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2024-04-21
L’uomo di Togliatti confessò a De Mita che il comunismo fu un errore storico
Palmiro Togliatti (Getty Images)
Si era alla fine di novembre del 1984. Enrico Berlinguer era morto da pochi mesi, ucciso da un’emorragia cerebrale mentre, l’11 di giugno, teneva un comizio a Padova, e l’emozione suscitata dalla sua scomparsa - e dal suo essere caduto per così dire «sul campo» - aveva procurato al Partito comunista italiano una messe di consensi che, alle elezioni europee svoltesi una settimana dopo la morte del segretario, consentì al Pci uno storico sorpasso, seppur di misura, sulla Democrazia cristiana. Solo tre anni prima, nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia guidato dal generale Wojciech Jaruzelski (e, l’anno precedente, la marcia dei 40.000 impiegati della Fiat contro i picchettaggi imposti dalla Cgil), Berlinguer aveva dichiarato esaurita la «spinta propulsiva» originata dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917.
Eppure, in quel 1984 nel quale era già iniziato il lacerante dibattito interno che di lì a non molto, dapprima con la caduta del Muro di Berlino e poi con il crollo dell’Urss, avrebbe condotto alla trasformazione del più grande partito comunista europeo nel Partito democratico della sinistra, c’era ancora chi, parlando con cognizione di causa avendo fatto parte della storia del Pci, riteneva di dover mettere in guardia i propri interlocutori circa la pericolosità del comunismo e la minaccia per la libertà da esso rappresentato. L’uomo in questione si chiamava Italo de Feo (nato nel 1912 in provincia di Avellino e scomparso a Roma nel 1985), in quel momento - appunto alla fine di novembre del 1984 - presidente del Sindacato libero scrittori italiani, sorto nel 1970 distaccandosi dal Sindacato nazionale degli scrittori poiché quest’ultimo, sono parole dello storico Francesco Giubilei, «impediva di scindere la cultura dalla politica e soffocava ogni voce non allineata ai dogmi del progetto di egemonia culturale di gramsciana memoria».
Reca proprio l’intestazione del Sindacato libero scrittori italiani la significativa lettera, scritta da de Feo il 23 novembre 1984, che un paio di settimane fa è stata rinvenuta su una bancarella del mercato romano di Porta Portese dallo studioso e collezionista Giuseppe Garrera. Il documento, inedito, viene ora pubblicato dalla Verità, che ha ricostruito chi fosse il destinatario della lettera. Si tratta di Ciriaco De Mita, all’epoca segretario della Democrazia cristiana, il quale, oltre a essere irpino come de Feo (che nella missiva scrive «lei appartiene alla mia stessa gente»), in occasione di un ricordo di Aldo Moro svoltosi a Benevento pochi giorni prima aveva affermato, riferendosi all’atteggiamento di «scontro e demonizzazione dell’avversario» che a suo avviso caratterizzava in quel momento il Pci guidato da Alessandro Natta: «Da oggi sono anticomunista».
Prima presidente e poi vicedirettore della Rai (tra il 1964 e il 1975), Italo de Feo aveva alle spalle, nel 1984, un’intensa carriera politica, avviata nel 1943 come capo dell’ufficio stampa del Comitato di liberazione nazionale e proseguita nel Pci - in qualità di segretario e collaboratore personale di Palmiro Togliatti - dal 1944 al 1947, anno in cui venne sospeso da ogni attività del partito per le ragioni da lui stesso raccontate nel libro autobiografico del 1971, Tre anni con Togliatti: «Avevo letto un rapporto sulla situazione dei nostri connazionali in Jugoslavia, e l’indegno trattamento ch’era loro fatto non in quanto fascisti ma semplicemente perché italiani. E non avevo esitato, secondo il mio temperamento, a dirne quello che pensavo».
Dopo la rottura con il Pci, de Feo aderì al Partito socialdemocratico fondato dal suo amico personale Giuseppe Saragat, futuro presidente della Repubblica.
