2022-06-17
Com’è fallita Etruria se tutti sono innocenti?
Maria Elena Boschi (Ansa)
L’ultima assoluzione di babbo Boschi non cancella le sortite col faccendiere Flavio Carboni e gli strani incontri coi massoni. Tanti filoni non sono stati approfonditi. Ecco i retroscena di un crac rimasto senza colpevoli. La cui storia non è ancora finita.Anche i politici piangono. Ma di gioia. Ieri e l’altro ieri sono state le giornate dei festeggiamenti e delle richieste di scuse. E pure delle lacrime. Il Giglio magico in pompa magna ha usato l’assoluzione di Pier Luigi Boschi dal terzo procedimento in cui era indagato per regolare i propri conti personali con la magistratura. La figlia Maria Elena ci ha anche fatto sapere di aver «pianto come una bambina». Lacrime che i cronisti sono accorsi ad asciugare con paginate di articoli in versione Kleenex. Ma i processi sul crac della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio più che svelare le vere responsabilità hanno messo a nudo le lacune del nostro sistema giudiziario. Non tanto il presunto giacobinismo delle toghe, che già in fase di indagini preliminari erano state particolarmente prudenti, quanto la totale aleatorietà delle sentenze. Infatti la giustizia degli uomini dipende da fattori che fanno assomigliare i giudizi più a un lancio di dadi che a una scienza esatta.Tra le decine di indagati per la bancarotta fraudolenta in quattro hanno scelto la strada del rito abbreviato e sono tutti stati condannati: l’ex presidente Giuseppe Fornasari, il direttore generale Luca Bronchi (entrambi a 5 anni), il vicepresidente Alfredo Berni e il consigliere di amministrazione Rossano Soldini. Quest’ultimo, quando sbarcarono i nuovi amministratori, raccontano i ben informati, corse nella sede di Banca d’Italia ad avvertire che era circondato da una banda di dilettanti allo sbaraglio e che l’istituto sarebbe affondato. Ma poi non se la sentì di votare contro un finanziamento a un’azienda in crisi e diede il suo consenso come altri colleghi. Alla fine l’unica mano che è rimasta nella tagliola per quel voto è la sua. Ma se il Gup Giampiero Borraccia è stato inflessibile, il collegio ordinario presieduto da Giovanni Fruganti, affiancato da Claudio Lara e Ada Grignani, l’1 ottobre ha mandato tutti assolti (tranne Alberto Rigotti) per le accuse di bancarotta fraudolenta e semplice legata a un buco da circa 200 milioni di euro. Una sentenza motivata personalmente da Fruganti come ultimo atto prima della pensione. Un giudice che durante il processo oltre che presidente della sezione è diventato anche presidente dell’intero Tribunale. In pratica è il vigile che indirizzava tutto il traffico. Che sembra non essersi posto il problema sull’opportunità che la collega Grignani, che con lui stava conducendo il maxi processo per la bancarotta fraudolenta, celebrasse da giudice monocratico anche quello per le cosiddette consulenze d’oro concluso con le assoluzioni di mercoledì. Nell’occasione la garantista Grignani, che già non aveva intravisto la fraudolenza, non ha individuato neppure il reato semplice. E così se l’istituto è saltato per aria la colpa è praticamente solo di Fornasari, presidente dal 2009 al 2014, e di Bronchi, dg dal 2008 al 2014. A Berni è stato, invece, contestato un presunto reato risalente addirittura al 2005. Mentre è passato agli archivi il periodo in cui a governare la banca erano il presidente Lorenzo Rosi e il vicepresidente Boschi senior, che per mettere in salvo la barca avevano pensato bene di andare a chiedere aiuto nell’ufficio del faccendiere Flavio Carboni, recentemente scomparso, accompagnati da massoni e traffichini di complemento. Tutte storie che noi avevano raccontato in un libro intitolato I segreti di Renzi, il cui contenuto non è mai stato ufficialmente contestato dai principali protagonisti. Boschi senior riuscì persino a portare un sedicente emissario di un emiro, in realtà un pakistano che era male in arnese, ai piani alti della Banca e un chiacchierato ragioniere campano (legato a Carboni) fece arrivare da un presunto fondo del Qatar (definito da Banca d’Italia «fantomatico») una proposta di acquisizione dell’istituto. Alla cricca che ruotava intorno a Carboni venne concessa, con l’avallo di Pier Luigi e del figlio Emanuele, anche l’apertura del conto per una azienda poi finita in bancarotta. Ma sui rapporti opachi della famiglia di Maria Elena con questa banda nessuno ha mai pensato di far luce. Padre e figlio non sono mai stati sentiti nemmeno come persone informate dei fatti durante le indagini per riciclaggio, una decisione che aveva stupito anche la polizia giudiziaria.Ricordiamo che ad Arezzo non è mai stata approfondita in un processo neanche la vicenda degli affari del genitore con una coppia di calabresi sottoposti a gennaio, su ordine della Dda di Firenze, a un sequestro del valore 5 milioni di euro. I due sono infatti indagati per riciclaggio con l’aggravante di aver agevolato un’associazione mafiosa e in particolare la ‘ndrangheta. Uno dei