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2020-09-24
I soldi sottratti agli sbancati
finiscono nei paradisi fiscali
Ansa
L'odissea di Francesco Sanvitto inizia nell'autunno del 2005, quando la sua R&P srl (sette soci lavoratori e cinque dipendenti) decide di ristrutturare il suo edificio produttivo nel quartiere Marconi di Roma, davanti al Gasometro, per migliorare la propria attività di gestione di uffici arredati e fornitura di servizi (business center e coworking): 55 uffici e sale riunioni. Ha bisogno di liquidi, quindi si rivolge alla banca di riferimento - la Popolare dell'Etruria - che nei due anni successivi rilascia due mutui, per un totale di circa 2,7 milioni. L'istituto aretino eroga il finanziamento ponendo tre condizioni: una garanzia reale con ipoteca sull'immobile di circa 6 milioni (l'edificio è valutato ristrutturato a circa 9); fideiussioni rilasciate da tutti i sette soci, ognuno per il totale del prestito; l'acquisto con gli stessi soldi del prestito (la società non ha ulteriore liquidità) di circa 110.000 euro di titoli derivati. La R&P paga regolarmente il mutuo sino ad arrivare alla riduzione del capitale prestato a circa la metà del suo valore iniziale, 1,5 milioni.
Nel corso della gestione del coworking, un cliente crea una perdita di circa 250.000 euro, la società trova difficoltà a pagare il mutuo e chiede che vengano utilizzati per pagare la rata i 70.000 euro ancora rimasti dai «titoli derivati». La banca si rifiuta di farlo se non a condizione della restituzione dell'intero capitale residuo. La R&P, nel frattempo, paga saltuariamente le rate (constata anche il totale azzeramento del valore dei derivati per l'acquisto dei quali continua a pagare gli interessi), ma riesce a riprendersi dalla crisi dovuta alle perdite e chiede a Etruria di «ristrutturare» il mutuo allungando di poco i tempi e, di conseguenza, l'importo delle rate, visto che ora il capitale è dimezzato e che esse diventano facilmente pagabili. La banca risponde picche.
Nel frattempo, ad Arezzo scoppia la rivoluzione e si arriva a un passo dal crac: la Pop Etruria viene smembrata in una bad bank e in una good bank che viene poi venduta a Ubi al prezzo simbolico di 1 euro. Nella seconda finiscono il patrimonio immobiliare e i cosiddetti Utp (unlikely to pay), ovvero i crediti di difficile riscossione, anticamera delle sofferenze ma non ancora tali, come nel caso dell'azienda romana, che è comunque in grado di restituire il capitale totale vendendo gli immobili posti a garanzia.
Intanto però cambia l'interlocutore di R&P, che si rivolge al gruppo bresciano-bergamasco chiedendo di nuovo la ristrutturazione del mutuo. «Come risposta riceviamo una informativa per la privacy e in allegato una comunicazione sulla Gazzetta ufficiale dello Stato, che il debito è stato venduto alla Rienza Spv. Ovvero uno special purpose vehicle, un veicolo societario istituito ad hoc, chiamato a emettere delle obbligazioni che colloca presso gli investitori utilizzando il ricavato derivante dal collocamento per acquistare i mutui stessi. Dopo qualche mese riceviamo una lettera da parte del Credito Fondiario che si presenta nella qualità di gestore del credito di Rienza e che pretende il pagamento delle rate arretrate».
Sanvitto vuole vedere dove è andato a finire il suo debito. E inizia a fare ricerche sulla Rienza.
Nel bilancio 2019 depositato in Camera di commercio legge che nel 2017 la società ha acquistato un portafoglio di crediti classificati da cinque banche come «inadempienze probabili» per un prezzo complessivo di 223,26 milioni. Di questi, 91,44 milioni di euro riguardano la Nuova Banca Etruria.
