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2019-12-03
Conte agita le carte e attacca Salvini. Ue e Lega lo sbugiardano in diretta
Ansa
«Lo ha detto tra parentesi…». Sono la 17 e 30 di ieri, Matteo Salvini ha appena concluso il suo intervento in Senato. Ha fatto a pezzettini il premier col ciuffo, Giuseppe Conte, che aveva in precedenza, prima alla Camera e poi a Palazzo Madama, letto il compitino preparato dai suoi uffici per tentare di respingere il mare di critiche sul suo comportamento in merito alla riforma del Mes. Salvini lo fulmina in chiusura di intervento: «Lo dico tra parentesi: si vergogni».
La sinistra chiede al presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, di censurare la frase di Salvini. «Lo ha detto tra parentesi», dice la Casellati, prima di richiamare il leader della Lega. Si chiude così l'ennesimo giorno più lungo del premier bifronte. Conte si presenta in aula alla Camera, alle 13. Legge il suo discorsetto, attacca le opposizioni, in particolare Salvini: «Se le accuse di tradimento», dice l'ex avvocato del popolo, «sul negoziato con l'Europa sul Mes rivolte dalle opposizioni al presidente del Consiglio non avessero fondamento e anzi fosse dimostrato che chi le ha mosse era ben consapevole della loro falsità, avremmo la prova che chi ora è all'opposizione e si è candidato a governare il Paese con pieni poteri, sta dando prova, e purtroppo non sarebbe la prima volta, di scarsa cultura delle regole e della più assoluta mancanza di rispetto delle istituzioni».
«Se questo fosse il caso, infatti», aggiunge Conte, «saremmo di fronte a un comportamento fortemente irresponsabile, perché una falsa accusa di alto tradimento della Costituzione è questione differente dall'accusa di avere commesso errori politici o di avere fatto cattive riforme: è un'accusa che non si limita solo a inquinare il dibattito pubblico e a disorientare i cittadini, è indice della forma più grave di spregiudicatezza perché pur di lucrare un qualche effimero vantaggio finisce per minare alle basi la credibilità delle istituzioni democratiche e la fiducia che i cittadini ripongono in esse».
«Pur di attaccare la mia persona e il governo», dice ancora il premier, «non ci si è fatti scrupolo, e mi sono sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, la cui disinvoltura a restituire la verità e la cui resistenza a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni, di diffondere notizie allarmistiche, palesemente false, che hanno destato preoccupazione nei cittadini e, in particolare, nei risparmiatori». La leader di Fdi risponde furiosa: «Lei è un presidente che ci riempie di menzogne».
Ma quali sarebbero le bugie dell'opposizione? Conte prova a elencarle: «È stato detto che sarebbe prevista la confisca dei conti correnti dei risparmiatori e, più in generale, che tutti i nostri risparmi verrebbero posti a rischio; è stato detto che il Mes servirebbe solo a beneficiare le banche altrui e non le nostre. È stato anche detto che il Mes sarebbe stato già firmato, e per giunta di notte. Anche chi è all'opposizione ha compiti di responsabilità».
Conte agita le carte, vuol far vedere che sa il fatto suo. Peccato che, proprio in quei minuti, un'agenzia lo smentisca in diretta: la riforma del trattato sul Mes, dicono fonti dell'Eurogruppo, «è stata già approvata a giugno, stiamo solo discutendo la legislazione secondaria, meglio chiudere ora». È la pietra tombale di tutto il ragionamento del premier e del Pd. Ed è una pezza d'appoggio alle critiche di Salvini grossa come una cosa, giunta per di più dalla fonte meno attesa.
«Li avete sentiti i 5 stelle alla Camera?», tuona Salvini, «han detto che è tutto aperto... delle due l'una. A me risulta che questi qua abbiano già dato la parola e mai nella vita si sognano di tornare indietro... O ha mentito Gualtieri o ha mentito Conte. O non ha capito niente Di Maio. Non è che ci siano altre ipotesi...».
