2020-07-31
Chi vuole raccontare la quarantena legga gli autori russi
Viktor Šklovskij (Wikimedia Commons)
Le librerie verranno invase presto dai romanzi sul «lockdown» Se avranno la stessa cura di Viktor Šklovskij sarà un piacere sfogliarli.Sembra che nella prossima stagione editoriale molti romanzi, e molti libri in generale, parleranno del coronavirus e di come sono cambiate le nostre vite nel periodo in cui eravamo costretti a star chiusi in casa. Che, a pensarci, è una cosa, leggere dei libri che mi parlano dei mesi che sono stato chiuso in casa, che l'eviterei volentieri. Oltretutto, sarebbe difficilissimo, secondo me, far vedere il modo in cui siamo stati travolti, ciascuno per conto suo, ciascuno a modo suo, e tutti insieme, dall'epidemia che ci ha travolto. Mia figlia, che ha quasi 16 anni, mi ha detto che lei, con il coronavirus, è la prima volta che sente di essere dentro la storia: questa le è sembrata la cosa più grande che è successa intorno a lei da quando è nata. Per me, una cosa simile, nella mia giovinezza, l'immagine più forte, della mia giovinezza, la cosa più grande che è successa intorno a me, da quando sono nato (nel 1963) a quando ho avuto quasi 16 anni, son state le domeniche dell'austerity. Che erano domeniche in cui le macchine, le automobili, non potevano circolare. Prendeva un aspetto, la città dove abitavo, Parma, sinistro e incantevole. Ma non era una cosa enorme come un'epidemia, tutt'altro. Cioè la cosa più grande che è successa, nella mia giovinezza, non era qualcosa che compariva e cambiava le cose, era qualcosa che scompariva, e cambiava le cose. Non è successo niente, nella mia giovinezza. E non lo dico con dispiacere, è andata così. C'è uno scrittore russo che si chiama Viktor Šklovskij che poco meno di 100 anni fa ha pubblicato un libro che si intitola La mossa del cavallo (stesso titolo di un libro pubblicato recentemente da uno scrittore italiano che di mestiere fa il senatore). Quella Mossa del cavallo là, quella di Šklovskij, è una raccolta di articoli che a me sembrano ancora, 100 anni dopo, straordinari. Uno di loro si intitola Pietroburgo bloccata, e racconta di Pietroburgo nel periodo del comunismo di guerra, subito dopo la rivoluzione. «Chi mai saprà», scrive Šklovskij, «quanta fame abbiamo patito, quante vittime è costata la rivoluzione? Chi potrà ricostruire il senso dei titoli dei giornali e far luce sulla vita quotidiana della grande città?». La vita quotidiana, generalmente, è una cosa che sembra il contrario della letteratura. La parola letteratura fa venire in mente avventure, i personaggi straordinari, eppure, se c'è un legame tra la letteratura e la vita, e sarete tutti d'accordo con me che questo legame c'è, quella vita legata alla letteratura è la vita quotidiana, perché esiste solo la vita quotidiana. La vita settimanale, la vita quindicinale, la vita mensile, la vita bimestrale non le conosciamo: la vita quotidiana sì. Il freddo, che hanno avuto quell'inverno, a Pietroburgo. «Noi che vivevamo alla giornata», scrive Šklovskij, «eravamo entrati nell'inverno senza legna. Prenderla con la tessera era difficilissimo: bisognava fare due file complicate, al freddo, e la legna non bastava neanche per cucinare. Noi ci scaldavamo con tutto. Ho bruciato i miei mobili, gli scaffali per i libri e i libri, senza considerare niente, senza nessuna misura. Se avessi avuto gambe e braccia di legno mi sarei scaldato con quelle e a primavera sarei rimasto senza arti».