2024-01-30
Contrordine compagni, il patriarcato non c’è più
Massimo Recalcati (Getty images)
Da «Repubblica» l’autore bacchetta la cultura post sessantottina, che ha ucciso la figura paterna. Ma poiché pure lui rifiuta il trascendente, s’aggrappa, con lo stesso dogmatismo, al surrogato terreno: il capo dello Stato.Fermatevi tutti: è il momento di cambiare radicalmente idea. Dopo aver passato settimane e settimane a spiegarci quanto pervasiva e dannosa fosse la presenza del patriarcato in Italia, Repubblica ci comunica ora che non solo il patriarcato non c’è, ma non c’è più nemmeno il padre. A dire il vero, che l’intera discussione sull’opprimente strapotere del paterno fosse fuorviante e sbagliata lo avevano già ripetuto in molti, anche sulle pagine del giornale progressista (ricordiamo un bell’articolo di Massimo Ammaniti, tra gli altri). Finché lo scontro politico sul tema era furente, i commenti di esperti e luminari contrari alla linea venivano opportunamente nascosti all’interno del quotidiano. Ora che la buriana è passata, la questione può ritornare in prima pagina, e lo ha fatto ieri per la illustre penna di Massimo Recalcati. «Il dibattito politico e culturale che si è sviluppato dopo l’assassinio brutale di Giulia Cecchettin e che si rinnova drammaticamente ad ogni femminicidio, ha convocato al suo centro il grande tema del patriarcato», ha scritto il celebre terapeuta. «Ho commentato innumerevoli volte la formula di Lacan secondo la quale il nostro tempo sarebbe caratterizzato dall’evaporazione del padre. Questa formula fu, non a caso, proposta all’indomani della grande contestazione giovanile del ’68. Una intera concezione del mondo si stava dissolvendo: l’autorità padronale del padre - messa alla gogna dai giovani contestatori - non costituiva più il fondamento indiscusso della società occidentale. Non si trattava, dunque, di descrivere solo il progressivo smarrimento dei padri nell’esercitare la loro funzione educativa nei confronti di figli sempre più ribelli, ma di indicare la crisi irreversibile di una intera concezione del mondo che ruotava attorno al simbolo del padre come vertice di una rappresentazione gerarchica della vita individuale e collettiva di cui Dio stesso, in ultimo, ne costituiva il vertice indiscusso. Con l’immagine dell’evaporazione del padre si decreta la fine di quel mondo». Si tratta di una ricostruzione più che condivisibile, e che Recalcati ripropone ormai da anni (è probabilmente il concetto più interessante che abbia espresso). Ma a quanto pare a Repubblica non leggono i libri del loro stimato editorialista. Il quale non ha dubbi: «L’ideologia del patriarcato è definitivamente evaporata sotto i colpi del ’68, del femminismo, del movimento del ’77 e, soprattutto (come Lacan, Pasolini e la Scuola di Francoforte, tra i primi, avevano avvertito), del discorso del capitalista e della società dei consumi». Ineccepibile. Sarebbe stato carino, però, che a sinistra se ne fossero resi conto un po’ prima: ci avrebbero risparmiato giorni e giorni di bisticci inutili. Purtroppo i venerati maestri progressisti vengono ascoltati solo quando sono utili a sostenere la versione dominante. In caso contrario li si accantona in attesa di tempi migliori. In ogni caso, Recalcati pone una domanda fondamentale: che fare con questo padre assente? Come riempire il vuoto creato dalla evaporazione? A ben vedere, il grande dibattito del nostro tempo dovrebbe ruotare attorno a tale questione, che è la più seria di tutte, perché tocca il nostro rapporto con le cose ultime e va al cuore del nostro vivere assieme. A tale riguardo tocca notare che se Recalcati azzecca la diagnosi, sbaglia clamorosamente la cura. «È indubbio», sentenzia, «che esiste anche nell’Occidente democratico una tendenza declinista-nostalgica a ricuperare il valore della tradizione patriarcale, dunque una idea di famiglia cosiddetta naturale organizzata sulla differenza ontologica tra i sessi e sull’autorità paterna, una concezione verticistica del potere dello Stato. Si tratta di un declinismo nostalgico che ha un respiro largo e coinvolge l’idea stessa di società. È il vero fondamento culturale di ogni sovranismo: ripristinare i valori indiscussi della tradizione, disciplinare il caos delle differenze e delle contaminazioni ribadendo un principio rigido e conservatore di identità che rigetta l’integrazione del differente, affermare una concezione gerarchica della società al cui vertice è occupato dal ripristino dell’autorità perduta». La rappresentazione che egli offre della visione tradizionale è una caricatura, ed è drammaticamente errata. Si dovrebbe ammettere, tanto per cominciare, che il Padre non è scomparso: siamo noi a fingere che non esista. E infatti quando rinunciamo a questa finzione esso ricompare, forte come prima (lo ha mostrato bene Claudio Risé ne Il ritorno del padre). Purtroppo, permane una ostilità ideologica e sovversiva al ritorno del paterno, di cui per altro Recalcati si rende conto benissimo. «L’errore profondo del ’68 e dei movimenti di contestazione che si sono susseguiti», spiega, «è stato quello di gettare via il bambino con l’acqua sporca, ovvero di non separare la figura del padre padrone come prototipo ideologico del patriarcato (di cui il maschilismo è la propaggine sessuale), dal principio simbolico del padre di cui la vita individuale e collettiva necessita per essere davvero generativa». Davvero perfetto. Ma, di nuovo, da una analisi giusta il nostro pensatore arriva a conclusioni sbagliate. Egli nota giustamente che la sinistra ha fatto di tutto per uccidere il padre, e continua a operare in tal senso, incurante dei danni che provoca. Però la soluzione che propone è quasi comica. Visto che non ci possiamo più rivolgere a un padre celeste, sostiene, occorre appigliarsi a piccoli padri terreni. «La grande popolarità di cui gode il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per esempio, è una espressione di principio paterno che non agisce a colpi di bastone ma nella direzione di garantire una circolazione plurale della parola», argomenta Recalcati. Pare di capire che, per lui, Mattarella sia «un padre che non domina più la vita del figlio dei sudditi, ma che si offre come un ponte che unisce, una forza che sa generare comunità». Tralasceremo, per pietà, di commentare l’imbarazzante piaggeria che esala da queste frasi e ci sforzeremo di prendere sul serio la patetica sviolinata al Quirinale. E lo faremo perché, a ben vedere, il disastro del progressismo sta tutto lì: nel tentativo - reiterato ormai da tempo immemore - di sostituire il Padre trascendente con dei surrogati terreni. Che si tratti del partito o di improvvisati guru, questi surrogati hanno un tratto comune: lasciano gli uomini in balia del potere. Li inchiodano a leggi che non sono eterne e immutabili, ma passeggere e discutibili.A rendere libero il genere umano è proprio l’esistenza di un Padre superiore, la cui sola presenza basta a rendere fratelli (e dunque egualmente meritevoli di rispetto) tutti gli individui. Al contrario di ciò che Recalcati afferma, è proprio l’esistenza di questo Padre a rendere possibile l’accettazione delle differenze e a frenare il dilagare della violenza. Se questo Padre viene cancellato o ignorato, tutti noi siamo in balia dei capricci del capetto del momento, al quale è consentito di esercitare un arbitrio senza freni. È il più grottesco dei paradossi: la sinistra rifiuta la religione considerandola obsoleta e liberticida, poi si mette in ginocchio di fronte a Mattarella scambiandolo per un dio.
Jose Mourinho (Getty Images)