2021-06-29
Conte lancia l’Opa sul M5s randellando l’Elevato. «Non farò il prestanome»
L'ex premier rinvia il divorzio e invoca il plebiscito sullo statuto. Poi mente su Mario Draghi: «Ho aiutato il suo governo a nascere». Ira di Beppe: «Arrogante in balìa di Travaglio»«Abbiamo bisogno di un campo largo». In quello di Giuseppe Conte ci sono tante margherite e lui le sta sfogliando una a una con pazienza certosina: «m'ama, non m'ama». Far pace con l'Elevato è la sua unica preoccupazione, ma non a tutti i costi. Così in un giorno di afa fissa, nella sala del Tempio di Adriano a Roma, l'ex premier decide di mettere in scena la sua pièce teatrale migliore, quella del penultimatum. Doveva essere la conferenza stampa dello strappo, doveva rappresentare la fine dell'avventura e invece l'avvocato pugliese non chiude niente. Anzi manda avanti lo statuto, chiede che la base lo voti e che Beppe Grillo «lo accolga con entusiasmo». Tutto questo per la miglior gloria del partito bolscevico a 5 stelle, dove l'alter ego non è tollerato ma il comitato centrale sì.«No a una diarchia, serve una leadership forte, non accetterò di essere solo un prestanome». Giuseppi gioca due carte importanti, con sapienza tattica: tenta di scippare il Movimento al suo fondatore e al tempo stesso si prepara a un'onorevole sconfitta e al rientro nei ranghi da leader dimezzato. Perché Conte non cambia, al massimo fa finta. Coerente con i principi mostrati nei suoi due governi, è disposto ad accettare ogni compromesso pur di non scomparire, ma prima di farlo decide di indossare la maschera dell'amareggiato. È come al solito verboso, ampolloso. E abbonda in metafore. «Non si può solo ridipingere la facciata di un appartamento che necessita di una profonda ristrutturazione», «Non posso prestarmi a un'operazione politica che nasce invischiata da vecchie ambiguità». Critiche esplicite che aveva già scandito davanti al Garante supremo. Ribadirle non gli costa niente. Fa capire che il ruolo di Grillo rimane ingombrante, fischietta Fatti più in là come le arboriane Sorelle Bandiera (che oggi sarebbero dei maître à penser transgender), chiede che non si creino «confusioni di ruoli e funzioni». Sembra sul punto di strappare. E quando dice «Non riesco a impegnarmi in un percorso in cui non credo», chi non ha ancora imparato a fare i conti con la micidiale vetero-democristianità dell'ex premier ritiene che stia per salutare e andarsene a Fregene in una trattoria di pesce. Invece è esattamente il contrario, sta prendendo la rincorsa per riuscire meglio nel salto mortale. Eccolo. «Non ne faccio una questione personale e non chiedo pubbliche scuse, ma faccio un appello a Grillo: devi decidere se essere un genitore generoso che lascia emancipare il figlio o un padre padrone che lo soffoca». Con le vicende giudiziarie in corso, la metafora è imbarazzante ma Conte non se ne cura. Punge e guarda oltre, verso «il grande carisma visionario che ha generato una stagione eroica». È quello di Beppe Grillo, al quale chiede di accogliere lo statuto e farlo votare senza preoccuparsi se lì dentro c'è - nero su bianco - il suo passo indietro al ruolo di statua equestre che lascia i poteri in mano al leader di turno. «Perché una forza che ambisce a guidare il Paese non può avere una leadership poco chiara, dimezzata, condizionata da una diarchia, con un leader ombra e un prestanome. Quel prestanome non potrei essere io».Conte sembra quei tenori wagneriani che cantano «Io vadooo» ma sono sempre lì. Sembra quei mediocri cuochi francesi che ricoprono il pesce di panna per nasconderne il vero sapore. Come al solito lancia messaggi. Il primo a Gesù Grillo: basta una tua parola e io sarò salvato. Il secondo agli apostoli (soprattutto Luigi Di Maio e Vito Crimi): avete la possibilità di emanciparvi con il voto, fatelo. Il terzo alla base: votatemi e cambieremo il mondo. L'eloquio è quello di sempre, a metà strada tra Flaminio Piccoli e Ciriaco De Mita. Il nulla sottovuoto, dopo dieci minuti vorresti che Mario Draghi si imbullonasse a Palazzo Chigi per non correre il rischio di un nuovo incubo lessicale fatto di processi epocali e spinte propulsive, gravido di «azioni rivoluzionarie» e di «futuro equo e sostenibile». Da realizzare, ovviamente, nella «piazza delle idee».Quando, nel pieno dei voli pindarici, Conte decide di riassumere ciò che ha fatto in questi quattro mesi, hai il sospetto di trovarti davanti un prestigiatore dilettante che si allena a far scomparire l'asso di picche. Comunque si va di elenco. 1 Ha risolto le antiche ambiguità con la piattaforma Rousseau. 2 Ha recuperato i dati degli iscritti da Davide Casaleggio. 3 Ha elaborato lo statuto «con piena facoltà politica del leader di turno» (e insiste).4 Ha previsto la Carta dei principi e dei valori. 5 Ha avuto un fittissimo scambio di mail con Grillo che ha accolto quasi tutto. Il «quasi», vale a dire il passo indietro del Garante, resta decisivo.Sullo slancio affabulatorio l'ex premier non rinuncia a una delle sue omeriche bugie. Alla domanda se il clima di incertezza rischia di minare l'appoggio dei pentastellati all'esecutivo, spara: «Non si deve fare mistero di un fatto, ho favorito la nascita del governo Draghi». Il pianeta sa che è esattamente il contrario: lui tentò di barricarsi a Palazzo Chigi, di farsi scudo dei responsabili e dei Ciampolilli, di costringere il Pd a una delle più avvilenti contrattazioni di senatori della storia repubblicana. E poi se ne andò sorretto da Rocco Casalino, non prima del solitario discorso d'addio dietro il gelido tavolino da giocatore delle tre carte in autogrill. Alla fine, Dagospia parla di un Beppe furioso, che sbotta: «Ho ascoltato le dichiarazioni di un arrogante», «in balìa del Travaglio-pensiero», «come posso parlare con qualcuno che vuole dettarmi delle condizioni?». «M'ama, non m'ama». Grillo, le margherite, le mangia in insalata.
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