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2020-09-24
I soldi sottratti agli sbancati
finiscono nei paradisi fiscali
Ansa
L'odissea di Francesco Sanvitto inizia nell'autunno del 2005, quando la sua R&P srl (sette soci lavoratori e cinque dipendenti) decide di ristrutturare il suo edificio produttivo nel quartiere Marconi di Roma, davanti al Gasometro, per migliorare la propria attività di gestione di uffici arredati e fornitura di servizi (business center e coworking): 55 uffici e sale riunioni. Ha bisogno di liquidi, quindi si rivolge alla banca di riferimento - la Popolare dell'Etruria - che nei due anni successivi rilascia due mutui, per un totale di circa 2,7 milioni. L'istituto aretino eroga il finanziamento ponendo tre condizioni: una garanzia reale con ipoteca sull'immobile di circa 6 milioni (l'edificio è valutato ristrutturato a circa 9); fideiussioni rilasciate da tutti i sette soci, ognuno per il totale del prestito; l'acquisto con gli stessi soldi del prestito (la società non ha ulteriore liquidità) di circa 110.000 euro di titoli derivati. La R&P paga regolarmente il mutuo sino ad arrivare alla riduzione del capitale prestato a circa la metà del suo valore iniziale, 1,5 milioni.
Nel corso della gestione del coworking, un cliente crea una perdita di circa 250.000 euro, la società trova difficoltà a pagare il mutuo e chiede che vengano utilizzati per pagare la rata i 70.000 euro ancora rimasti dai «titoli derivati». La banca si rifiuta di farlo se non a condizione della restituzione dell'intero capitale residuo. La R&P, nel frattempo, paga saltuariamente le rate (constata anche il totale azzeramento del valore dei derivati per l'acquisto dei quali continua a pagare gli interessi), ma riesce a riprendersi dalla crisi dovuta alle perdite e chiede a Etruria di «ristrutturare» il mutuo allungando di poco i tempi e, di conseguenza, l'importo delle rate, visto che ora il capitale è dimezzato e che esse diventano facilmente pagabili. La banca risponde picche.
Nel frattempo, ad Arezzo scoppia la rivoluzione e si arriva a un passo dal crac: la Pop Etruria viene smembrata in una bad bank e in una good bank che viene poi venduta a Ubi al prezzo simbolico di 1 euro. Nella seconda finiscono il patrimonio immobiliare e i cosiddetti Utp (unlikely to pay), ovvero i crediti di difficile riscossione, anticamera delle sofferenze ma non ancora tali, come nel caso dell'azienda romana, che è comunque in grado di restituire il capitale totale vendendo gli immobili posti a garanzia.
Intanto però cambia l'interlocutore di R&P, che si rivolge al gruppo bresciano-bergamasco chiedendo di nuovo la ristrutturazione del mutuo. «Come risposta riceviamo una informativa per la privacy e in allegato una comunicazione sulla Gazzetta ufficiale dello Stato, che il debito è stato venduto alla Rienza Spv. Ovvero uno special purpose vehicle, un veicolo societario istituito ad hoc, chiamato a emettere delle obbligazioni che colloca presso gli investitori utilizzando il ricavato derivante dal collocamento per acquistare i mutui stessi. Dopo qualche mese riceviamo una lettera da parte del Credito Fondiario che si presenta nella qualità di gestore del credito di Rienza e che pretende il pagamento delle rate arretrate».
Sanvitto vuole vedere dove è andato a finire il suo debito. E inizia a fare ricerche sulla Rienza.
Nel bilancio 2019 depositato in Camera di commercio legge che nel 2017 la società ha acquistato un portafoglio di crediti classificati da cinque banche come «inadempienze probabili» per un prezzo complessivo di 223,26 milioni. Di questi, 91,44 milioni di euro riguardano la Nuova Banca Etruria.