Dopo gli schiaffi presi dall'Eurogruppo, tuttavia, a Conte arriva anche la bordata leghista su un altro punto chiave della vicenda: la trasparenza. Tutti sapevano tutto, dice il premier. Nessun segreto, nessun mistero.
Ricorda diversamente il senatore leghista Alberto Bagnai, che in Aula ha ricordato un episodio finora non reso noto delle fasi preparatorie del Mes: «Sicuramente», ha tuonato dal banco l'economista del Carroccio, «non può non sapere di quando io, Garavaglia, Castelli e un quidam de populo che non nomino siamo stati rinchiusi in una stanza a Palazzo Chigi il giorno prima dell'Eurogruppo a vedere un testo con parantesi quadre ancora non risolte, con un attonito capo di gabinetto degradato a livello di bidello di scuola materna che doveva controllare che non prendessimo appunti, che non fotografassimo e comunicassimo con l'esterno. Questa è la condivisione che ha avuto con noi». A Bagnai fa eco, su Twitter, l'altro economista della Lega, il deputato Claudio Borghi, che chiosa: «Ecco qui quando è apparso il testo del Mes. Volevo lasciare che fosse Bagnai a rivelarlo. Il 15 giugno, in una stanza chiusa di Palazzo Chigi, a 4 persone, con il capo ufficio di Conte, Goracci, che vigilava che non si prendessero appunti e fotografie. Altro che dicembre o marzo». Borghi posta anche la foto di una chat che, assicura, è proprio di quei giorni. Bagnai gli scriveva: «Goracci mi ha poi convocato: dobbiamo vedere il documento (40 pagine) sotto la sua custodia, senza farne copie o appunti. Ci trattano come trattarono i parlamentari greci col memorandum. Non ci è stato dato, come politici e come parlamentari, alcun potere di fare controproposte». Chiamiamolo metodo Mes. Che poi è semplicemente il metodo Ue.
Carlo Tarallo
Italia 1 incalza Giuseppi: «Mentì sul concorso all’università?»
Dopo la clamorosa smentita della tesi di Giuseppe Conte, che s'era detto non al corrente di essere un papabile premier quando firmò il parere per Fiber 4.0 (la sera prima di consegnarlo era a un vertice con Matteo Salvini e Luigi Di Maio), si prospetta un'altra grana per la reputazione del presidente del Consiglio. Stavolta, non nelle sue vesti di avvocato del popolo, ma di avvocato privato, per clienti di prestigio, come l'Autorità garante per la protezione dei dati personali.
La vicenda rischia di proiettare ombre inquietanti sul rapporto di Conte con il suo mentore Guido Alpa e sulla legittimità del concorso da professore ordinario, che il premier vinse nel 2002 e nella cui commissione figurava proprio il giurista piemontese.
La storia la racconteranno Antonino Monteleone e Marco Occhipinti questa sera, alle Iene, su Italia 1, alle ore 21.15. E ovviamente andranno a raccogliere anche la versione di Conte. I due già l'anno scorso avevano messo sotto la lente d'ingrandimento la relazione professionale del presidente del Consiglio con il professore, titolare di una cattedra di diritto civile alla Sapienza. Le iene avevano indagato sullo studio legale che lo stesso Giuseppi, nel proprio curriculum, dichiarava di aver aperto con Alpa a Roma, in via Cairoli, zona Esquilino. Secondo le spiegazioni fornite dal premier in una lettera a Repubblica dell'8 ottobre 2018, si trattava in realtà di un appartamento in cui gli inquilini condividevano solamente numero di telefono e segretaria, pagando però due affitti diversi e soprattutto fatturando ciascuno per conto proprio. Alpa era al piano di sotto, Conte al piano di sopra, ma i professionisti lavoravano separatamente.
Sullo sfondo, c'era il concorso del 2002 da professore ordinario per l'università casertana Luigi Vanvitelli, con cui Conte ottenne l'abilitazione e nella cui commissione sedeva anche Alpa. Chiaramente, se fosse provato che i due avvocati erano effettivamente associati, ne deriverebbe che quel concorso era viziato.