Dagli atti risulta, inoltre, che la Rienza ha zero dipendenti in organico ma un amministratore unico, il commercialista Andrea Balelli (oltre a essere presidente del collegio sindacale di Ferragamo, è sindaco di Tim e di numerose società, nonché amministratore di altre Spv come Gardenia, Fedaia, Restart) e un unico socio: la Stichting Tuscany. Si tratta di una fondazione anonima di diritto olandese di cui non è possibile conoscere i soci.
Alla Camera di commercio di Amsterdam risulta che la Tuscany è stata registrata nel 2016, ha sede a Amsterdam al 101 di Barbara Strozzilaan (stesso indirizzo di altre Spv e fondazioni) e una società con delega alla gestione dei proventi delle cartolarizzazioni, la Circumference Fs (Netherlands) Bv, con sede ad Amsterdam, Lussemburgo e le Cayman.
«In pratica lo Stato ha pagato i debiti per il fallimento della banca, una banca privata ha ricevuto la parte patrimonialmente e commercialmente in attivo del fallimento e i crediti garantiti ed esigibili verranno incassati in Olanda da una fondazione di cui non si conosceranno mai i proprietari e che non pagheranno tasse allo Stato italiano. Perché dobbiamo pagare loro e non restituire i soldi direttamente ai risparmiatori truffati di Etruria?», si domanda Sanvitto.
Sottolineando che il suo caso è solo una goccia nel mare e lanciando un appello «a tutte quelle aziende che sono nelle nostre condizioni per portare avanti un'azione comune».
Sia chiaro, non c'è nulla di irregolare nell'attività di queste Spv, che operano all'interno di una griglia consentita dalle norme. E il problema sta proprio lì. «Non si è fatto nulla per fare in modo che i clienti potessero tornare in bonis, dando loro anche un diritto di prelazione, riattivando il circolo virtuoso della banca che avrebbe potuto pagare gli sbancati. Immaginate su larga scala quanti soldi. Lo Stato ha permesso che questo debiti finissero all'estero con un sistema di scatole cinesi. Chiudendo un occhio sulla distruzione del nostro Pil», aggiunge l'imprenditore, che ha intentato una causa civile e un procedimento penale per usura.
Il ginepraio degli «spazzini» di Npl
Nel luglio 2017 uno studio di Pwc definiva l'Italia «the place to be», ovvero il posto dove trovarsi. Le banche stavano vendendo quantità enormi di crediti deteriorati a prezzi stracciati. Così su questo mercato si sono fiondati investitori da tutto il mondo: nomi internazionali come Fortress, Pimco, Crc, Bayview, Anacap, Cerberus, Bain Capital, Hoist finance o Varde partners, ma anche le divisioni specializzate di banche d'affari, fino a investitori italiani come Algebris.
Una volta accaparrati più Npl possibile, questi investitori li hanno dati ai cosiddetti servicer per l'attività vera e propria di recupero crediti. Sviluppando un mercato secondario di crediti in sofferenza, dove a vendere non sono più le banche, ma gli stessi fondi che dalle banche hanno comprato.
Si è così creato anche un fitto sottobosco di società veicolo create ad hoc, le cosiddette Spv, che hanno nomi curiosi: alcune di fiumi, come la Tanaro, la Tamigi e la Rienza, altre accattivanti come la Cherry 106, fondata dall'ex ad di Banca Ifis, Giovanni Bossis. Non si tratta di società che producono qualcosa, sono piuttosto un mezzo - un veicolo, appunto - che serve per fare un'operazione. I flussi finanziari originano, dunque, dalle attività che sono state cartolarizzate.
L'elenco di queste società e delle altre Svc (società veicolo di cartolarizzazione) iscritte nel registro di Banca d'Italia è lunghissimo. E non è semplice monitorare le performance di alcuni «spazzini» di Npl che sono controllati da società di diritto estere. Così come non è facile capire i prezzi dei «cartellini» esposti nel gran bazar delle sofferenze. Tanto che a febbraio, anche il governatore Ignazio Visco l'ha annunciato al Forex: Bankitalia sta mettendo sotto la lente le società che si occupano in Italia di gestire e recuperare i crediti problematici e i cosiddetti Utp.