Non sappiamo se l’epistola indirizzata a De Mita sia stata effettivamente spedita o se invece sia rimasta chiusa nei cassetti di de Feo: è comunque un particolare trascurabile, mentre della lettera rimangono rilevanti i contenuti, i moniti e il suo valore di testimonianza storica.
«Idea opposta alla civiltà umanistica che serve a ingannare i generosi»
* di Italo De Feo
Roma, 23 novembre 1984
Illustre amico,
leggo sui giornali la dichiarazione sua, che da tempo attendevo: «Da oggi sono anticomunista». L’attendevo da tempo perché una persona come lei, che appartiene alla mia stessa gente, e ne siamo fierissimi, doveva, presto o tardi, accettare le conclusioni cui siamo giunti molti di noi più anziani, che il comunismo l’hanno conosciuto dal di dentro e ne hanno tratto un’esperienza amara e indelebile. Che invano, purtroppo, questa esperienza hanno cercato di trasmettere a chi, per essere vissuto in tempi e circostanze diverse, del comunismo ha avuto una conoscenza vorrei dire tutta esterna e occasionale.Non ho bisogno di ricordare a lei, credo, la natura della mia esperienza, fatta per anni entro il Pci e a contatto diretto coi suoi massimi dirigenti. Comunque, di essa ho dato testimonianza in due libri, il Diario politico 1943-1948 e Tre anni con Togliatti. Le unisco, se l’accetta ed ha tempo di darvi uno sguardo, il Diario politico, essendo l’altro libro esaurito.Sono fuori dalla politica, né intendo ritornarvi perché ritengo che la mia vocazione sia diversa. Ma non ho rinunciato a quello che credo essere il dovere civile di tutti: cercare di agire in modo che ne risulti avvantaggiato il bene comune, inteso come patrimonio inalienabile di una civiltà di cui siamo solo depositari.Questa civiltà, nella sua essenza umanistica e cristiana, è quanto di più opposto si possa concepire alla dottrina e alla prassi comunista. Le idee di socialità e d’eguaglianza che il comunismo sbandiera servono solo ad ingannare le persone generose che vi si lasciano invischiare: e spesso l’errore di queste persone, come nel caso del povero Moro, sanciscono (sic) la loro condanna.Creda a chi ne ha avuto diretta, personale e inconfutabile prova non in una ma in mille occasioni: il Pci è un semplice organo esecutivo di deliberati assunti a Mosca. Anche i suoi dirigenti sono funzionari scelti fuori d’ogni logica, che non sia quella degli interessi sovietici. Il caso di Natta è illuminante, ma anche quello di Berlinguer lo era altrettanto.Purtroppo la penetrazione del Pci nei gangli vitali della società italiana è molto avanzata. Le cause di ciò sono nell’errata politica condotta per anni non solo dalla Dc ma da tutti i partiti verso il Pci, trattato come un partito democratico e accreditato come tale presso tutti gli organi che indirizzano e orientano l’opinione pubblica, principalmente la Rai tv. Quando ho lasciato questo ente, almeno il 90 per cento dei suoi programmisti era comunista, paracomunista o filocomunista. Questo è un dato che invita a riflettere. Quando Togliatti, quarant’anni or sono, mi mise a capo della radio italiana, mi dette questa consegna: «Ricordati che il controllo della radio vale più della presidenza del Consiglio». Lei può far molto per far uscire la nostra comunità nazionale dallo stato di ignoranza politica e di arretratezza civile in cui versa. Le auguro che in quest’opera lei possa dire un giorno: magna pars fui.Cordialmente suo