Le Iene ritengono di aver raccolto un nuovo indizio che farebbe sospettare che il premier abbia mentito sulla vicenda. Il 29 gennaio del 2002, ovvero sei mesi prima che si concludesse il concorso a Caserta, l'Autorità garante per la protezione dei dati personali invia una lettera d'incarico per la propria difesa nell'ambito di una controversia con la Rai e l'Agenzia delle entrate, aperta al tribunale civile di Roma. La missiva, rilevano Monteleone e Occhipinti, «ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo»: via Sardegna 38, Roma. Destinatari, proprio Guido Alpa e Giuseppe Conte.
Ma allora, se i due avvocati lavoravano e fatturavano indipendentemente, che senso aveva spedire un'unica lettera a entrambi? E soprattutto, perché nel suo curriculum Giuseppi alludeva a uno studio in via Cairoli, se questa lettera d'incarico mostrerebbe che Conte era domiciliato presso lo studio Alpa in via Sardegna, a due passi da via Veneto, a mezz'ora di camminata dall'Esquilino?
D'altra parte, la redazione delle Iene ricorda di aver presentato due richieste di accesso agli atti per verificare che le dichiarazioni del presidente del Consiglio fossero vere. L'Autorità, però, le ha respinte entrambe. E Conte non ha mai mostrato la fattura di questa prestazione legale: se fosse intestata solo a lui, il premier fugherebbe ogni dubbio su un eventuale rapporto professionale con Alpa e, conseguentemente, sulla sua carriera accademica.
L'avvocato del popolo si avvarrà ancora della facoltà di non rispondere al popolo?
Alessandro Rico
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Dura reprimenda del presidente al leader leghista in Senato. «Trattato già firmato? Falso, studia i dossier» Ma l'Eurogruppo: «Riforma approvata». Bagnai: «Vedemmo il testo solo il 15 giugno. E sotto sorveglianza».Il mentore lo promosse alla prova da prof sei mesi dopo un incarico legale comune.Lo speciale contiene due articoli«Lo ha detto tra parentesi…». Sono la 17 e 30 di ieri, Matteo Salvini ha appena concluso il suo intervento in Senato. Ha fatto a pezzettini il premier col ciuffo, Giuseppe Conte, che aveva in precedenza, prima alla Camera e poi a Palazzo Madama, letto il compitino preparato dai suoi uffici per tentare di respingere il mare di critiche sul suo comportamento in merito alla riforma del Mes. Salvini lo fulmina in chiusura di intervento: «Lo dico tra parentesi: si vergogni». La sinistra chiede al presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, di censurare la frase di Salvini. «Lo ha detto tra parentesi», dice la Casellati, prima di richiamare il leader della Lega. Si chiude così l'ennesimo giorno più lungo del premier bifronte. Conte si presenta in aula alla Camera, alle 13. Legge il suo discorsetto, attacca le opposizioni, in particolare Salvini: «Se le accuse di tradimento», dice l'ex avvocato del popolo, «sul negoziato con l'Europa sul Mes rivolte dalle opposizioni al presidente del Consiglio non avessero fondamento e anzi fosse dimostrato che chi le ha mosse era ben consapevole della loro falsità, avremmo la prova che chi ora è all'opposizione e si è candidato a governare il Paese con pieni poteri, sta dando prova, e purtroppo non sarebbe la prima volta, di scarsa cultura delle regole e della più assoluta mancanza di rispetto delle istituzioni». «Se questo fosse il caso, infatti», aggiunge Conte, «saremmo di fronte a un comportamento fortemente irresponsabile, perché una falsa accusa di alto tradimento della Costituzione è questione differente dall'accusa di avere commesso errori politici o di avere fatto cattive riforme: è un'accusa che non si limita solo a inquinare il dibattito pubblico e a disorientare i cittadini, è indice della forma più grave di spregiudicatezza perché pur di lucrare un qualche effimero vantaggio finisce per minare alle basi la credibilità delle istituzioni democratiche e la fiducia che i cittadini ripongono in esse». «Pur di attaccare la mia persona e