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2024-04-21
L’uomo di Togliatti confessò a De Mita che il comunismo fu un errore storico
Palmiro Togliatti (Getty Images)
Si era alla fine di novembre del 1984. Enrico Berlinguer era morto da pochi mesi, ucciso da un’emorragia cerebrale mentre, l’11 di giugno, teneva un comizio a Padova, e l’emozione suscitata dalla sua scomparsa - e dal suo essere caduto per così dire «sul campo» - aveva procurato al Partito comunista italiano una messe di consensi che, alle elezioni europee svoltesi una settimana dopo la morte del segretario, consentì al Pci uno storico sorpasso, seppur di misura, sulla Democrazia cristiana. Solo tre anni prima, nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia guidato dal generale Wojciech Jaruzelski (e, l’anno precedente, la marcia dei 40.000 impiegati della Fiat contro i picchettaggi imposti dalla Cgil), Berlinguer aveva dichiarato esaurita la «spinta propulsiva» originata dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917.
Eppure, in quel 1984 nel quale era già iniziato il lacerante dibattito interno che di lì a non molto, dapprima con la caduta del Muro di Berlino e poi con il crollo dell’Urss, avrebbe condotto alla trasformazione del più grande partito comunista europeo nel Partito democratico della sinistra, c’era ancora chi, parlando con cognizione di causa avendo fatto parte della storia del Pci, riteneva di dover mettere in guardia i propri interlocutori circa la pericolosità del comunismo e la minaccia per la libertà da esso rappresentato. L’uomo in questione si chiamava Italo de Feo (nato nel 1912 in provincia di Avellino e scomparso a Roma nel 1985), in quel momento - appunto alla fine di novembre del 1984 - presidente del Sindacato libero scrittori italiani, sorto nel 1970 distaccandosi dal Sindacato nazionale degli scrittori poiché quest’ultimo, sono parole dello storico Francesco Giubilei, «impediva di scindere la cultura dalla politica e soffocava ogni voce non allineata ai dogmi del progetto di egemonia culturale di gramsciana memoria».
Reca proprio l’intestazione del Sindacato libero scrittori italiani la significativa lettera, scritta da de Feo il 23 novembre 1984, che un paio di settimane fa è stata rinvenuta su una bancarella del mercato romano di Porta Portese dallo studioso e collezionista Giuseppe Garrera. Il documento, inedito, viene ora pubblicato dalla Verità, che ha ricostruito chi fosse il destinatario della lettera. Si tratta di Ciriaco De Mita, all’epoca segretario della Democrazia cristiana, il quale, oltre a essere irpino come de Feo (che nella missiva scrive «lei appartiene alla mia stessa gente»), in occasione di un ricordo di Aldo Moro svoltosi a Benevento pochi giorni prima aveva affermato, riferendosi all’atteggiamento di «scontro e demonizzazione dell’avversario» che a suo avviso caratterizzava in quel momento il Pci guidato da Alessandro Natta: «Da oggi sono anticomunista».
Prima presidente e poi vicedirettore della Rai (tra il 1964 e il 1975), Italo de Feo aveva alle spalle, nel 1984, un’intensa carriera politica, avviata nel 1943 come capo dell’ufficio stampa del Comitato di liberazione nazionale e proseguita nel Pci - in qualità di segretario e collaboratore personale di Palmiro Togliatti - dal 1944 al 1947, anno in cui venne sospeso da ogni attività del partito per le ragioni da lui stesso raccontate nel libro autobiografico del 1971, Tre anni con Togliatti: «Avevo letto un rapporto sulla situazione dei nostri connazionali in Jugoslavia, e l’indegno trattamento ch’era loro fatto non in quanto fascisti ma semplicemente perché italiani. E non avevo esitato, secondo il mio temperamento, a dirne quello che pensavo».
Dopo la rottura con il Pci, de Feo aderì al Partito socialdemocratico fondato dal suo amico personale Giuseppe Saragat, futuro presidente della Repubblica.
Non sappiamo se l’epistola indirizzata a De Mita sia stata effettivamente spedita o se invece sia rimasta chiusa nei cassetti di de Feo: è comunque un particolare trascurabile, mentre della lettera rimangono rilevanti i contenuti, i moniti e il suo valore di testimonianza storica.
