Antonio Di Pietro (Ansa)
L’ex magistrato lancia l’allarme in vista del referendum: «Vogliono spostare due milioni di voti di italiani all’estero, a loro insaputa». Una nuova richiesta può far slittare il voto.
La riforma della giustizia, di cui in Italia si discute ormai da decenni, potrebbe finalmente diventare realtà. Approvata dal Parlamento, deve ora superare l’ultimo scoglio: il referendum confermativo che si terrà la prossima primavera. Cavallo di battaglia di tutto il centrodestra, questa riforma epocale è invece ferocemente osteggiata dalla sinistra che, sin dai tempi del berlusconismo, sostiene che la divisione delle carriere rappresenterebbe una picconata alla democrazia e all’autonomia dei giudici.
Passata la sbornia per Gaza, che ha riportato in piazza anche i progressisti in pantofole, la sinistra si è prontamente mobilitata per condurre questa nuova battaglia. Ieri, infatti, è nato ufficialmente il comitato per il no. Tra i promotori, figurano anche Maurizio Landini (Cgil), Gianfranco Pagliarulo (Anpi) e persino una rediviva Rosy Bindi. La direzione del comitato, invece, è stata affidata al piddino Giovanni Bachelet. Che, durante la conferenza di presentazione, ha affermato che «l’unico obiettivo che persegue» questa riforma sarebbe «quello di indebolire il controllo di legalità sulle scelte di chi esercita il potere».
Non la pensa così, però, un ex magistrato come Antonio Di Pietro, di certo non sospettabile di simpatie destrorse. Anzi, attraverso il comitato «Sì separa», l’ex leader dell’Italia dei valori è sceso in campo in prima fila per perorare la bontà della riforma. Durante un convegno a Napoli, Di Pietro ha colto l’occasione per denunciare il rischio brogli al referendum: «Si stanno già costituendo organizzazioni per controllare il voto degli italiani all’estero che, come già avvenuto in passato, raccolgono gli elenchi degli elettori, costruiscono e spediscono queste lettere, ci mettono il voto, all’insaputa del diretto interessato».
Più in particolare, l’ex pm di Mani pulite si riferisce agli iscritti all’Aire: «Parliamo di 2 milioni di voti che spostano il risultato», ha precisato Di Pietro. Che poi ha spiegato: «Ci sono gruppi organizzati, appartenenti a specifici partiti politici e sindacati, che con questo sistema stanno già organizzando le “buste” di voti da far arrivare in Italia. Un fatto che rischia di determinare una falsificazione del risultato. Lo voglio denunciare oggi prima che sia troppo tardi. Invito il governo, perché fa ancora in tempo, a fare una legge di un solo articolo che permetta agli elettori all’estero di votare di persona, alle ambasciate o ai consolati, con il proprio documento di identità. Una norma con la quale si applicano al referendum le stesse modalità di voto previste per le elezioni europee». Per scongiurare qualsiasi truffa elettorale, peraltro, Di Pietro ha anche lanciato l’idea di istituire il comitato «Giustizia senza confini», proprio per tutelare il voto dei nostri connazionali all’estero.
Mentre la campagna referendaria inizia a entrare nel vivo, Carlo Nordio ha assicurato che questa riforma costituzionale è solo l’inizio di un piano d’azione molto più ampio. «Quando avremo chiuso la parentesi del referendum, metteremo subito mano al processo penale», ha dichiarato ieri il ministro della Giustizia. Secondo Nordio, occorre ripensarne l’impianto per renderlo davvero «garantista», basandolo su pochi ma irrinunciabili pilastri: la presunzione d’innocenza, la certezza di una pena umana e la rieducazione del condannato. «Questi principi spero che troveranno attuazione in questa legislatura e l’esito del referendum dovrebbe facilitarle», ha affermato il Guardasigilli.
In serata è poi arrivata la notizia di una nuova richiesta di referendum sulla giustizia (da parte di 15 cittadini) che potrebbe far slittare la data della consultazione sulla riforma Nordio. Un’eventualità che non incontrerebbe il favore della maggioranza, intenzionata ad affrontare al più presto l’esame delle urne.
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Si avvicina il cenone della vigilia e il pranzo di Natale, ed ecco un’idea sfiziosa facilissima e buonissima che mette d’accordo tutti per un antipastino veloce, o un accompagnamento per l’aperitivo da portare in tavola tiepido per aprire le giuste celebrazioni gastronomiche.
Ingredienti – Una confezione di pasta sfoglia rettangolare, una pera, 100 gr di Camembert, 100 gr di Pecorino semi-stagionato (ma i formaggi potete sceglierli a gusto vostro) 2 cucchiai di miele, 4 o 5 noci, un cucchiaio di timo secco o alcuni rametti se fresco, una mezza melagrana, alcuni rametti di rosmarino, un uovo.