il governo», dice ancora il premier, «non ci si è fatti scrupolo, e mi sono sorpreso, se posso dirlo, non della condotta del senatore Salvini, la cui disinvoltura a restituire la verità e la cui resistenza a studiare i dossier mi sono ben note, quanto del comportamento della deputata Meloni, di diffondere notizie allarmistiche, palesemente false, che hanno destato preoccupazione nei cittadini e, in particolare, nei risparmiatori». La leader di Fdi risponde furiosa: «Lei è un presidente che ci riempie di menzogne». Ma quali sarebbero le bugie dell'opposizione? Conte prova a elencarle: «È stato detto che sarebbe prevista la confisca dei conti correnti dei risparmiatori e, più in generale, che tutti i nostri risparmi verrebbero posti a rischio; è stato detto che il Mes servirebbe solo a beneficiare le banche altrui e non le nostre. È stato anche detto che il Mes sarebbe stato già firmato, e per giunta di notte. Anche chi è all'opposizione ha compiti di responsabilità». Conte agita le carte, vuol far vedere che sa il fatto suo. Peccato che, proprio in quei minuti, un'agenzia lo smentisca in diretta: la riforma del trattato sul Mes, dicono fonti dell'Eurogruppo, «è stata già approvata a giugno, stiamo solo discutendo la legislazione secondaria, meglio chiudere ora». È la pietra tombale di tutto il ragionamento del premier e del Pd. Ed è una pezza d'appoggio alle critiche di Salvini grossa come una cosa, giunta per di più dalla fonte meno attesa.«Li avete sentiti i 5 stelle alla Camera?», tuona Salvini, «han detto che è tutto aperto... delle due l'una. A me risulta che questi qua abbiano già dato la parola e mai nella vita si sognano di tornare indietro... O ha mentito Gualtieri o ha mentito Conte. O non ha capito niente Di Maio. Non è che ci siano altre ipotesi...».Dopo gli schiaffi presi dall'Eurogruppo, tuttavia, a Conte arriva anche la bordata leghista su un altro punto chiave della vicenda: la trasparenza. Tutti sapevano tutto, dice il premier. Nessun segreto, nessun mistero.Ricorda diversamente il senatore leghista Alberto Bagnai, che in Aula ha ricordato un episodio finora non reso noto delle fasi preparatorie del Mes: «Sicuramente», ha tuonato dal banco l'economista del Carroccio, «non può non sapere di quando io, Garavaglia, Castelli e un quidam de populo che non nomino siamo stati rinchiusi in una stanza a Palazzo Chigi il giorno prima dell'Eurogruppo a vedere un testo con parantesi quadre ancora non risolte, con un attonito capo di gabinetto degradato a livello di bidello di scuola materna che doveva controllare che non prendessimo appunti, che non fotografassimo e comunicassimo con l'esterno. Questa è la condivisione che ha avuto con noi». A Bagnai fa eco, su Twitter, l'altro economista della Lega, il deputato Claudio Borghi, che chiosa: «Ecco qui quando è apparso il testo del Mes. Volevo lasciare che fosse Bagnai a rivelarlo. Il 15 giugno, in una stanza chiusa di Palazzo Chigi, a 4 persone, con il capo ufficio di Conte, Goracci, che vigilava che non si prendessero appunti e fotografie. Altro che dicembre o marzo». Borghi posta anche la foto di una chat che, assicura, è proprio di quei giorni. Bagnai gli scriveva: «Goracci mi ha poi convocato: dobbiamo vedere il documento (40 pagine) sotto la sua custodia, senza farne copie o appunti. Ci trattano come trattarono i parlamentari greci col memorandum. Non ci è stato dato, come politici e come parlamentari, alcun potere di fare controproposte». Chiamiamolo metodo Mes. Che poi è semplicemente il metodo Ue.Carlo Tarallo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-agita-le-carte-e-attacca-salvini-ue-e-lega-lo-sbugiardano-in-diretta-2641498538.