«I nostri cavalli ci facevano pena. Quando ne cadeva uno, la gente accorreva da tutte le parti e si agitava in mezzo alla strada cercando di tirarlo su senza risparmio di energia. Ma un cavallo caduto si rialza raramente. Gli mettono del fieno vicino alla bocca: il primo giorno lo mastica, poi rimane immobile, non può più sollevare la testa. Alla fine arrivano i cani». «Quando trasportavano un cavallo morto al saponificio, la testa sbucava dal carro, le labbra esangui pendevano e parevano colare. Le ossa di cavallo (costole e vertebre) che tutto l'inverno sono rimaste in fondo a via Jamskaja mi ricordavano le piste delle carovane».«Pietroburgo», scrive poi Šklovskij, in quel periodo «ha prodotto poca spazzatura. Era sporca e, contemporaneamente, curata, come un malato molto debole, costretto a letto, che si faccia tutto sotto. Quell'inverno sono gelati quasi tutti i gabinetti. È stato peggio della fame.Prima ancora era gelata l'acqua. Nel Talmud c'è scritto che quando l'acqua non basta per bere e per completare i lavacri, è meglio non bere ma lavarsi. Noi», scrive Šklovskij, «non ci lavavamo. Gelavano i cessi. Il blocco e la rivoluzione avevano distrutto i trasporti e la legna era venuta a mancare. Tutti noi, quasi tutta Pietroburgo, portavamo l'acqua e l'immondizia su e giù con i secchi tutti i giorni. Com'è difficile vivere senza un gabinetto. Un mio amico, un professore, mi diceva, disperato, mentre camminavamo insieme e avevamo freddissimo: “Sai, invidio i cani. Loro almeno non si vergognano". La città si era coperta di escrementi: i cortili, i portoni, i tetti, perfino, quasi ne erano pieni. La visione era repellente, a volte oscena. C'era molta spudoratezza: qualcuno faceva sfoggio di feci.La gente ha urinato molto, quell'anno, spudoratamente, più spudoratamente di quanto io possa scrivere: in pieno giorno sulla prospettiva Nevskij; ovunque. Urinavano senza sfilarsi i tiranti delle slitte, senza togliersi il giogo, senza lasciare la presa delle corde degli slittini. C'era in questo un che di sconvolto e di disperato. Per vivere bisogna battersi, battersi tutti i giorni, far la coda per un grado di calore, lasciarsi corrodere le mani nella cenere per la pulizia. Poi la città venne invasa dai pidocchi. L'angoscia genera i pidocchi». E la fame. «Eravamo immersi nella fame come pesci nell'acqua, come uccelli nell'aria. Fame e acqua calda, la mattina. Litigate in famiglia per questioni alimentari, a pranzo. Fame, la notte. Uscendo dalle case buie (ah, il buio, e il nerofumo dei lucignoli, e l'attesa della luce) ci riunivamo a teatro. Guardavamo il palcoscenico. Recitavano attori affamati. Scrivevano autori affamati. Gli scienziati lavoravano. Ci radunavamo intorno a una stufa dove si bruciavano libri, tenendoci addosso i pastrani. Avevamo le gambe piene di piaghe perché le vene scoppiavano per insufficienza di lipidi. E parlavamo di ritmo, di forme verbali, raramente della primavera: rivederla sembrava improbabile. Sembrava che lavorassimo non con il cervello, ma con il midollo spinale». «La Neva (il fiume di Pietroburgo) scorreva, scorreva sotto il ghiaccio, e noi lavoravamo», scrive Šklovskij, e io, contraddicendomi, credo che, se qualcuno sapesse raccontare con la stessa cura i nostri lavacri, le nostre paure, il nostro modo di raccogliere la spazzatura, di mangiare, di fare le file durante l'emergenza del coronavirus, sarei contento di leggerlo. (4. Continua)
(Ansa)
L'ad di Cassa Depositi e Prestiti: «Intesa con Confindustria per far crescere le imprese italiane, anche le più piccole e anche all'estero». Presentato il roadshow per illustrare le opportunità di sostegno.
Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)