Procedimento – Piegate in tre per il verso della lunghezza la pasta sfoglia: sul terzo esterno fate tanti taglietti orizzontali sì da formare una frangia, su quello centrale sistemate le fette di formaggio alternando i gusti e sopra altrettante fettine di pera che cospargerete con le noci grossolanamente sbriciolate dopo averle sgusciate, le foglioline di timo e napperete con il miele. Ora con l’altro terzo di pasta sfoglia ricoprite il cacio e pere in modo da formare uno scrigno e disponete su questo le lamelle di pasta sfoglia del primo terzo avendole un po’ attorcigliate. Ora modellate il panetto a corona. Sbattete l’uovo e pennellate la superficie. Infornate a 180 gradi per circa una ventina di minuti. Nel frattempo sgranate la melagrana. A cottura ultimata guarnite la corona con i chicchi di melagrana (sembreranno palline di Natale, ma rinfrescano molto la bocca) e qualche rametto di rosmarino.
Come far divertire i bambini – Fate decorare a loro la corona con la melagrana saranno entusiasti.
Abbinamento – Abbiamo scelto un Moscato di Pantelleria, ma vinificato fresco; ottimo l’abbinamento con Franciacorta saten spumante o con un Cartizze.
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Alberto Contri (Imagoeconomica)
L’esperto di comunicazione: «Nonostante l’eccezione del secondo mandato, il capo dello Stato interviene su tutto, dando indirizzi di politica interna ed estera. Nel frattempo i media mainstream globali crollano perché la verità si trova solo sui social liberi».
Sconfortato per lo stato dell’informazione in Italia e in Europa, stupito di essere tra i pochi ad allarmarsene ma deciso a dar battaglia, già ai vertici di importanti istituzioni della comunicazione, ex consigliere Rai e per 20 anni presidente di Pubblicità Progresso, Alberto Contri ha appena pubblicato La guerra della comunicazione, testo contenuto in Luce (Arca Edizioni), saggio di autori vari, tra i quali lo storico Angelo D’Orsi e la virologa Maria Rita Gismondo.
Professor Contri, in pochi giorni abbiamo registrato l’autocritica del Wall Street Journal sulle previsioni economiche sbagliate, sui dazi e sulla tenuta di Donald Trump, la retromarcia del New York Times sui piani economici soffocanti, le politiche ambientali autodistruttive, l’immigrazione indiscriminata e il ritiro di un articolo di Nature sulle teorie del cambiamento climatico. Che cosa sta accadendo alla comunicazione mondiale?
«Forse sta iniziando a incrinarsi il blocco informativo gestito da Blackrock, il più grande fondo di investimenti mondiale che ramifica il suo potere in 500 multinazionali tra cui sei potenti network di comunicazione. Questi media, forse, lo ripeto, cominciano a realizzare che, oltre un certo limite di bugie, non si può andare perché la popolazione si rende conto della discrasia tra la realtà e la narrazione».
Sono autocritiche e ripensamenti clamorosi di testate prestigiose, come mai non se ne parla nei nostri giornali e nelle nostre televisioni?
«L’unico che le ha riprese è Federico Rampini, tra i giornalisti e analisti più indipendenti in circolazione. Le altre grandi firme ed editorialisti, in Europa e in Italia, continuano la loro routine come se niente fosse».
È curioso che testate e opinionisti in prima linea per la libertà di stampa siano invece retroguardie quando si tratta di dare notizie che implicano un ricalcolo radicale?
«Più che curioso lo definirei drammatico. È un comportamento rivelatore del fatto che costoro si muovono in base a motivazioni ideologiche o a pressioni degli editori, anche in conseguenza del miliardo che hanno ricevuto in dieci anni dall’Unione europea (fonte: Brussels’s Media Machine, Thomas Fazi ndr) - per cui bisogna parlar bene dell’Europa - e dalla presidenza del Consiglio, sotto forma di finanziamenti alla cosiddetta stampa libera. Per esempio, mi ha stupito la richiesta di questi giorni del presidente degli editori Andrea Riffeser che batte ancora cassa a Palazzo Chigi».
Questo flusso di denaro finanzia una sorta di macchina del consenso?
«La sostanza di ciò che vediamo è molto denaro offerto in cambio di una narrazione positiva delle gesta eroiche e progressive di questa Unione europea».
Che cosa pensa della vendita di Repubblica e Stampa, crolla un bastione della sinistra e dell’Italia civile?