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="italia-1-incalza-giuseppi-menti-sul-concorso-alluniversita" data-post-id="2641498538" data-published-at="1765182945" data-use-pagination="False"> Italia 1 incalza Giuseppi: «Mentì sul concorso all’università?» Dopo la clamorosa smentita della tesi di Giuseppe Conte, che s'era detto non al corrente di essere un papabile premier quando firmò il parere per Fiber 4.0 (la sera prima di consegnarlo era a un vertice con Matteo Salvini e Luigi Di Maio), si prospetta un'altra grana per la reputazione del presidente del Consiglio. Stavolta, non nelle sue vesti di avvocato del popolo, ma di avvocato privato, per clienti di prestigio, come l'Autorità garante per la protezione dei dati personali. La vicenda rischia di proiettare ombre inquietanti sul rapporto di Conte con il suo mentore Guido Alpa e sulla legittimità del concorso da professore ordinario, che il premier vinse nel 2002 e nella cui commissione figurava proprio il giurista piemontese. La storia la racconteranno Antonino Monteleone e Marco Occhipinti questa sera, alle Iene, su Italia 1, alle ore 21.15. E ovviamente andranno a raccogliere anche la versione di Conte. I due già l'anno scorso avevano messo sotto la lente d'ingrandimento la relazione professionale del presidente del Consiglio con il professore, titolare di una cattedra di diritto civile alla Sapienza. Le iene avevano indagato sullo studio legale che lo stesso Giuseppi, nel proprio curriculum, dichiarava di aver aperto con Alpa a Roma, in via Cairoli, zona Esquilino. Secondo le spiegazioni fornite dal premier in una lettera a Repubblica dell'8 ottobre 2018, si trattava in realtà di un appartamento in cui gli inquilini condividevano solamente numero di telefono e segretaria, pagando però due affitti diversi e soprattutto fatturando ciascuno per conto proprio. Alpa era al piano di sotto, Conte al piano di sopra, ma i professionisti lavoravano separatamente. Sullo sfondo, c'era il concorso del 2002 da professore ordinario per l'università casertana Luigi Vanvitelli, con cui Conte ottenne l'abilitazione e nella cui commissione sedeva anche Alpa. Chiaramente, se fosse provato che i due avvocati erano effettivamente associati, ne deriverebbe che quel concorso era viziato. Le Iene ritengono di aver raccolto un nuovo indizio che farebbe sospettare che il premier abbia mentito sulla vicenda. Il 29 gennaio del 2002, ovvero sei mesi prima che si concludesse il concorso a Caserta, l'Autorità garante per la protezione dei dati personali invia una lettera d'incarico per la propria difesa nell'ambito di una controversia con la Rai e l'Agenzia delle entrate, aperta al tribunale civile di Roma. La missiva, rilevano Monteleone e Occhipinti, «ha un unico numero di protocollo, è inviata a un unico studio legale, presso un unico indirizzo»: via Sardegna 38, Roma. Destinatari, proprio Guido Alpa e Giuseppe Conte. Ma allora, se i due avvocati lavoravano e fatturavano indipendentemente, che senso aveva spedire un'unica lettera a entrambi? E soprattutto, perché nel suo curriculum Giuseppi alludeva a uno studio in via Cairoli, se questa lettera d'incarico mostrerebbe che Conte era domiciliato presso lo studio Alpa in via Sardegna, a due passi da via Veneto, a mezz'ora di camminata dall'Esquilino? D'altra parte, la redazione delle Iene ricorda di aver presentato due richieste di accesso agli atti per verificare che le dichiarazioni del presidente del Consiglio fossero vere. L'Autorità, però, le ha respinte entrambe. E Conte non ha mai mostrato la fattura di questa prestazione legale: se fosse intestata solo a lui, il premier fugherebbe ogni dubbio su un eventuale rapporto professionale con Alpa e, conseguentemente, sulla sua carriera accademica. L'avvocato del popolo si avvarrà ancora della facoltà di non rispondere al popolo? Alessandro Rico
La scritta apparsa a Marina di Pietrasanta (Ansa)
La polizia del commissariato di Forte dei Marmi ha avviato gli accertamenti per individuare i responsabili e sta verificando la presenza di telecamere nella zona che possano aver ripreso l’autore o gli autori del gesto. Non il primo ai danni del presidente del Consiglio, ma sicuramente annoverabile tra i più violenti.