Dagli atti risulta, inoltre, che la Rienza ha zero dipendenti in organico ma un amministratore unico, il commercialista Andrea Balelli (oltre a essere presidente del collegio sindacale di Ferragamo, è sindaco di Tim e di numerose società, nonché amministratore di altre Spv come Gardenia, Fedaia, Restart) e un unico socio: la Stichting Tuscany. Si tratta di una fondazione anonima di diritto olandese di cui non è possibile conoscere i soci.
Alla Camera di commercio di Amsterdam risulta che la Tuscany è stata registrata nel 2016, ha sede a Amsterdam al 101 di Barbara Strozzilaan (stesso indirizzo di altre Spv e fondazioni) e una società con delega alla gestione dei proventi delle cartolarizzazioni, la Circumference Fs (Netherlands) Bv, con sede ad Amsterdam, Lussemburgo e le Cayman.
«In pratica lo Stato ha pagato i debiti per il fallimento della banca, una banca privata ha ricevuto la parte patrimonialmente e commercialmente in attivo del fallimento e i crediti garantiti ed esigibili verranno incassati in Olanda da una fondazione di cui non si conosceranno mai i proprietari e che non pagheranno tasse allo Stato italiano. Perché dobbiamo pagare loro e non restituire i soldi direttamente ai risparmiatori truffati di Etruria?», si domanda Sanvitto.
Sottolineando che il suo caso è solo una goccia nel mare e lanciando un appello «a tutte quelle aziende che sono nelle nostre condizioni per portare avanti un'azione comune».
Sia chiaro, non c'è nulla di irregolare nell'attività di queste Spv, che operano all'interno di una griglia consentita dalle norme. E il problema sta proprio lì. «Non si è fatto nulla per fare in modo che i clienti potessero tornare in bonis, dando loro anche un diritto di prelazione, riattivando il circolo virtuoso della banca che avrebbe potuto pagare gli sbancati. Immaginate su larga scala quanti soldi. Lo Stato ha permesso che questo debiti finissero all'estero con un sistema di scatole cinesi. Chiudendo un occhio sulla distruzione del nostro Pil», aggiunge l'imprenditore, che ha intentato una causa civile e un procedimento penale per usura.
Il ginepraio degli «spazzini» di Npl
Nel luglio 2017 uno studio di Pwc definiva l'Italia «the place to be», ovvero il posto dove trovarsi. Le banche stavano vendendo quantità enormi di crediti deteriorati a prezzi stracciati. Così su questo mercato si sono fiondati investitori da tutto il mondo: nomi internazionali come Fortress, Pimco, Crc, Bayview, Anacap, Cerberus, Bain Capital, Hoist finance o Varde partners, ma anche le divisioni specializzate di banche d'affari, fino a investitori italiani come Algebris.
Una volta accaparrati più Npl possibile, questi investitori li hanno dati ai cosiddetti servicer per l'attività vera e propria di recupero crediti. Sviluppando un mercato secondario di crediti in sofferenza, dove a vendere non sono più le banche, ma gli stessi fondi che dalle banche hanno comprato.
Si è così creato anche un fitto sottobosco di società veicolo create ad hoc, le cosiddette Spv, che hanno nomi curiosi: alcune di fiumi, come la Tanaro, la Tamigi e la Rienza, altre accattivanti come la Cherry 106, fondata dall'ex ad di Banca Ifis, Giovanni Bossis. Non si tratta di società che producono qualcosa, sono piuttosto un mezzo - un veicolo, appunto - che serve per fare un'operazione. I flussi finanziari originano, dunque, dalle attività che sono state cartolarizzate.
L'elenco di queste società e delle altre Svc (società veicolo di cartolarizzazione) iscritte nel registro di Banca d'Italia è lunghissimo. E non è semplice monitorare le performance di alcuni «spazzini» di Npl che sono controllati da società di diritto estere. Così come non è facile capire i prezzi dei «cartellini» esposti nel gran bazar delle sofferenze. Tanto che a febbraio, anche il governatore Ignazio Visco l'ha annunciato al Forex: Bankitalia sta mettendo sotto la lente le società che si occupano in Italia di gestire e recuperare i crediti problematici e i cosiddetti Utp.