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A Porta Portese spunta una lettera del segretario del Migliore, che ruppe col Pci quando seppe degli abusi di Tito sugli italiani. Le durissime parole di de Feo: «Il leader del partito mi chiese di “occupare” la radio». Lo speciale contiene due articoli.Si era alla fine di novembre del 1984. Enrico Berlinguer era morto da pochi mesi, ucciso da un’emorragia cerebrale mentre, l’11 di giugno, teneva un comizio a Padova, e l’emozione suscitata dalla sua scomparsa - e dal suo essere caduto per così dire «sul campo» - aveva procurato al Partito comunista italiano una messe di consensi che, alle elezioni europee svoltesi una settimana dopo la morte del segretario, consentì al Pci uno storico sorpasso, seppur di misura, sulla Democrazia cristiana. Solo tre anni prima, nel 1981, dopo il colpo di Stato in Polonia guidato dal generale Wojciech Jaruzelski (e, l’anno precedente, la marcia dei 40.000 impiegati della Fiat contro i picchettaggi imposti dalla Cgil), Berlinguer aveva dichiarato esaurita la «spinta propulsiva» originata dalla Rivoluzione d’ottobre del 1917.Eppure, in quel 1984 nel quale era già iniziato il lacerante dibattito interno che di lì a non molto, dapprima con la caduta del Muro di Berlino e poi con il crollo dell’Urss, avrebbe condotto alla trasformazione del più grande partito comunista europeo nel Partito democratico della sinistra, c’era ancora chi, parlando con cognizione di causa avendo fatto parte della storia del Pci, riteneva di dover mettere in guardia i propri interlocutori circa la pericolosità del comunismo e la minaccia per la libertà da esso rappresentato. L’uomo in questione si chiamava Italo de Feo (nato nel 1912 in provincia di Avellino e scomparso a Roma nel 1985), in quel momento - appunto alla fine di novembre del 1984 - presidente del Sindacato libero scrittori italiani, sorto nel 1970 distaccandosi dal Sindacato nazionale degli scrittori poiché quest’ultimo, sono parole dello storico Francesco Giubilei, «impediva di scindere la cultura dalla politica e soffocava ogni voce non allineata ai dogmi del progetto di egemonia culturale di gramsciana memoria».Reca proprio l’intestazione del Sindacato libero scrittori italiani la significativa lettera, scritta da de Feo il 23 novembre 1984, che un paio di settimane fa è stata rinvenuta su una bancarella del mercato romano di Porta Portese dallo studioso e collezionista Giuseppe Garrera. Il documento, inedito, viene ora pubblicato dalla Verità, che ha ricostruito chi fosse il destinatario della lettera. Si tratta di Ciriaco De Mita, all’epoca segretario della Democrazia cristiana, il quale, oltre a essere irpino come de Feo (che nella missiva scrive «lei appartiene alla mia stessa gente»), in occasione di un ricordo di Aldo Moro svoltosi a Benevento pochi giorni prima aveva affermato, riferendosi all’atteggiamento di «scontro e demonizzazione dell’avversario» che a suo avviso caratterizzava in quel momento il Pci guidato da Alessandro Natta: «Da oggi sono anticomunista».Prima presidente e poi vicedirettore della Rai (tra il 1964 e il 1975), Italo de Feo aveva alle spalle, nel 1984, un’intensa carriera politica, avviata nel 1943 come capo dell’ufficio stampa del Comitato di liberazione nazionale e proseguita nel Pci - in qualità di segretario e collaboratore personale di Palmiro Togliatti - dal 1944 al 1947, anno in cui venne sospeso da ogni attività del partito per le ragioni da lui stesso raccontate nel libro autobiografico del 1971, Tre anni con Togliatti: «Avevo letto un rapporto sulla situazione dei nostri connazionali in Jugoslavia, e l’indegno trattamento ch’era loro fatto non in quanto fascisti ma semplicemente perché italiani. E non avevo esitato, secondo il mio temperamento, a dirne quello che pensavo». Dopo la rottura con il Pci, de Feo aderì al Partito socialdemocratico fondato dal suo amico personale Giuseppe Saragat, futuro presidente della Repubblica.Non sappiamo se l’epistola indirizzata a De Mita sia stata effettivamente spedita o se invece sia rimasta chiusa nei cassetti di de Feo: è comunque un particolare trascurabile, mentre della lettera rimangono rilevanti i contenuti, i moniti e il suo valore di testimonianza storica.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/comunismo-fu-un-errore-storico-2667830356.