Risale ad appena pochi mesi fa l’altra scritta che aveva suscitato parecchia indignazione: «Meloni come Kirk». Una frase per augurare al premier la fine dell’attivista americano Charlie Kirk, morto ammazzato durante un comizio a causa di una pallottola. Un gesto d’odio che evidentemente alimenta altro odio. La frase di Marina di Pietrasanta potrebbe essere una risposta a un’altra frase, pronunciata da Giorgia Meloni lo scorso 25 settembre in occasione di Fenix, la festa di Gioventù nazionale, partendo da una considerazione proprio sui post contro Charlie Kirk: «Non abbiamo avuto paura delle Brigate rosse, non ne abbiamo oggi». Fdi ha diffuso una nota dove si parla di «minacce al presidente Meloni, firmate dall’estremismo rosso: l’ennesima prova di un clima d’odio che qualcuno continua a tollerare». Nel testo si ribadisce che «la violenza si argina isolando i facinorosi, non strizzando loro l’occhio. La condanna unanime resta, per certa sinistra, ancora un esercizio difficile. Non ci intimidiscono. Non ci hanno mai intimidito». Anche la Lega ha espresso immediatamente la sua solidarietà al presidente del Consiglio. «Una frase aberrante, una minaccia di morte tutt’altro che velata. Auspichiamo una condanna unanime e bipartisan. Un clima d’odio inaccettabile che non può essere minimizzato», ha commentato Andrea Crippa, deputato toscano del Carroccio.
«Un gesto vile che conferma un clima di odio politico sempre più preoccupante. Da tempo denuncio questa deriva: nessun confronto può giustificare incitamenti alla violenza», commenta il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Parole di vicinanza e di condanna anche da parte del ministro della Salute, Orazio Schillaci, e dal ministro della Cultura, Alessandro Giuli: «Un gesto intimidatorio inaccettabile».
«Ha ragione il ministro Crosetto: c’è il rischio di trovarsi da un giorno all’altro con le Brigate rosse 4.0 se si continuerà a minimizzare l’offensiva di violenza dell’estrema sinistra», sostiene il capo dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Piena solidarietà al Presidente del consiglio Giorgia Meloni per la scritta minacciosa», commenta Paolo Barelli (Fi): «È indispensabile uno stop immediato a questo clima avvelenato: serve una condanna unanime e trasversale, e occorre abbassare i toni per riportare il dibattito pubblico entro i confini del rispetto».
Per Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, si tratta di un fatto «gravissimo che va condannato senza ambiguità: evocare le Brigate rosse significa richiamare una stagione buia che l’Italia non vuole e non deve rivivere». Solidarietà anche da Maria Stella Gelmini .
Durissima la presa di posizione dell’Osservatorio nazionale Anni di Piombo per la verità storica, che parla di «atto infame» e di un gesto che «evoca la stagione del terrorismo e delle esecuzioni politiche».
Giornaliste italiane esprime «la più ferma condanna» per il gesto invitando «tutti i colleghi giornalisti, i media, le forze politiche, i rappresentanti della società civile a condannare e non far calare il silenzio su un episodio che colpisce le nostre istituzioni. Contribuire, ciascuno nel proprio ambito, alla costruzione di un clima pubblico rispettoso, lontano da logiche che alimentano tensioni e contrapposizioni assolute è una responsabilità che coinvolge tutti». Da Pd, Avs e M5s silenzio assoluto.