«I nodi vengono al pettine. Se guardiamo le statistiche vediamo un crollo progressivo nella lettura dei giornali. Quello che mi stupisce è che coloro che hanno contribuito alla caduta di questi media adesso strillano per il pericolo della fine di un’informazione che libera non era. Possiamo notare il solito doppio standard, silenzio assoluto per la crisi di Stellantis che ha colpito le maestranze e grida per le testate dove lavorano».
Qual è la sua opinione sui nostri telegiornali?
«Ormai, per un osservatore dei media come me, l’ascolto dei tg è una tortura quotidiana».
Addirittura?
«La maggioranza dei nostri telegiornali risponde a una liturgia sempre uguale a sé stessa, con la voce del padrone in primo piano e poi il risibile siparietto del cosiddetto pastone politico in cui, come tante marionette, i vari esponenti politici rivendicano con frasi fatte l’apporto del loro partito a un presunto buon andamento del Paese. Anche l’opposizione è un disco rotto, con le solite figurine di Bibì e Bibò. Per il resto, molta cronaca nera, omicidi, femminicidi e tante canzoni».
Un quadro desolante.
«Fosse solo questo, da giorni in tutta Europa, in Francia, Germania, Spagna, Irlanda ma anche in Gran Bretagna, ci sono migliaia di trattori di nuovo in marcia a sostegno delle proteste degli agricoltori. In Francia da due giorni alcune autostrade sono bloccate. Solo perché la protesta è arrivata a Bruxelles la Rai ha battuto un colpo, ma niente di più».
Come se lo spiega?
«Ci dev’essere una moral suasion, i finanziamenti cui accennavo, per dire che in Europa tutto va ben, madama la marchesa».
Come mai sui social le manifestazioni dei trattori sono visibili?
«Soprattutto su X. Questo spiega l’accanimento e la recente multa di Bruxelles contro il social di Elon Musk. Non a caso, lui stesso ha dichiarato che se avesse censurato maggiormente certe notizie non sarebbe stato sanzionato. La sintesi è questa: i media che prendono denaro sono allineati, i social che non lo sono prendono le multe».
Tg e talk show sono troppo ostaggi della polarizzazione pro o contro il governo Meloni?
«Anche della polarizzazione sul Covid, la Russia, la cultura woke... Magari fosse una polarizzazione tra due poli, purtroppo se ne vede quasi solo uno».
L’ultima vittima è Limes, la rivista di geopolitica di Lucio Caracciolo?
«Certo, contestata solo per aver distinto l’analisi dalla propaganda e ospitato tutte le voci».
A che cosa si riferiva qualche giorno fa il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, quando parlava di «opachi centri di potere sottratti alla capacità normativa degli Stati»?
«Devo rispondere con circospezione e rispetto in quanto commendatore nominato da Oscar Luigi Scalfaro e grand’ufficiale della Repubblica nominato da Carlo Azeglio Ciampi. Ho il più grande rispetto della massima carica dello Stato, ma non posso buttare a mare una reputazione di 50 anni di analista della comunicazione per non rilevare che, negli ultimi anni, le esternazioni del presidente della Repubblica hanno travalicato i limiti previsti dalla Costituzione. Innanzitutto, per la frequenza eccessiva, al punto che, a volte, compare due volte nello stesso tg. Poi perché insieme a osservazioni spesso retoriche, vengono dati precisi indirizzi sia di politica estera che di politica interna. Infine, per gli elementi d’incoerenza».
Per esempio?
«Quando ha detto che “non si cambiano i confini con la forza”, forse non ricordava il suo ruolo di vicepremier nel governo D’Alema che partecipò al bombardamento del Kosovo nel 1999».
Ma gli «opachi centri di potere»?
«In questo caso c’è un’aggressione al sistema dei social network che invece si stanno rivelando vettori di verità. Mentre i media mainstream sono ritenuti detentori esclusivi di questa verità».
Il capo dello Stato che si preoccupa di opachi centri di potere gode dal canto suo di molta visibilità mediatica.
«Posso rispondere che, sul piano della tecnica della comunicazione, esternare ogni giorno che Dio manda in terra riduce automaticamente l’autorevolezza del discorso da qualunque alto pulpito esso provenga».
Se lo aspettava un Mattarella così interventista come negli ultimi tempi?
«Sinceramente no e mi ha molto stupito, come mi hanno stupito anche certi toni. Per esempio, quello del discorso agli ambasciatori in Italia era aspro e aggressivo. E persino intimidatorio quando ha detto che “non è possibile distrarsi e non sono consentiti errori”».
Quel discorso ha avuto anche una particolare tempistica?
«Pronunciato il giorno del vertice di Berlino, nel momento in cui si sta faticosamente cercando una mediazione tra Europa e America sull’Ucraina, è sembrato un intervento a gamba tesa».