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="idea-opposta-alla-civilta-umanistica-che-serve-a-ingannare-i-generosi" data-post-id="2667830356" data-published-at="1713718339" data-use-pagination="False"> «Idea opposta alla civiltà umanistica che serve a ingannare i generosi» * di Italo De FeoRoma, 23 novembre 1984Illustre amico,leggo sui giornali la dichiarazione sua, che da tempo attendevo: «Da oggi sono anticomunista». L’attendevo da tempo perché una persona come lei, che appartiene alla mia stessa gente, e ne siamo fierissimi, doveva, presto o tardi, accettare le conclusioni cui siamo giunti molti di noi più anziani, che il comunismo l’hanno conosciuto dal di dentro e ne hanno tratto un’esperienza amara e indelebile. Che invano, purtroppo, questa esperienza hanno cercato di trasmettere a chi, per essere vissuto in tempi e circostanze diverse, del comunismo ha avuto una conoscenza vorrei dire tutta esterna e occasionale.Non ho bisogno di ricordare a lei, credo, la natura della mia esperienza, fatta per anni entro il Pci e a contatto diretto coi suoi massimi dirigenti. Comunque, di essa ho dato testimonianza in due libri, il Diario politico 1943-1948 e Tre anni con Togliatti. Le unisco, se l’accetta ed ha tempo di darvi uno sguardo, il Diario politico, essendo l’altro libro esaurito.Sono fuori dalla politica, né intendo ritornarvi perché ritengo che la mia vocazione sia diversa. Ma non ho rinunciato a quello che credo essere il dovere civile di tutti: cercare di agire in modo che ne risulti avvantaggiato il bene comune, inteso come patrimonio inalienabile di una civiltà di cui siamo solo depositari.Questa civiltà, nella sua essenza umanistica e cristiana, è quanto di più opposto si possa concepire alla dottrina e alla prassi comunista. Le idee di socialità e d’eguaglianza che il comunismo sbandiera servono solo ad ingannare le persone generose che vi si lasciano invischiare: e spesso l’errore di queste persone, come nel caso del povero Moro, sanciscono (sic) la loro condanna.Creda a chi ne ha avuto diretta, personale e inconfutabile prova non in una ma in mille occasioni: il Pci è un semplice organo esecutivo di deliberati assunti a Mosca. Anche i suoi dirigenti sono funzionari scelti fuori d’ogni logica, che non sia quella degli interessi sovietici. Il caso di Natta è illuminante, ma anche quello di Berlinguer lo era altrettanto.Purtroppo la penetrazione del Pci nei gangli vitali della società italiana è molto avanzata. Le cause di ciò sono nell’errata politica condotta per anni non solo dalla Dc ma da tutti i partiti verso il Pci, trattato come un partito democratico e accreditato come tale presso tutti gli organi che indirizzano e orientano l’opinione pubblica, principalmente la Rai tv. Quando ho lasciato questo ente, almeno il 90 per cento dei suoi programmisti era comunista, paracomunista o filocomunista. Questo è un dato che invita a riflettere. Quando Togliatti, quarant’anni or sono, mi mise a capo della radio italiana, mi dette questa consegna: «Ricordati che il controllo della radio vale più della presidenza del Consiglio». Lei può far molto per far uscire la nostra comunità nazionale dallo stato di ignoranza politica e di arretratezza civile in cui versa. Le auguro che in quest’opera lei possa dire un giorno: magna pars fui.Cordialmente suo
Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
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Chen Zhi
Dall’immobiliare al fintech, fino al cuore delle truffe online: a 37 anni il fondatore del Prince Group è accusato da Stati Uniti e Regno Unito di aver costruito dalla Cambogia un impero criminale basato su frodi digitali, riciclaggio e sfruttamento di manodopera. Tra cittadinanze comprate, rapporti con il potere politico e miliardi congelati in criptovalute, il ritratto di un magnate oggi scomparso dai radar.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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