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa dell'8 dicembre con Carlo Cambi
È stata confermata in appello la condanna di primo grado pronunciata nei confronti di Mario Roggero (Ansa)
Nel 2015 Roggero subì una rapina devastante. «Naso, tre costole, operato alla spalla destra il mese dopo, oltre 6 mesi di terapia molto dolorosa», racconta ora davanti alle telecamere del programma condotto da Mario Giordano su Rete 4. «Mi hanno aggredito con una tale aggressività che non ho potuto fare niente. Erano due picchiatori e mi hanno sopraffatto completamente». È il passaggio che demolisce la lettura della Corte, secondo cui nel 2021 Roggero avrebbe «agito con la stessa modalità del 2015». Il gioielliere commenta: «Penoso. Ma stiamo scherzando?». Nel 2015 fu massacrato da due individui che continuarono a picchiarlo quando era a terra. «Chiunque ha visto il video di quella rapina», aggiunge Roggero, «è rimasto profondamente impressionato». E infatti le immagini mandate in onda mostrano un’aggressione brutale, con l’uomo inerme a terra e sangue ovunque. Una scena che per Roggero è trauma puro. Ma per i giudici non è ammissibile che un uomo massacrato nel 2015, che vive un dramma simile nel 2021, abbia reazioni difensive. Il salto di cornice che Roggero mette in evidenza è questo: nel 2015 non si difende, viene pestato, finisce in ospedale. Risultato: innocente, vittima. Nel 2021 reagisce, neutralizza chi minaccia con la pistola e fugge. Risultato: imputato, condannato, trattato da aggressore. Roggero fotografa senza filosofia: «Le vere vittime siamo noi».
Lui lo dice in modo semplice: «Con la pistola in alto non avrei sparato, ma quando lui me la punta in faccia, me la punta in fronte, che faccio?». L’ultimo passaggio delle sue parole è dedicato alla Suprema corte. Sembra un atto di fede laica: «Per la Cassazione», dice Roggero, «si presuppone e si spera che abbiano buon senso i giudici». Per comprendere il percorso dei giudici d’Appello, bisognerà attendere le motivazioni. Già in primo grado, però, era emersa una doppia narrazione: con Roggero nel ruolo di vittima durante la rapina e di aggressore fuori dal negozio. La moglie ha riferito che uno dei rapinatori, «soggetti con plurimi precedenti penali per reati contro il patrimonio» riconoscono i giudici, dopo averla colpita al volto le puntava il coltello al collo e minacciava di uccidere tutti. Alla figlia erano stati legati i polsi dietro la schiena. Roggero ha riferito che il rapinatore gli ha puntato la pistola in faccia, urlando «ti ammazzo». Entrano, lo afferrano, lo spingono verso il registratore di cassa. Lo portano nella zona ripresa dalle telecamere e, mentre afferra il rotolo dei gioielli, l’altro continua a strattonarlo. Poi lo spostano nell’ufficio in cui c’è la cassaforte. Lui ha ancora l’arma puntata alla testa. La scena non dura pochi secondi. Va avanti finché il gioielliere, approfittando di un attimo di distrazione, riesce a schiacciare il pulsante dell’allarme antirapina. Uno dei malviventi se ne accorge e torna verso la cassa. Roggero sente di nuovo la moglie urlare. Riesce a prendere la sua pistola e a spostarsi nel retro. Un gesto istintivo, dettato, dirà in aula, dalla convinzione che la moglie fosse stata presa in ostaggio. I giudici evidenziano anche che la famiglia «è stata sicuramente vittima di una rapina connotata da uso di armi e anche dai citati atti di violenza fisica; condotte che hanno sicuramente generato una forte e comprensibile paura nelle vittime». Fuori c’era un’auto parcheggiata. Ed è a questo punto che la Corte introduce un teorema: quando i rapinatori escono dal negozio, con armi e refurtiva, il pericolo svanisce. Quando si tratta di qualificare la reazione di Roggero all’esterno, i rapinatori diventano di colpo soggetti in fuga, innocui e vulnerabili. Per i giudici, «ha deliberatamente deciso di affrontare i rapinatori con il precipuo fine di assicurarli, lui, alla giustizia, o meglio alla sua giustizia privata, con immediata “esecuzione” della pena nei confronti dei colpevoli». La prova? Da ricercare, secondo i giudici, in alcune interviste, non perfettamente allineate alla ricostruzione giudiziaria, rilasciate dal gioielliere a giornali e tv dopo i fatti. L’azione, in primo grado, è stata giudicata punibile con 17 anni di carcere. Ora lo sconto di pena: 14 anni e 9 mesi (più 3 milioni di euro richiesti dalle parti offese). «Praticamente un ergastolo per una persona di 72 anni», aveva detto Roggero in udienza. E a Fuori dal coro ha aggiunto: «C’è qualcosa che non quadra».