Di certo, dietro agli Npl ci sono 1,2 milioni di persone. Per questo, incardinato al Senato, c'è un disegno di legge portato avanti da Fratelli d'Italia, nella persona del senatore Adolfo Urso, che punta a consentire il riscatto delle sofferenze bancarie direttamente ai debitori. L'obiettivo è infatti quello di «agevolare le prospettive di recupero dei crediti in sofferenza e favorire il ritorno in bonis del debitore ceduto, al fine di contribuire allo sviluppo e alla competitività del sistema economico produttivo nazionale», si legge nel primo articolo.
In pratica, se il testo di Urso diventasse legge, si creerebbe un canale privilegiato per i debitori, che avrebbero la possibilità, tramite un diritto di opzione, di ricomprarsi il credito deteriorato o direttamente l'incaglio, aggiungendo al prezzo con cui la banca l'ha ceduto una percentuale compresa tra il 20 e il 40%. Si tratta di cancellare l'onta del debito per dare scarpe nuove a chi può tornare a correre. Non a caso l'ultimo comma del testo prevede che chi si ricompra il proprio debito venga tolto dalla centrale rischi.
Anche perché, nel frattempo, potrebbe scattare di nuovo l'allarme rosso. Soprattutto per le imprese in difficoltà finanziarie, ma ancora salvabili, che non hanno potuto usufruire delle garanzie statali per ottenere credito durante i mesi del Covid. «Una bomba atomica», l'ha definita nelle scorse settimane l'ad di Mediobanca, Alberto Nagel, contestando le nuove norme della Bce, che impongono la progressiva svalutazione degli Npl fino al 100%. Una «norma sbagliata», secondo Nagel, perché trattare un credito semivivo come un credito morto pesa come il piombo anche nei bilanci delle banche. E può segnare il destino di un'azienda.
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La denuncia di un imprenditore scoperchia un sistema: i crediti di Etruria in mano a società con sedi in Olanda o alle Cayman. Anziché rimborsare i risparmiatori truffati, si lascia lucrare chi elude l'erario.Sul mercato dei crediti deteriorati si sono fiondate imprese ardue da monitorare, su cui Bankitalia sta vigilando. Fdi propone una legge per favorire il rientro dalle esposizioni.Lo speciale contiene due articoliL'odissea di Francesco Sanvitto inizia nell'autunno del 2005, quando la sua R&P srl (sette soci lavoratori e cinque dipendenti) decide di ristrutturare il suo edificio produttivo nel quartiere Marconi di Roma, davanti al Gasometro, per migliorare la propria attività di gestione di uffici arredati e fornitura di servizi (business center e coworking): 55 uffici e sale riunioni. Ha bisogno di liquidi, quindi si rivolge alla banca di riferimento - la Popolare dell'Etruria - che nei due anni successivi rilascia due mutui, per un totale di circa 2,7 milioni. L'istituto aretino eroga il finanziamento ponendo tre condizioni: una garanzia reale con ipoteca sull'immobile di circa 6 milioni (l'edificio è valutato ristrutturato a circa 9); fideiussioni rilasciate da tutti i sette soci, ognuno per il totale del prestito; l'acquisto con gli stessi soldi del prestito (la società non ha ulteriore liquidità) di circa 110.000 euro di titoli derivati. La R&P paga regolarmente il mutuo sino ad arrivare alla riduzione del capitale prestato a circa la metà del suo valore iniziale, 1,5 milioni.Nel corso della gestione del coworking, un cliente crea una perdita di circa 250.000 euro, la società trova difficoltà a pagare il mutuo e chiede che vengano utilizzati per pagare la rata i 70.000 euro ancora rimasti dai «titoli derivati». La banca si rifiuta di farlo se non a condizione della restituzione dell'intero capitale residuo. La R&P, nel frattempo, paga saltuariamente le rate (constata anche il totale azzeramento del valore dei derivati per l'acquisto dei quali continua a pagare gli interessi), ma riesce a riprendersi dalla crisi dovuta alle perdite e chiede a Etruria di «ristrutturare» il mutuo allungando