2020-06-14
Le rivolte a favore dei neri diventano un business con le patenti antirazziste
Forbes spiega che varie corporation americane cercano esperti di «equità razziale». In Italia operano già organizzazioni che forniscono bollini rosa e arcobaleno. Chi non si omologa al pensiero unico è tagliato fuori.Per le strade di Londra va in scena la guerriglia, con la polizia che carica gli «estremisti di destra» di Britain First, scesi per le vie allo scopo di «difendere le statue» che gli attivisti di Black lives matter vogliono abbattere. Ad Atlanta, invece, un altro uomo di pelle nera è stato ucciso dalla polizia, il ventisettenne Rayshard Brooks, dopo una colluttazione fuori da un fast food della catena Wendy's. Mentre in strada, dunque, continua a scorrere il sangue, dietro le quinte, in luoghi decisamente più sicuri, si comincia già a trarre profitto dall'ondata di «proteste antirazziste». Giusti ieri sulla prestigiosa rivista Forbes, l'esperta di «diversità e inclusione» Janice Gassam ha spiegato che «nelle ultime settimane, la richiesta di formatori sulla equità razziale è salita alle stelle. Le aziende hanno riflettuto sulla propria cultura e hanno riconosciuto che si potrebbe fare molto di più per favorire l'inclusione dei dipendenti e garantire che tutti vengano trattati in modo equo». Tutto chiaro. Le grandi aziende statunitensi si stanno dotando di consulenti «specializzati nell'aumentare la comprensione e la consapevolezza dell'equità razziale». Sono esperti neri il cui compito è quello di stabilire se una corporation stia o meno trattando adeguatamente i suoi dipendenti appartenenti alle minoranze etniche.Ecco il primo effetto delle manifestazioni di piazza e dell'abbattimento delle statue: si è immediatamente sviluppato un business. Le rivendicazioni di Black lives matter e simili hanno consentito di spalancare un nuovo mercato: consulenti (si suppone molto ben pagati) offrono alle aziende pacchetti che comprendono «webinar, coaching, workshop» e altre amenità utili a «educare» i dipendenti al rispetto della equità razziale. Non è la prima volta che accade. Anzi, a dire il vero da qualche anno a questa parte continuiamo a vedere in azione il medesimo meccanismo. È successo con i temi ambientali e la «rivoluzione green», si è ripetuto con il Me too e la psicosi delle molestie, e adesso tocca al razzismo. Le modalità sono ogni volta le stesse. Gli attivisti scendono in piazza, gridano, strepitano e talvolta sono violenti. I media mainstream li seguono a ruota, osannando i dimostranti e linciando i cattivi di turno (gli inquinatori, gli uomini portatori di «maschilità tossica», i presunti razzisti). Poi entrano in gioco le aziende. Per fare bella figura e mostrarsi sensibili ai dibattiti politico-sociali in corso, le multinazionali (e, a cascata, tutti gli altri) decidono di mostrare ai clienti di essere al passo con i tempi. Quindi contattano esperti del settore che possano, dopo opportune verifiche, apporre il marchio di qualità morale. In Italia, ad esempio, esiste Parks, un'organizzazione fondata da Ivan Scalfarotto «per aiutare le aziende socie a comprendere e realizzare al massimo le potenzialità di business legate allo sviluppo di strategie e buone pratiche rispettose della diversità». In pratica, i grandi marchi (e sono tanti) che aderiscono a Parks si mostrano sensibili ai temi Lgbt. Il Winning Women Institute, invece, si occupa di distribuire i «bollini rosa» alle corporation che mostrano «impegno nel contrastare gender gap e discriminazioni di genere». A breve, immaginiamo, arriverà anche il «bollino nero» benedetto da Black lives matter. Tutto ciò si potrebbe liquidare alla voce «follia buonista». Ma non è il caso di sottovalutare queste tendenze. Se un'azienda, per ottenere il bollino etico, deve «rieducare» i suoi dipendenti, significa che chiunque non si uniformi al pensiero dominante può perdere il posto di lavoro. Se io non supporto Black lives matter e vengo etichettato come razzista, il «consulente per la diversità» del mio datore di lavoro potrebbe avere un motivo per licenziarmi. L'aspetto più singolare è che tutto questo avviene a prescindere dalle procedure democratiche. È come se esistesse un legame diretto fra la piazza e le aziende: gli attivisti scendono in campo, fanno casino, e subito il Capitale si adegua, imponendo nuovi standard. Chi non li accetta, è fuori. Chi invece si sottomette, di fatto viene tramutato in una sorta di robottino obbediente e manipolabile. Vi chiedete perché grandi multinazionali scelgano di finanziare i gay pride e, adesso, persino i bellicosi «antirazzisti»? Ecco il motivo: sono utili al business. Anche se forse non se ne rendono conto.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)