Nessuna proposta nuova per la crisi auto: solo proteste contro il taglio dei contributi statali al settore che finiscono all’elettrico. Adesso pure Assoimmobiliare bussa alle porte del governo per un maxi piano di ristrutturazione edilizia che vale 1.000 miliardi.
Nessuna proposta nuova per la crisi auto: solo proteste contro il taglio dei contributi statali al settore che finiscono all’elettrico. Adesso pure Assoimmobiliare bussa alle porte del governo per un maxi piano di ristrutturazione edilizia che vale 1.000 miliardi.La crisi dell’auto è la crisi della principale industria italiana. In termini di Pil, di occupazione e indotto. Per ogni dipendente di una casa produttrice, pensiamo in primis a Stellantis, che finisce in cassa integrazione, se ne devono calcolare altri tre da sussidiare nell’indotto. Basti pensare che fatto 100 il costo di produzione di una vettura, il 75% è riconducibile alla filiera dei fornitori. Sono semplici dati da cui partire per analizzare il dramma in corso. Tanto più che la ex Fiat, ora con la testa francese e le mani degli Elkann, ormai produce a mala pena mezzo milione di auto per un Paese che ne acquista mediamente un milione e mezzo nello stesso lasso di tempo. I margini per recuperare ci sarebbero. Il problema che se per anni la vettura più venduta nel Belpaese è stata la Panda oggi è la Dacia Sandero del gruppo Renault. Perché la fascia che copre le esigenze della base degli italiani non esiste più. E i costi delle auto nel complesso sono aumentati quasi del 30% in poco più di cinque anni. Eppure Stellantis non inverte la rotta e continua a trovarsi d’accordo con le sigle sindacali che anche ieri in audizione alla Camera hanno ribadito lo slogan. Servono più incentivi. Più soldi e aiuti. Ferdinando Uliano, segretario generale della Fim, ha avvertito: nel 2025 «non avremo un grosso cambiamento, non ci sarà un’inversione di tendenza rispetto ai volumi» prodotti dal gruppo Stellantis. Servirà, pertanto, una «dotazione specifica» per finanziare gli ammortizzatori sociali perché «stanno finendo, tranne a Pomigliano e Atessa». E «se finiscono, l’azienda ci porterà i licenziamenti». Uliano ha parlato di «scelta sciagurata» del governo in merito al taglio di risorse per il fondo automotive. Salvo poi invocare fondi cioè più soldi per tutti, chiedendo solo di striscio l’impegno che Stellantis cambi il piano industriale. Invece dovrebbe essere l’opposto. Nel complesso di tagli annunciati dentro la manovra almeno 800 milioni riguardano direttamente la filiera dell’auto elettrica. Si passerà da un miliardo a circa 200 milioni. Ed è una scelta sacrosanta di discontinuità. Non solo perché sussidiare chi vuole acquistare, per esempio, una Tesla appare ridicolo. Ma perché la droga degli incentivi per legge - e non può essere diverso per via delle norme Ue - finisce spalmata su tutti i marchi anche quelli che producono all’estero e poi per il semplice fatto che il circolo vizioso dell’elettrico va interrotto. I sindacati dovrebbero assieme ai manager come Carlos Tavares fare un esercizio di penitenza e ammettere di aver sbagliato tutto negli ultimi anni. Capire che per tornare a far marciare l’industria serve un segno forte di discontinuità. Invece le sigle, che dovrebbero tutelare i lavoratori, continuano a sposare il modello di transizione della Commissione Ue. Ritenendo che per renderlo sostenibile basta dilazionarlo nel tempo e aggiungere fondi pubblici. Non funziona in questo modo. Per ripartire, prima si cambia strategia e idea, poi si valutano incentivi. I quali serviranno sicuramente. Serviranno aiuti alle aziende per fare marcia indietro e tornare a fare innovazioni sui motori a scoppio. L’Europa è tecnologicamente ferma da oltre sette anni. Un’era intera vista la velocità del mondo di oggi. Prima ancora bisognerà fare in modo che Bruxelles stoppi la legge che vieterà fra undici anni i motori a benzina e gasolio. Avere vetture a basso prezzo che inquinano meno è possibile. Certo bisogna puntare su tecnologie che consentono di fare 100 chilometri con un solo litro. E molto altro. Eppure la filosofia dei sussidi e della strada anti mercato che l’Unione sovietica europea sta imponendo non tocca solo i sindacati o i produttori di auto. Anche i costruttori di case. «Per fare fronte alle nuove esigenze abitative, si stima che nei prossimi 25 anni dovranno essere realizzate in Italia circa 3,65 milioni di nuove abitazioni, frutto in larga parte di trasformazioni e riconversioni di edifici esistenti». ha detto sempre il presidente di Assoimmobiliare, Davide Albertini Petroni, nella relazione all’assemblea annuale dell’associazione. «Saranno necessari», ha aggiunto Petroni, oltre 1.000 miliardi di euro di investimenti in costruzioni, anche per adeguare il nostro patrimonio immobiliare alla transizione green necessaria e ineludibile, a cui potranno aggiungersi 4,2 miliardi all’anno per la successiva manutenzione delle strutture. Cifre insostenibili ormai per qualunque Paese, figurarsi l’Italia che ha rischiato l’osso del collo con il Superbonus. Prima cosa andrebbe spiegato a Petroni che la nuova Confindustria sembra aver cambiato corso e sposare politiche industriali di buon senso e pratica. Ma anche se desiderasse andare per la propria strada dovrebbe spiegare come e dove si trovano i soldi e perché mai dovremmo a priori stanziarli su operazioni che non portano nemmeno particolari risultati per l’ambiente. Insistere sulla strada di Bruxelles si scontra con la realtà del patto di Stabilità (un paradosso visto che entrambe le richieste arrivano dall’Ue) che ha dichiarato definitivamente la fine delle enormi masse di incentivi. I soldi, insomma, sono finiti. Non ammetterlo porta ad altri cortocircuiti. Come l’ultimo della giornata di ieri. Cigil e Uil hanno proclamato sciopero generale per venerdì 29 novembre. Braccia incrociate contro la manovra accusata di essere frutto dei vincoli che essi stessi hanno abbracciato.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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Lockheed F-35 «Lightning II» in costruzione a Fort Worth, Texas (Ansa)
- Il tycoon apre alla vendita dei «supercaccia» ai sauditi. Ma l’accordo commerciale aumenterebbe troppo la forza militare di Riad. Che già flirta con la Cina (interessata alla tecnologia). Tel Aviv: non ci hanno informato. In gioco il nuovo assetto del Medio Oriente.
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Lo speciale contiene due articoli.
Roberto Cingolani, ad e direttore generale di Leonardo (Imagoeconomica)
Nasce una società con Edge Group: l’ambizione è diventare un polo centrale dell’area.