«Idea opposta alla civiltà umanistica che serve a ingannare i generosi»
* di Italo De Feo
Roma, 23 novembre 1984
Illustre amico,
leggo sui giornali la dichiarazione sua, che da tempo attendevo: «Da oggi sono anticomunista». L’attendevo da tempo perché una persona come lei, che appartiene alla mia stessa gente, e ne siamo fierissimi, doveva, presto o tardi, accettare le conclusioni cui siamo giunti molti di noi più anziani, che il comunismo l’hanno conosciuto dal di dentro e ne hanno tratto un’esperienza amara e indelebile. Che invano, purtroppo, questa esperienza hanno cercato di trasmettere a chi, per essere vissuto in tempi e circostanze diverse, del comunismo ha avuto una conoscenza vorrei dire tutta esterna e occasionale.Non ho bisogno di ricordare a lei, credo, la natura della mia esperienza, fatta per anni entro il Pci e a contatto diretto coi suoi massimi dirigenti. Comunque, di essa ho dato testimonianza in due libri, il Diario politico 1943-1948 e Tre anni con Togliatti. Le unisco, se l’accetta ed ha tempo di darvi uno sguardo, il Diario politico, essendo l’altro libro esaurito.Sono fuori dalla politica, né intendo ritornarvi perché ritengo che la mia vocazione sia diversa. Ma non ho rinunciato a quello che credo essere il dovere civile di tutti: cercare di agire in modo che ne risulti avvantaggiato il bene comune, inteso come patrimonio inalienabile di una civiltà di cui siamo solo depositari.Questa civiltà, nella sua essenza umanistica e cristiana, è quanto di più opposto si possa concepire alla dottrina e alla prassi comunista. Le idee di socialità e d’eguaglianza che il comunismo sbandiera servono solo ad ingannare le persone generose che vi si lasciano invischiare: e spesso l’errore di queste persone, come nel caso del povero Moro, sanciscono (sic) la loro condanna.Creda a chi ne ha avuto diretta, personale e inconfutabile prova non in una ma in mille occasioni: il Pci è un semplice organo esecutivo di deliberati assunti a Mosca. Anche i suoi dirigenti sono funzionari scelti fuori d’ogni logica, che non sia quella degli interessi sovietici. Il caso di Natta è illuminante, ma anche quello di Berlinguer lo era altrettanto.Purtroppo la penetrazione del Pci nei gangli vitali della società italiana è molto avanzata. Le cause di ciò sono nell’errata politica condotta per anni non solo dalla Dc ma da tutti i partiti verso il Pci, trattato come un partito democratico e accreditato come tale presso tutti gli organi che indirizzano e orientano l’opinione pubblica, principalmente la Rai tv. Quando ho lasciato questo ente, almeno il 90 per cento dei suoi programmisti era comunista, paracomunista o filocomunista. Questo è un dato che invita a riflettere. Quando Togliatti, quarant’anni or sono, mi mise a capo della radio italiana, mi dette questa consegna: «Ricordati che il controllo della radio vale più della presidenza del Consiglio». Lei può far molto per far uscire la nostra comunità nazionale dallo stato di ignoranza politica e di arretratezza civile in cui versa. Le auguro che in quest’opera lei possa dire un giorno: magna pars fui.Cordialmente suo
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A Porta Portese spunta una lettera del segretario del Migliore, che ruppe col Pci quando seppe degli abusi di Tito sugli italiani. Le durissime parole di de Feo: «Il leader del partito mi chiese di “occupare” la radio». Lo speciale contiene due articoli.Si era alla fine di novembre del 1984. Enrico Berlinguer era morto da pochi mesi, ucciso da un’emorragia cerebrale mentre, l’11 di giugno, teneva un comizio a Padova, e l’emozione suscitata dalla sua scomparsa - e dal suo essere caduto per così dire «sul campo» - aveva procurato al Partito comunista italiano una messe di consensi che, alle elezioni europee svoltesi una settimana dopo la morte del segretario, consentì al Pci uno storico sorpasso, seppur di misura, sulla Democrazia cristiana. Solo tre anni prima, nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia guidato dal generale Wojciech Jaruzelski (e, l’anno precedente, la marcia dei 40.000 impiegati della Fiat contro i picchettaggi imposti dalla Cgil), Berlinguer aveva dichiarato esaurita la «spinta propulsiva» originata dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917.Eppure, in quel 1984 nel quale era già iniziato il lacerante dibattito interno che di lì a non molto, dapprima con la caduta del Muro di Berlino e poi con il crollo dell’Urss, avrebbe condotto alla trasformazione del più grande partito comunista europeo nel Partito democratico della sinistra, c’era ancora chi, parlando con cognizione di causa avendo fatto parte della storia del Pci, riteneva di dover mettere in guardia i propri interlocutori circa la pericolosità del comunismo e la minaccia per la libertà da esso rappresentato. L’uomo in questione si chiamava Italo de Feo (nato nel 1912 in provincia di Avellino e scomparso a Roma nel 1985), in quel momento - appunto alla fine di novembre del 1984 - presidente del Sindacato libero scrittori italiani, sorto nel 1970 distaccandosi dal Sindacato nazionale degli scrittori poiché quest’ultimo, sono parole dello storico Francesco Giubilei, «impediva di scindere la cultura dalla politica e soffocava ogni voce non allineata ai dogmi del progetto di egemonia culturale di gramsciana memoria».Reca proprio l’intestazione del Sindacato libero scrittori italiani la significativa lettera, scritta da de Feo