2022-10-25
Operazione verità sui conti per schivare la trappola studiata dagli orfani di Draghi
Mario Draghi e Giorgia Meloni (Ansa)
I media gonfiano l’eredità di Mr Bce per poter incolpare Giorgia Meloni dei futuri guai. Ma la situazione non è buona e ciò va denunciato.Il giochino dell’establishment - politico e mediatico - è ormai talmente scoperto da risultare a tratti perfino canzonatorio. Di che si tratta? Del tentativo, condotto a testate (quasi) unificate, di sovradimensionare e ingigantire la bontà dell’eredità draghiana, per meglio scaricare su Giorgia Meloni e sul suo governo la colpa di tutto ciò che non funzionerà. Prendete il caso dell’ultimo Consiglio europeo, quello del 20-21 ottobre scorsi. Si badi bene: la salita dell’inflazione era iniziata un anno prima (l’ottobre del 2021), e si era ovviamente trasformata in impennata dopo lo scoppio della guerra (24 febbraio 2022). Ciononostante, l’Ue, per un intero anno, non ha fatto nulla. Niente di niente. Arrivati al vertice decisivo, la scorsa settimana, si è registrato un ennesimo nulla di fatto. Ecco la formula vaghissima: «Il Consiglio europeo invita il Consiglio dei ministri dell’energia e dell’Ecofin e la Commissione a presentare con urgenza decisioni concrete sul gas». Avete letto bene: «Invita». E invece, sui quotidiani italiani, la vicenda è stata presentata come «l’ultimo successo di Mario Draghi». Ieri, in un retroscena sul Corriere della Sera relativo all’incontro di domenica mattina tra Draghi e Meloni, si attribuiscono tra virgolette al premier uscente queste parole: nell’ultimo vertice europeo l’Italia ha ottenuto «risultati inaspettati» sul tema strategico dell’energia. E ancora, in un crescendo inarrestabile: ora che sono state date «indicazioni stringenti» alla Commissione, toccherà al nuovo governo incalzare Bruxelles e martellare i partner per chiudere l’intesa. Capita l’antifona? Se accadrà qualcosa, sarà merito della positiva legacy draghiana; se invece non accadrà, dipenderà dall’inadeguatezza dei nuovi governanti che non avranno «incalzato» e «martellato» a sufficienza. Ed è solo l’esempio di un format, di uno schema, che è applicabile al complesso dell’eredità dell’esecutivo uscente: a Draghi e ai suoi la narrazione ufficiale attribuisce una buona, anzi ottima gestione economica, sorvolando sulla grave sottovalutazione delle conseguenze della crisi energetica su famiglie e imprese. Sta di fatto che il Paese, già intrappolato nella stagnazione, sta ora per entrare in recessione tecnica. E allora? Elementare, Watson: il conto sarà presentato al nuovo governo, quando i bubboni inevitabilmente scoppieranno ad uno ad uno. Draghi, nel frattempo, si è congedato in grande stile, con abito impeccabile e camicia immacolata: gli schizzi di fango se li prenderà chi è appena arrivato. E non occorre essere indovini per sapere quale sarà il tenore degli editoriali tra qualche settimana. Saranno ispirati al noto adagio: «Quello che è buono non è nuovo, e quello che è nuovo non è buono». Tradotto ancora più rozzamente: i meriti saranno retrodatati alla stagione Draghi, e le colpe postdatate alla stagione Meloni. Potete scommetterci: gli articoli sono già virtualmente pronti, e attendono solo che la cronaca offra un pretesto (che speriamo non arrivi) per vederli pubblicati. Come difendersi da una simile sceneggiatura già pronta? Indubbiamente per la Meloni non si tratta di una partita facile: da un lato, è certamente comprensibile che la leader di Fratelli d’Italia voglia tenere buoni rapporti con il predecessore (che, inutile girarci intorno, in virtù della sua autorevolezza personale e dei suoi contatti con investitori e cancellerie internazionali, sarà una sorta di «agenzia di rating aggiunta» rispetto all’Italia); ma dall’altro lato, sarebbe bene che il nuovo presidente del Consiglio non avallasse quella narrazione, in ultima analisi concepita per colpire proprio lei. In questo senso, ci permettiamo di suggerire al nuovo governo un’operazione verità sia sullo stato dei conti pubblici sia sulla situazione di conclamata stagnazione (e presto di recessione) in cui ci troviamo. Per troppo tempo, l’orchestra dei media è stata accomodante verso il governo uscente, e ha mancato di far conoscere al Paese (che l’ha comunque percepita di suo) la gravità della situazione. E allora la Meloni prenda tutti in contropiede, parlando direttamente agli italiani, e raccontando con equilibrio e correttezza dove siamo davvero. Anche perché il dibattito sulla mitica «continuità» con il governo precedente è viziato da un errore logico, immediatamente commesso proprio da quei neonominati ministri che (con scarsa avvedutezza: non sempre le strade della furbizia e quelle dell’intelligenza coincidono) si sono affrettati a rivendicare il cordone ombelicale con il vecchio esecutivo. E qual è l’errore? Se la performance del governo precedente fosse stata così scintillante, i partiti che ne facevano parte non avrebbero avuto motivo di sfilarsi e farlo cadere; non avrebbero subìto per un anno un dissanguamento nei sondaggi; e infine non sarebbero stati colpiti nel voto. E, contestualmente, la Meloni (unica formale oppositrice) non sarebbe cresciuta in modo esponenziale nei sondaggi lungo tutto il 2022 e non avrebbe colto l’amplissima vittoria del 25 settembre scorso. Morale: è evidente che la maggioranza degli italiani (e la totalità di quelli che hanno votato Meloni) volevano più discontinuità che continuità. È dunque sensato e responsabile, soprattutto per evitare che da Bruxelles parta il plotone di esecuzione, puntare su una transizione ordinata e costruttiva: anzi, è essenziale per entrare senza scossoni nella mitica «stanza dei bottoni». Ma poi, una volta dentro, quei bottoni vanno spinti in modo diverso da quanto è accaduto fino a qualche giorno fa.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)