democratici lanciavano contro Nixon: l'abuso di potere.
Beppe Sala (Getty Images)
(Ansa)
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