di poco i tempi e, di conseguenza, l'importo delle rate, visto che ora il capitale è dimezzato e che esse diventano facilmente pagabili. La banca risponde picche. Nel frattempo, ad Arezzo scoppia la rivoluzione e si arriva a un passo dal crac: la Pop Etruria viene smembrata in una bad bank e in una good bank che viene poi venduta a Ubi al prezzo simbolico di 1 euro. Nella seconda finiscono il patrimonio immobiliare e i cosiddetti Utp (unlikely to pay), ovvero i crediti di difficile riscossione, anticamera delle sofferenze ma non ancora tali, come nel caso dell'azienda romana, che è comunque in grado di restituire il capitale totale vendendo gli immobili posti a garanzia.Intanto però cambia l'interlocutore di R&P, che si rivolge al gruppo bresciano-bergamasco chiedendo di nuovo la ristrutturazione del mutuo. «Come risposta riceviamo una informativa per la privacy e in allegato una comunicazione sulla Gazzetta ufficiale dello Stato, che il debito è stato venduto alla Rienza Spv. Ovvero uno special purpose vehicle, un veicolo societario istituito ad hoc, chiamato a emettere delle obbligazioni che colloca presso gli investitori utilizzando il ricavato derivante dal collocamento per acquistare i mutui stessi. Dopo qualche mese riceviamo una lettera da parte del Credito Fondiario che si presenta nella qualità di gestore del credito di Rienza e che pretende il pagamento delle rate arretrate».Sanvitto vuole vedere dove è andato a finire il suo debito. E inizia a fare ricerche sulla Rienza. Nel bilancio 2019 depositato in Camera di commercio legge che nel 2017 la società ha acquistato un portafoglio di crediti classificati da cinque banche come «inadempienze probabili» per un prezzo complessivo di 223,26 milioni. Di questi, 91,44 milioni di euro riguardano la Nuova Banca Etruria. Dagli atti risulta, inoltre, che la Rienza ha zero dipendenti in organico ma un amministratore unico, il commercialista Andrea Balelli (oltre a essere presidente del collegio sindacale di Ferragamo, è sindaco di Tim e di numerose società, nonché amministratore di altre Spv come Gardenia, Fedaia, Restart) e un unico socio: la Stichting Tuscany. Si tratta di una fondazione anonima di diritto olandese di cui non è possibile conoscere i soci. Alla Camera di commercio di Amsterdam risulta che la Tuscany è stata registrata nel 2016, ha sede a Amsterdam al 101 di Barbara Strozzilaan (stesso indirizzo di altre Spv e fondazioni) e una società con delega alla gestione dei proventi delle cartolarizzazioni, la Circumference Fs (Netherlands) Bv, con sede ad Amsterdam, Lussemburgo e le Cayman.«In pratica lo Stato ha pagato i debiti per il fallimento della banca, una banca privata ha ricevuto la parte patrimonialmente e commercialmente in attivo del fallimento e i crediti garantiti ed esigibili verranno incassati in Olanda da una fondazione di cui non si conosceranno mai i proprietari e che non pagheranno tasse allo Stato italiano. Perché dobbiamo pagare loro e non restituire i soldi direttamente ai risparmiatori truffati di Etruria?», si domanda Sanvitto. Sottolineando che il suo caso è solo una goccia nel mare e lanciando un appello «a tutte quelle aziende che sono nelle nostre condizioni per portare avanti un'azione comune».Sia chiaro, non c'è nulla di irregolare nell'attività di queste Spv, che operano all'interno di una griglia consentita dalle norme. E il problema sta proprio lì. «Non si è fatto nulla per fare in modo che i clienti potessero tornare in bonis, dando loro anche un diritto di prelazione, riattivando il circolo virtuoso della banca che avrebbe potuto pagare gli sbancati. Immaginate su larga scala quanti soldi. Lo Stato ha permesso che questo debiti finissero all'estero con un sistema di scatole cinesi. Chiudendo un occhio sulla distruzione del nostro Pil», aggiunge l'imprenditore, che ha intentato una causa civile e un procedimento penale per usura.