Fanno bene i telegiornali a rilanciarlo con puntualità o certi servizi sono una sorta di pedaggio?
«Dimostrano una buona dose di piaggeria. Dal punto di vista tecnico, osservo che purtroppo, dati i suoi toni freddi e anaffettivi, il presidente non è assistito da una particolare grazia nel comunicare».
Tra pochi giorni lo ascolteremo nel discorso di fine anno.
«Francamente, dopo averlo ascoltato tutti i giorni non so che cosa potrà dirci di nuovo se non ribadire le sue idee politiche».
A questo proposito, ricorda che durante il governo Draghi e il Conte II Mattarella fosse così interventista?
«Mi pare che i suoi interventi fossero di meno. Inoltre, mi permetto umilmente di osservare che, essendo già un’eccezione il secondo mandato, forse una particolare prudenza in queste esternazioni sarebbe stata raccomandabile».
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Michele De Pascale (Ansa)
Creata dalla Regione una destinazione d’uso per inserire oneri aggiuntivi nel caso degli immobili destinati ad affitti brevi, ma la norma è a forte rischio incostituzionalità.
L’Emilia-Romagna bastona i proprietari di casa. È infatti durissima la reazione dei capigruppo di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e Rete civica alla legge regionale sugli affitti brevi approvata in Assemblea legislativa. In dettaglio, il progetto di legge proposto dalla giunta introduce nei piani urbanistici comunali una nuova destinazione d’uso, denominata «locazione breve», che ricade nella categoria turistica-ricettiva. L’obiettivo è quello di «distinguere gli immobili destinati a questo tipo di attività dal patrimonio abitativo ordinario».
La maggioranza di centrosinistra, sostengono i capigruppo, ha blindato il testo respingendo tutti gli emendamenti dell’opposizione, lasciando irrisolti i punti più controversi e aprendo la strada a un’applicazione disomogenea sul territorio.
Per Rete civica il problema centrale è la retroattività e la protezione dei diritti già maturati, soprattutto per chi opera nel rispetto degli adempimenti e del Cin. «Anche con gli emendamenti della maggioranza la retroattività non è stata tolta in modo inequivocabile», ha affermato Elena Ugolini, capogruppo di Rete civica. «Nella legge ci sono tanti punti contraddittori che genereranno sicuramente contenziosi proprio su un tema che la maggioranza aveva dichiarato di voler risolvere senza ambiguità», spiega.
Fratelli d’Italia allarga il tiro, contestando un impianto «frammentario» e l’uso di strumenti urbanistici per governare un fenomeno che, a loro giudizio, dovrebbe stare dentro una cornice turistica organica, con il rischio di contenziosi e di profili di illegittimità. «Siamo contrari a questa legge sia nel merito sia nel metodo: è un provvedimento confuso, inefficace e con profili di incostituzionalità», ha proseguito Marta Evangelisti di Fdi, «Serve una regolamentazione seria e organica, non interventi frammentari».
Forza Italia insiste sugli effetti economici e sociali: la distinzione tra uso abitativo e locazione breve introdurrebbe oneri aggiuntivi e una compressione indiretta della proprietà privata, senza che ciò produca automaticamente più affitti di lungo periodo; a pagare sarebbero soprattutto piccoli proprietari e l’indotto turistico. «Una legge debole nei presupposti, confusa negli strumenti e che avrà effetti nefasti su vari settori. Non tutela i piccoli proprietari, non favorisce il turismo e non risolve il problema abitativo», ha dichiarato per Forza Italia Pietro Vignali, «il testo prevede una compressione del diritto alla proprietà privata perché introduce una distinzione tra uso abitativo e locazione breve, attribuendovi oneri aggiuntivi».
La Lega, infine, attacca l’assenza di dati pubblici e di una valutazione d’impatto, rivendicando emendamenti «di salvaguardia» per chi già affitta e per gli alloggi messi a disposizione dalle aziende, tutti respinti. «Oggi la sinistra ci chiede di votare una legge senza numeri: senza una base conoscitiva chiara, senza dati pubblici a sostegno, senza una valutazione seria dell’impatto economico che avrà su chi guarda a questo tipo di affitti per integrare il reddito».
Del resto, questo è un periodo di caccia alle streghe per chi opera nelle locazioni brevi. Proprio martedì scorso la Corte costituzionale ha respinto diverse questioni di legittimità sollevate dal governo contro la legge della Toscana che riconosce a Regione e Comuni la competenza di regolamentare gli affitti brevi. Il pronunciamento è rilevante perché potrebbe fare da riferimento per altre amministrazioni locali e regionali in Italia che stanno valutando interventi analoghi.
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