Di certo, dietro agli Npl ci sono 1,2 milioni di persone. Per questo, incardinato al Senato, c'è un disegno di legge portato avanti da Fratelli d'Italia, nella persona del senatore Adolfo Urso, che punta a consentire il riscatto delle sofferenze bancarie direttamente ai debitori. L'obiettivo è infatti quello di «agevolare le prospettive di recupero dei crediti in sofferenza e favorire il ritorno in bonis del debitore ceduto, al fine di contribuire allo sviluppo e alla competitività del sistema economico produttivo nazionale», si legge nel primo articolo.
In pratica, se il testo di Urso diventasse legge, si creerebbe un canale privilegiato per i debitori, che avrebbero la possibilità, tramite un diritto di opzione, di ricomprarsi il credito deteriorato o direttamente l'incaglio, aggiungendo al prezzo con cui la banca l'ha ceduto una percentuale compresa tra il 20 e il 40%. Si tratta di cancellare l'onta del debito per dare scarpe nuove a chi può tornare a correre. Non a caso l'ultimo comma del testo prevede che chi si ricompra il proprio debito venga tolto dalla centrale rischi.
Anche perché, nel frattempo, potrebbe scattare di nuovo l'allarme rosso. Soprattutto per le imprese in difficoltà finanziarie, ma ancora salvabili, che non hanno potuto usufruire delle garanzie statali per ottenere credito durante i mesi del Covid. «Una bomba atomica», l'ha definita nelle scorse settimane l'ad di Mediobanca, Alberto Nagel, contestando le nuove norme della Bce, che impongono la progressiva svalutazione degli Npl fino al 100%. Una «norma sbagliata», secondo Nagel, perché trattare un credito semivivo come un credito morto pesa come il piombo anche nei bilanci delle banche. E può segnare il destino di un'azienda.
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La denuncia di un imprenditore scoperchia un sistema: i crediti di Etruria in mano a società con sedi in Olanda o alle Cayman. Anziché rimborsare i risparmiatori truffati, si lascia lucrare chi elude l'erario.Sul mercato dei crediti deteriorati si sono fiondate imprese ardue da monitorare, su cui Bankitalia sta vigilando. Fdi propone una legge per favorire il rientro dalle esposizioni.Lo speciale contiene due articoliL'odissea di Francesco Sanvitto inizia nell'autunno del 2005, quando la sua R&P srl (sette soci lavoratori e cinque dipendenti) decide di ristrutturare il suo edificio produttivo nel quartiere Marconi di Roma, davanti al Gasometro, per migliorare la propria attività di gestione di uffici arredati e fornitura di servizi (business center e coworking): 55 uffici e sale riunioni. Ha bisogno di liquidi, quindi si rivolge alla banca di riferimento - la Popolare dell'Etruria - che nei due anni successivi rilascia due mutui, per un totale di circa 2,7 milioni. L'istituto aretino eroga il finanziamento ponendo tre condizioni: una garanzia reale con ipoteca sull'immobile di circa 6 milioni (l'edificio è valutato ristrutturato a circa 9); fideiussioni rilasciate da tutti i sette soci, ognuno per il totale del prestito; l'acquisto con gli stessi soldi del prestito (la società non ha ulteriore liquidità) di circa 110.000 euro di titoli derivati. La R&P paga regolarmente il mutuo sino ad arrivare alla riduzione del capitale prestato a circa la metà del suo valore iniziale, 1,5 milioni.Nel corso della gestione del coworking, un cliente crea una perdita di circa 250.000 euro, la società trova difficoltà a pagare il mutuo e chiede che vengano utilizzati per pagare la rata i 70.000 euro ancora rimasti dai «titoli derivati». La banca si rifiuta di farlo se non a condizione della restituzione dell'intero capitale residuo. La R&P, nel frattempo, paga saltuariamente le rate (constata anche il totale azzeramento del valore dei derivati per l'acquisto dei quali continua a pagare gli interessi), ma riesce a riprendersi dalla crisi dovuta alle perdite e chiede a Etruria di «ristrutturare» il mutuo allungando di poco i tempi e, di