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/con-i-debiti-finiti-nei-paradisi-fiscali-si-potevano-risarcire-gli-sbancati-2647782987.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-ginepraio-degli-spazzini-di-npl" data-post-id="2647782987" data-published-at="1600899224" data-use-pagination="False"> Il ginepraio degli «spazzini» di Npl Nel luglio 2017 uno studio di Pwc definiva l'Italia «the place to be», ovvero il posto dove trovarsi. Le banche stavano vendendo quantità enormi di crediti deteriorati a prezzi stracciati. Così su questo mercato si sono fiondati investitori da tutto il mondo: nomi internazionali come Fortress, Pimco, Crc, Bayview, Anacap, Cerberus, Bain Capital, Hoist finance o Varde partners, ma anche le divisioni specializzate di banche d'affari, fino a investitori italiani come Algebris. Una volta accaparrati più Npl possibile, questi investitori li hanno dati ai cosiddetti servicer per l'attività vera e propria di recupero crediti. Sviluppando un mercato secondario di crediti in sofferenza, dove a vendere non sono più le banche, ma gli stessi fondi che dalle banche hanno comprato. Si è così creato anche un fitto sottobosco di società veicolo create ad hoc, le cosiddette Spv, che hanno nomi curiosi: alcune di fiumi, come la Tanaro, la Tamigi e la Rienza, altre accattivanti come la Cherry 106, fondata dall'ex ad di Banca Ifis, Giovanni Bossis. Non si tratta di società che producono qualcosa, sono piuttosto un mezzo - un veicolo, appunto - che serve per fare un'operazione. I flussi finanziari originano, dunque, dalle attività che sono state cartolarizzate. L'elenco di queste società e delle altre Svc (società veicolo di cartolarizzazione) iscritte nel registro di Banca d'Italia è lunghissimo. E non è semplice monitorare le performance di alcuni «spazzini» di Npl che sono controllati da società di diritto estere. Così come non è facile capire i prezzi dei «cartellini» esposti nel gran bazar delle sofferenze. Tanto che a febbraio, anche il governatore Ignazio Visco l'ha annunciato al Forex: Bankitalia sta mettendo sotto la lente le società che si occupano in Italia di gestire e recuperare i crediti problematici e i cosiddetti Utp. Di certo, dietro agli Npl ci sono 1,2 milioni di persone. Per questo, incardinato al Senato, c'è un disegno di legge portato avanti da Fratelli d'Italia, nella persona del senatore Adolfo Urso, che punta a consentire il riscatto delle sofferenze bancarie direttamente ai debitori. L'obiettivo è infatti quello di «agevolare le prospettive di recupero dei crediti in sofferenza e favorire il ritorno in bonis del debitore ceduto, al fine di contribuire allo sviluppo e alla competitività del sistema economico produttivo nazionale», si legge nel primo articolo. In pratica, se il testo di Urso diventasse legge, si creerebbe un canale privilegiato per i debitori, che avrebbero la possibilità, tramite un diritto di opzione, di ricomprarsi il credito deteriorato o direttamente l'incaglio, aggiungendo al prezzo con cui la banca l'ha ceduto una percentuale compresa tra il 20 e il 40%. Si tratta di cancellare l'onta del debito per dare scarpe nuove a chi può tornare a correre. Non a caso l'ultimo comma del testo prevede che chi si ricompra il proprio debito venga tolto dalla centrale rischi. Anche perché, nel frattempo, potrebbe scattare di nuovo l'allarme rosso. Soprattutto per le imprese in difficoltà finanziarie, ma ancora salvabili, che non hanno potuto usufruire delle garanzie statali per ottenere credito durante i mesi del Covid. «Una bomba atomica», l'ha definita nelle scorse settimane l'ad di Mediobanca, Alberto Nagel, contestando le nuove norme della Bce, che impongono la progressiva svalutazione degli Npl fino al 100%. Una «norma sbagliata», secondo Nagel, perché trattare un credito semivivo come un credito morto pesa come il piombo anche nei bilanci delle banche. E può segnare il destino di un'azienda.