due presunti collaboratori delle cosche ci ha anche raccontato di aver consegnato quasi 200.000 euro in contanti a babbo Boschi per turbare un’asta. Anche su questo punto l’imprenditore calabrese non è mai stato smentito.Pier Luigi è stato indagato e prosciolto in fase preliminare per la buonuscita milionaria del dg Bronchi e per l’accusa di falso in prospetto, il dépliant informativo sullo stato della banca. Il giudice Stefano Cascone alla fine ha assolto anche gli imputati Fornasari e Bronchi scrivendo che dal 2013 la Consob era informata della situazione della Bpel, mentre l’attuale vicedirettore della commissione nazionale per le società e la Borsa Tiziana Togna era andata a spiegare in aula che quelle informazioni erano giunte sulle loro scrivanie solo nel 2016. Evidentemente il giudice non deve averle creduto. Nel fascicolo sulle subordinate tossiche, invece, il cerino è rimasto in mano solo agli sportellisti, mentre gli amministratori, babbo compreso, sono stati tutti prosciolti. Ma torniamo alla sentenza di mercoledì che ha portato Matteo Renzi a chiedere solenni scuse. «Noi siamo un Paese senza memoria» ammoniva Pier Paolo Pasolini. E i politici ne approfittano. E allora conviene rammentare i fatti ai lettori. Il 3 dicembre 2013, dopo un anno di ispezione, gli 007 di Bankitalia leggono al Cda le conclusioni firmate dal governatore Ignazio Visco e in particolare quanto riportiamo: «A seguito del progressivo degrado della situazione aziendale, la Banca popolare dell’Etruria risulta ormai condizionata in modo irreversibile da vincoli economici, finanziari e patrimoniali che ne hanno di fatto “ingessato” l’operatività». Per questo via Nazionale riteneva che la Popolare non fosse «più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento».In aula Carmelo Barbagallo, all’epoca capo degli ispettori, ha ribadito che i controlli avevano portato a riscontrare come la banca non fosse «in grado di proseguire da sola, perché non aveva le forze manageriali» e quindi era stato consigliato alla Bpel di aggregarsi a un altro istituto, di «adeguato standing», come la Banca popolare di Vicenza. Ma gli amministratori aretini, secondo Barbagallo, avrebbero nominato «advisor importanti» unicamente per non far dire a Palazzo Koch di non essere stata «presa sul serio», ma di fatto sarebbero tornati sui propri passi, facendo riemergere la volontà di «autonomia» dell’Etruria e dei suoi manager nonostante stessero correndo veloci «verso il precipizio». Insomma anche per gli ispettori di via Nazionale il Cda della banca avrebbe giocato con il fuoco, ben consapevole di farlo. L’avvocato di parte civile Lorenza Calvanese ha denunciato in una memoria rievocata l’altro ieri mattina in aula il presunto sistema: «In questo contesto è esemplificativa la revoca dell’incarico allo studio Grande Stevens, con contestuale nomina dei legali Zoppini e Di Gravio, in quanto è stata disposta senza indicarne il motivo dal Consiglio di amministrazione il 30 maggio 2014 (cioè due giorni dopo la ricezione della proposta della Banca popolare di Vicenza e a pochi giorni dalla scadenza del termine per esprimere il gradimento o meno della stessa)». Per la Calvanese «il nuovo conferimento dell’incarico» valutato dal legale come «imprudente», «ha comportato un’inutile duplicazione della spesa per l’attività di advisor legale visto che l’operazione con la Popolare di Vicenza era prossima all’epilogo».Eppure tutta la vicenda resta quasi senza colpevoli. Subodorando l’esito, a fine maggio alcuni piccoli risparmiatori hanno inviato ai presidenti delle Camere una missiva con cui chiedevano la desecretazione degli atti della commissione sulle banche. Nell’istanza gli scriventi contestano «l’erronea convinzione» di qualche giudice che la loro presenza in aula «fosse un antidoto alla noia della pensione». Nella lettera firmata da Paola Cerni, Mauro Moretti e Angelo Caramazza si legge: «Quello che forse nessuno ha compreso è che la nostra presenza è il modo che abbiamo scelto per ricordare che la giustizia non è un qualcosa di astratto, ma si esercita in nome del popolo italiano». Pertanto hanno chiesto che vengano desecretati gli atti della commissione di inchiesta sul sistema bancario del 2017 relativi alla Bpel, «con particolare riferimento all’audizione del Presidente di Consob Giuseppe Vegas». Il motivo? «È un nostro dovere pretendere che a distanza di sette anni la verità su questo disastro bancario non sia parziale e tempestata da omissioni e parti segretate».Caramazza proprio a proposito di Vegas conclude: «L’avvocato Boschi ci chiarisca che cosa è andata a fare da Vegas quando gli ha parlato della fusione a primavera del 2014. Questo è un delitto senza colpevoli».I giochi potrebbero riaprirsi a partire da quest’autunno quando partiranno i processi d’appello per la bancarotta. Inoltre rimane aperta l’azione di rivalsa multimilionaria del curatore fallimentare nei confronti dei membri del Cda.Consigliamo ai colleghi giornalisti di preparare altri fazzoletti.