
La morte di Laura Santi non è stata accolta con silenzio e rispetto, come ogni tragedia personale impone. Al contrario, la propaganda vi si è fiondata sopra.Di fronte ad ogni morte, il profondo senso dell’umano che abita in ogni cuore chiede il massimo di rispetto, accompagnato da un «silenzio» carico di compassione e partecipazione. Così deve essere anche per la giornalista Laura Santi che è ricorsa al suicidio assistito per porre fine alla malattia che da lungo tempo la affliggeva. Purtroppo non è stato così e il «circo» pro eutanasia, che da anni sta inquinando le menti e i cuori di tanti cittadini, ne ha fatto un caso emblematico per diffondere il loro slogan «Liberi fino alla fine». Nel momento in cui una donna, una nostra «sorella», colpita da malattia inguaribile, ma non incurabile, certamente provata da tante limitazioni, tante rinunce per le cose più semplici di cui è piena la quotidianità di chiunque, tanti bisogni fisici, psicologici, spirituali, getta la spugna ed è sopraffatta dal desiderio di morte, al posto di un dignitoso silenzio, carico dei sentimenti più vari, parte invece la speculazione politico-mediatica più indecorosa che si possa immaginare: occasione da non perdere a vantaggio della legalizzazione del suicidio assistito. Tema in discussione proprio in queste settimane. Guarda caso: casualità imprevista e imprevedibile, fatale gioco del destino, o casualità programmata? Non è dato sapere. Rimane il fatto - purtroppo - che, dopo la sentenza 242/19 della Corte Costituzionale, in Italia è possibile chiedere ed ottenere la «morte assistita» senza pena alcuna per chi ha aiutato ad uccidere. Questo evento che, comunque lo si voglia vedere, resta un evento tragico, anche se «liberamente» scelto - su quel liberamente ci sarebbe tanto da discutere - abbinato al sondaggio di Only Numbers pubblicato su La Stampa (21 luglio) con il titolo «Tre italiani su quattro sono favorevoli all’eutanasia», dà conto dello smarrimento spirituale, culturale, intellettuale - ma soprattutto «umano» - del tempo in cui viviamo, frutto del relativismo, non solo morale, che sta minando il fondamento della legge naturale che è scritta nel cuore di ogni uomo. Suicidi e omicidi hanno sempre accompagnato la storia dell’umanità, e hanno sempre sollevato sdegno, dolore, riprovazione; oggi per la prima volta, in modo pervasivo, assistiamo alla loro esaltazione e celebrazione quali atti di «somma libertà». Atti positivi, modelli onorabili, tanto da chiederne la tutela attraverso il diritto. Siamo di fronte ad una assurdità tale da restare quasi senza parole, e le poche voci che sostengono l’inviolabilità della vita umana, sempre e di chiunque, hanno sempre più l’aspetto di «vox clamans in deserto». Dobbiamo tacere, ritirarci sconfitti, allinearci al pensiero dominante? Assolutamente no e mai, con la certezza interiore, che si fa azione culturale e politica, che «Quos vult deus perdere dementat»: è un tempo di «demenza» (nel senso di «perdere il senno») sociale e civile, ma certamente seguirà il tempo della resipiscenza e rinsavimento. Resta il dolore delle tante vittime che questo delirio di morte lascerà sul campo.
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