Ecco #Edicolaverità, la rassegna stampa podcast del 5 dicembre con Carlo Cambi
Andrea Sempio (Ansa)
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».
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Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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La famiglia Trevallion-Birmingham
Il ragionamento non fa una grinza: i bambini sottratti ai propri genitori non erano maltrattati ed erano in regola con il programma scolastico nonostante non frequentassero una scuola (proprio come gli Amish). Il loro unico «difetto» è che vivevano nel bosco, senza i servizi igienici dei loro coetanei a disposizione. Lasciamo perdere il fatto che molti italiani fino agli anni Sessanta, e alcuni anche dopo, sono cresciuti nelle stesse condizioni, ma se vale il principio che i bambini devono vivere in un’abitazione adeguata, che facciamo con i figli dei rom? Crescere in una baracca o in una roulotte senza servizi igienici è meglio che vivere in una casupola nel bosco? Se il problema è la qualità dell’alloggio, perché ai rom non tolgono i bimbi ma, anzi, servizi sociali e giudici li lasciano crescere in condizioni a dir poco precarie, senza tutele né istruzione? Tra le accuse che pare siano state mosse ai genitori dei piccoli c’è la mancata socializzazione. Ne deduco che, se i minori rom non vengono tolti ai rispettivi papà e mamma, ci sono assistenti sociali e giudici secondo cui vivere a fianco di chi ruba il portafogli o la catenina è un modo di socializzare.
Ho letto la relazione degli educatori della casa-famiglia di Vasto in cui, dal 20 novembre, vivono i bambini della famiglia Trevallion. A quanto ho capito, i minori sottratti per ordine del giudice ai legittimi genitori non mostrano affatto i segni di un degrado educativo o affettivo. Sono bambini normali, cresciuti con mamma e papà in mezzo al bosco. Sono stupiti dall’acqua corrente o dalla luce elettrica. E allora? Con la madre hanno un approccio sereno e con il padre pure. Quando lui li va a visitare porta con sé frutta, oggetti utili, piccoli pensieri per moglie e figli. E quando i bimbi rivedono il papà, «sono momenti di gioia autentica». «I figli lo accolgono con grande calore» e, dopo i saluti, tornano a giocare con naturalezza. «Una dinamica che suggerisce autonomia e assenza di quell’ansia da separazione tipica dei contesti traumatici». E allora, perché portarli via ai genitori? Perché vivono in una comunità neo rurale a cui l’opinione pubblica (o, forse, qualche assistente sociale e magistrato) non è abituata?
Ma chi decide quale progetto domestico sia giusto applicare? Chi, soprattutto, stabilisce se uno stile di vita debba essere distrutto perché non rientra nella norma? I quesiti non sono cosa da poco, perché aprono lo spazio a diverse riflessioni. Alle bambine che crescono in alcune comunità islamiche è consentita la socializzazione? E nel caso fossero costrette a vivere in un ambiente chiuso, che non si relaziona con bambine di altre culture, sarebbe giusto sottrarle ai genitori prima che si ripeta un caso Saman Abbas? Aggiungo anche questa ulteriore considerazione: dato che ci sono figli che crescono in ambienti malsani, non per via dei servizi igienici ma per la contiguità criminale, perché assistenti sociali e giudici non se ne occupano prima che qualche minorenne educato alla violenza accoltelli un coetaneo?
Le mie potrebbero sembrare provocazioni, ma non lo sono. Sono semplici osservazioni: se deleghiamo allo Stato la scelta di come e dove crescere i figli, la logica conseguenza è che i bimbi non saranno più nostri, ma dello Stato. Come in ogni regime.
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