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Maurizio Landini (Ansa)
Al capo della Uil non è giunta neppure una lettera di scuse. Agli aggrediti neppure una manifestazione di solidarietà dai sindacalisti rossi. Ufficialmente è come se l’aggressione nei confronti dei colleghi sindacalisti da parte di quelli dei metalmeccanici della Cgil non fosse mai avvenuta. Eppure, molti giornali ne hanno parlato anche perché gli aggrediti sono finiti in ospedale ed è anche stata presentata una denuncia, affinché il caso non finisca nel dimenticatoio.
Tuttavia, nonostante quanto accaduto sia assai grave e riguardi la vertenza per la sopravvivenza dell’Ilva, ovvero della più grande acciaieria italiana che - grazie all’inchiesta della magistratura - rischia di fallire, Landini di fatto non ha trovato il tempo di commentare. E neppure di prendere le distanze dai suoi. Il che significa solo una cosa, ovvero che il leader del principale sindacato italiano, per convenienza politica, ha imboccato una deriva pericolosa, che rischia di consegnare alcune frange della Cgil all’estremismo più violento.
Su queste pagine abbiamo più volte criticato il linguaggio radicale del segretario della Cgil. Non parliamo solo delle parole usate contro Giorgia Meloni, che venne definita una «cortigiana» di Donald Trump. Tempo fa Landini chiamò gli italiani alla «rivolta sociale», che in un Paese devastato da un terrorismo che ha provocato centinaia di morti non può certo essere lasciato passare come un invito a un pranzo di gala. «Rivolta» è un sostantivo femminile che sintetizza un «moto collettivo e violento di ribellione contro l’ordine costituito». Il significato non lascia dubbi: si parla di insurrezione, sommossa, rivoluzione. Insomma, si tratta di una chiamata se non alle armi quantomeno alla ribellione. Landini in pratica reclama una sollevazione popolare, con le conseguenze che si possono immaginare. Dunque, vedere un manipolo di squadristi rossi che dà la caccia a sindacalisti che su una vertenza la pensano in maniera diversa, suscita preoccupazione.
Pierpaolo Bombardieri, capo della Uil, ha parlato di metodi «terroristici», una definizione che mette i brividi soprattutto in un momento in cui l’Italia è percorsa da manifestazioni ed espressioni che proprio non si possono definire pacifiche. Mentre alla fiera di Roma dedicata ai libri si discute della presenza di un singolo editore non allineato con il pensiero di sinistra (per questo lo si vorrebbe cacciare), a Pietrasanta è comparso un invito a sparare a Giorgia, con la stella a 5 punte delle Br, e ovviamente non si parlava della cantante. Si capisce che sia nel linguaggio sia nelle manifestazioni è in atto un cambiamento e un inasprimento della lotta politica.
A questo punto Landini deve solo decidere da che parte stare. Se di qua o di là. Se con chi difende la democrazia e la diversità di opinione o con chi usa metodi violenti per affermare le proprie idee. Il silenzio non si addice a chi denuncia ogni giorno il ritorno del fascismo. Qui l’unico pericolo viene da sinistra. È a sinistra che si invoca la rivolta. Se Landini non vuole finire nella schiera dei cattivi maestri ha il dovere di parlare e di denunciare chi riesuma lo squadrismo. Con i compagni che sbagliano sappiamo tutti come è finita.
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