conseguenza, l'importo delle rate, visto che ora il capitale è dimezzato e che esse diventano facilmente pagabili. La banca risponde picche. Nel frattempo, ad Arezzo scoppia la rivoluzione e si arriva a un passo dal crac: la Pop Etruria viene smembrata in una bad bank e in una good bank che viene poi venduta a Ubi al prezzo simbolico di 1 euro. Nella seconda finiscono il patrimonio immobiliare e i cosiddetti Utp (unlikely to pay), ovvero i crediti di difficile riscossione, anticamera delle sofferenze ma non ancora tali, come nel caso dell'azienda romana, che è comunque in grado di restituire il capitale totale vendendo gli immobili posti a garanzia.Intanto però cambia l'interlocutore di R&P, che si rivolge al gruppo bresciano-bergamasco chiedendo di nuovo la ristrutturazione del mutuo. «Come risposta riceviamo una informativa per la privacy e in allegato una comunicazione sulla Gazzetta ufficiale dello Stato, che il debito è stato venduto alla Rienza Spv. Ovvero uno special purpose vehicle, un veicolo societario istituito ad hoc, chiamato a emettere delle obbligazioni che colloca presso gli investitori utilizzando il ricavato derivante dal collocamento per acquistare i mutui stessi. Dopo qualche mese riceviamo una lettera da parte del Credito Fondiario che si presenta nella qualità di gestore del credito di Rienza e che pretende il pagamento delle rate arretrate».Sanvitto vuole vedere dove è andato a finire il suo debito. E inizia a fare ricerche sulla Rienza. Nel bilancio 2019 depositato in Camera di commercio legge che nel 2017 la società ha acquistato un portafoglio di crediti classificati da cinque banche come «inadempienze probabili» per un prezzo complessivo di 223,26 milioni. Di questi, 91,44 milioni di euro riguardano la Nuova Banca Etruria. Dagli atti risulta, inoltre, che la Rienza ha zero dipendenti in organico ma un amministratore unico, il commercialista Andrea Balelli (oltre a essere presidente del collegio sindacale di Ferragamo, è sindaco di Tim e di numerose società, nonché amministratore di altre Spv come Gardenia, Fedaia, Restart) e un unico socio: la Stichting Tuscany. Si tratta di una fondazione anonima di diritto olandese di cui non è possibile conoscere i soci. Alla Camera di commercio di Amsterdam risulta che la Tuscany è stata registrata nel 2016, ha sede a Amsterdam al 101 di Barbara Strozzilaan (stesso indirizzo di altre Spv e fondazioni) e una società con delega alla gestione dei proventi delle cartolarizzazioni, la Circumference Fs (Netherlands) Bv, con sede ad Amsterdam, Lussemburgo e le Cayman.«In pratica lo Stato ha pagato i debiti per il fallimento della banca, una banca privata ha ricevuto la parte patrimonialmente e commercialmente in attivo del fallimento e i crediti garantiti ed esigibili verranno incassati in Olanda da una fondazione di cui non si conosceranno mai i proprietari e che non pagheranno tasse allo Stato italiano. Perché dobbiamo pagare loro e non restituire i soldi direttamente ai risparmiatori truffati di Etruria?», si domanda Sanvitto. Sottolineando che il suo caso è solo una goccia nel mare e lanciando un appello «a tutte quelle aziende che sono nelle nostre condizioni per portare avanti un'azione comune».Sia chiaro, non c'è nulla di irregolare nell'attività di queste Spv, che operano all'interno di una griglia consentita dalle norme. E il problema sta proprio lì. «Non si è fatto nulla per fare in modo che i clienti potessero tornare in bonis, dando loro anche un diritto di prelazione, riattivando il circolo virtuoso della banca che avrebbe potuto pagare gli sbancati. Immaginate su larga scala quanti soldi. Lo Stato ha permesso che questo debiti finissero all'estero con un sistema di scatole cinesi. Chiudendo un occhio sulla distruzione del nostro Pil», aggiunge l'imprenditore, che ha intentato una causa civile e un procedimento penale per usura.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/con-i-debiti-finiti-nei-paradisi-fiscali-si-potevano-risarcire-gli-sbancati-2647782987.