il 23 novembre 1984, che un paio di settimane fa è stata rinvenuta su una bancarella del mercato romano di Porta Portese dallo studioso e collezionista Giuseppe Garrera. Il documento, inedito, viene ora pubblicato dalla Verità, che ha ricostruito chi fosse il destinatario della lettera. Si tratta di Ciriaco De Mita, all’epoca segretario della Democrazia cristiana, il quale, oltre a essere irpino come de Feo (che nella missiva scrive «lei appartiene alla mia stessa gente»), in occasione di un ricordo di Aldo Moro svoltosi a Benevento pochi giorni prima aveva affermato, riferendosi all’atteggiamento di «scontro e demonizzazione dell’avversario» che a suo avviso caratterizzava in quel momento il Pci guidato da Alessandro Natta: «Da oggi sono anticomunista».Prima presidente e poi vicedirettore della Rai (tra il 1964 e il 1975), Italo de Feo aveva alle spalle, nel 1984, un’intensa carriera politica, avviata nel 1943 come capo dell’ufficio stampa del Comitato di liberazione nazionale e proseguita nel Pci - in qualità di segretario e collaboratore personale di Palmiro Togliatti - dal 1944 al 1947, anno in cui venne sospeso da ogni attività del partito per le ragioni da lui stesso raccontate nel libro autobiografico del 1971, Tre anni con Togliatti: «Avevo letto un rapporto sulla situazione dei nostri connazionali in Jugoslavia, e l’indegno trattamento ch’era loro fatto non in quanto fascisti ma semplicemente perché italiani. E non avevo esitato, secondo il mio temperamento, a dirne quello che pensavo». Dopo la rottura con il Pci, de Feo aderì al Partito socialdemocratico fondato dal suo amico personale Giuseppe Saragat, futuro presidente della Repubblica.Non sappiamo se l’epistola indirizzata a De Mita sia stata effettivamente spedita o se invece sia rimasta chiusa nei cassetti di de Feo: è comunque un particolare trascurabile, mentre della lettera rimangono rilevanti i contenuti, i moniti e il suo valore di testimonianza storica.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/comunismo-fu-un-errore-storico-2667830356.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="idea-opposta-alla-civilta-umanistica-che-serve-a-ingannare-i-generosi" data-post-id="2667830356" data-published-at="1713718339" data-use-pagination="False"> «Idea opposta alla civiltà umanistica che serve a ingannare i generosi» * di Italo De FeoRoma, 23 novembre 1984Illustre amico,leggo sui giornali la dichiarazione sua, che da tempo attendevo: «Da oggi sono anticomunista». L’attendevo da tempo perché una persona come lei, che appartiene alla mia stessa gente, e ne siamo fierissimi, doveva, presto o tardi, accettare le conclusioni cui siamo giunti molti di noi più anziani, che il comunismo l’hanno conosciuto dal di dentro e ne hanno tratto un’esperienza amara e indelebile. Che invano, purtroppo, questa esperienza hanno cercato di trasmettere a chi, per essere vissuto in tempi e circostanze diverse, del comunismo ha avuto una conoscenza vorrei dire tutta esterna e occasionale.Non ho bisogno di ricordare a lei, credo, la natura della mia esperienza, fatta per anni entro il Pci e a contatto diretto coi suoi massimi dirigenti. Comunque, di essa ho dato testimonianza in due libri, il Diario politico 1943-1948 e Tre anni con Togliatti. Le unisco, se l’accetta ed ha tempo di darvi uno sguardo, il Diario politico, essendo l’altro libro esaurito.Sono fuori dalla politica, né intendo ritornarvi perché ritengo che la mia vocazione sia diversa. Ma non ho rinunciato a quello che credo essere il dovere civile di tutti: cercare di agire in modo che ne risulti avvantaggiato il bene comune, inteso come patrimonio inalienabile di una civiltà di cui siamo solo depositari.Questa civiltà, nella sua essenza umanistica e cristiana, è quanto di più opposto si possa concepire alla dottrina e alla prassi comunista. Le idee di socialità e d’eguaglianza che il comunismo sbandiera servono solo ad ingannare le persone generose che vi si lasciano invischiare: e spesso l’errore di queste persone, come nel caso del povero Moro, sanciscono (sic) la loro condanna.Creda a chi ne ha avuto diretta, personale e inconfutabile prova non in una ma in mille occasioni: il Pci è un semplice organo esecutivo di deliberati assunti a Mosca. Anche i suoi dirigenti sono funzionari scelti fuori d’ogni logica, che non sia quella degli interessi sovietici. Il caso di Natta è illuminante, ma anche quello di Berlinguer lo era altrettanto.Purtroppo la penetrazione del Pci nei gangli vitali della società italiana è molto avanzata. Le cause di ciò sono nell’errata politica condotta per anni non solo dalla Dc ma da tutti i partiti verso il Pci, trattato come un partito democratico e accreditato come tale presso tutti gli organi che indirizzano e orientano l’opinione pubblica, principalmente la Rai tv. Quando ho lasciato questo ente, almeno il 90 per cento dei suoi programmisti era comunista, paracomunista o filocomunista. Questo è un dato che invita a riflettere. Quando Togliatti, quarant’anni or sono, mi mise a capo della radio italiana, mi dette questa consegna: «Ricordati che il controllo della radio vale più della presidenza del Consiglio». Lei può far molto per far uscire la nostra comunità nazionale dallo stato di ignoranza politica e di arretratezza civile in cui versa. Le auguro che in quest’opera lei possa dire un giorno: magna pars fui.Cordialmente suo
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.