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-ginepraio-degli-spazzini-di-npl" data-post-id="2647782987" data-published-at="1600899224" data-use-pagination="False"> Il ginepraio degli «spazzini» di Npl Nel luglio 2017 uno studio di Pwc definiva l'Italia «the place to be», ovvero il posto dove trovarsi. Le banche stavano vendendo quantità enormi di crediti deteriorati a prezzi stracciati. Così su questo mercato si sono fiondati investitori da tutto il mondo: nomi internazionali come Fortress, Pimco, Crc, Bayview, Anacap, Cerberus, Bain Capital, Hoist finance o Varde partners, ma anche le divisioni specializzate di banche d'affari, fino a investitori italiani come Algebris. Una volta accaparrati più Npl possibile, questi investitori li hanno dati ai cosiddetti servicer per l'attività vera e propria di recupero crediti. Sviluppando un mercato secondario di crediti in sofferenza, dove a vendere non sono più le banche, ma gli stessi fondi che dalle banche hanno comprato. Si è così creato anche un fitto sottobosco di società veicolo create ad hoc, le cosiddette Spv, che hanno nomi curiosi: alcune di fiumi, come la Tanaro, la Tamigi e la Rienza, altre accattivanti come la Cherry 106, fondata dall'ex ad di Banca Ifis, Giovanni Bossis. Non si tratta di società che producono qualcosa, sono piuttosto un mezzo - un veicolo, appunto - che serve per fare un'operazione. I flussi finanziari originano, dunque, dalle attività che sono state cartolarizzate. L'elenco di queste società e delle altre Svc (società veicolo di cartolarizzazione) iscritte nel registro di Banca d'Italia è lunghissimo. E non è semplice monitorare le performance di alcuni «spazzini» di Npl che sono controllati da società di diritto estere. Così come non è facile capire i prezzi dei «cartellini» esposti nel gran bazar delle sofferenze. Tanto che a febbraio, anche il governatore Ignazio Visco l'ha annunciato al Forex: Bankitalia sta mettendo sotto la lente le società che si occupano in Italia di gestire e recuperare i crediti problematici e i cosiddetti Utp. Di certo, dietro agli Npl ci sono 1,2 milioni di persone. Per questo, incardinato al Senato, c'è un disegno di legge portato avanti da Fratelli d'Italia, nella persona del senatore Adolfo Urso, che punta a consentire il riscatto delle sofferenze bancarie direttamente ai debitori. L'obiettivo è infatti quello di «agevolare le prospettive di recupero dei crediti in sofferenza e favorire il ritorno in bonis del debitore ceduto, al fine di contribuire allo sviluppo e alla competitività del sistema economico produttivo nazionale», si legge nel primo articolo. In pratica, se il testo di Urso diventasse legge, si creerebbe un canale privilegiato per i debitori, che avrebbero la possibilità, tramite un diritto di opzione, di ricomprarsi il credito deteriorato o direttamente l'incaglio, aggiungendo al prezzo con cui la banca l'ha ceduto una percentuale compresa tra il 20 e il 40%. Si tratta di cancellare l'onta del debito per dare scarpe nuove a chi può tornare a correre. Non a caso l'ultimo comma del testo prevede che chi si ricompra il proprio debito venga tolto dalla centrale rischi. Anche perché, nel frattempo, potrebbe scattare di nuovo l'allarme rosso. Soprattutto per le imprese in difficoltà finanziarie, ma ancora salvabili, che non hanno potuto usufruire delle garanzie statali per ottenere credito durante i mesi del Covid. «Una bomba atomica», l'ha definita nelle scorse settimane l'ad di Mediobanca, Alberto Nagel, contestando le nuove norme della Bce, che impongono la progressiva svalutazione degli Npl fino al 100%. Una «norma sbagliata», secondo Nagel, perché trattare un credito semivivo come un credito morto pesa come il piombo anche nei bilanci delle banche. E può segnare il destino di un'azienda.
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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