2018-05-06
All'Italia sono serviti otto anni per tornare al livello del 2009 e azzerare le perdite, mentre nel resto del mondo i mercati volano. Enorme la forbice fra i titoli: dal +987% di Brembo al -89% di Unipolsai. Male le banche.Oltre otto anni, un tempo biblico per chi maneggia finanza e investimenti. Oltre otto anni, più di 3.000 giorni per chiudere l'era della più grave crisi finanziaria del dopoguerra. È il tempo che ha impiegato Piazza Affari per riacciuffare i livelli di quotazione dell'epoca post tempesta, occorsa su tutte le Borse dopo il funesto crac di Lehman Brothers. La notizia di questi giorni, infatti, è che il listino delle blue chips, quel Ftse Mib che raggruppa i 40 titoli a più larga capitalizzazione, ha rivisto i massimi toccati il 18 ottobre dell'ormai lontano 2009 quando era giunto a quota 24.400 punti. Da allora non si era mai più avvicinato a quel livello sfiorato proprio nei giorni scorsi e venerdì con l'indice che ha chiuso vicinissimo a quota 24.335. Solo nell'estate 2015 l'indice principale della Borsa milanese aveva provato a spingersi verso quota 24.000, venendo però respinto. Vista così è una buona notizia: archivia, per il momento, il periodo nero della crisi della spread, della doppia recessione italica, e della crisi bancaria. Del lungo tunnel buio dopo la tempesta finanziaria del secolo. Fin qui tutto bene. Certo è che analizzata da un altro punto di vista appare una ben magra consolazione. Chi avesse puntato i propri risparmi in quel 2009 pieno di turbolenza su un fondo che investe sulle blue chip del Belpaese o avesse comprato un Etf sull'indice Ftse Mib si ritroverebbe con zero performance. Oltre otto anni, oltre 3.000 giorni per rientrare in possesso dei soldi investiti all'epoca, annullando di fatto le perdite sofferte.In questi otto anni, ormai quasi nove il prossimo autunno, qualsiasi altro investimento avrebbe fatto patire meno. Un Btp, un paniere di obbligazioni societarie, un fondo azionario globale, e potremmo citarne molti altri, avrebbero reso parecchio. Altro che perdite annullate, si sarebbero ottenuti rendimenti più che ghiotti. D'altra parte il confronto della piccola Borsa italiana e dei suoi titoli più di spicco con il resto del mondo borsistico è impietoso. E dà il senso della pochezza estrema della nostra piazza finanziaria a confronto con il resto del mondo. Specchio tutto finanziario della debolezza economica del Paese, sempre in ritardo sugli altri sugli indicatori di crescita economica e sui fondamentali di bilancio. Se infatti l'indice più prestigioso di Piazza Affari è tornato ai livelli del 2009, le più importanti Borse mondiali hanno letteralmente divorato questo magro risultato. Il listino di Wall Street con il suo S&P500 dopo essere precipitato a meno di 700 punti a seguito della crisi Lehman Brothers si ritrovava nell'ottobre del 2009 a 1.000 punti. Da allora non ha mai smesso di salire e oggi quota oltre 2.600 punti con un rendimento del 160%. Altro che il pareggio faticosamente raggiunto dal modesto listino di casa nostra. Il Dax30 tedesco non è stato da meno: Francoforte ha inanellato dall'autunno del 2009 una performance vicina al 100%; Parigi con il suo Cac40 ha prodotto un ritorno del 55% da allora. Un semplice Btp decennale con il suo flusso di cedole avrebbe reso oltre il 25%, senza contare l'apprezzamento in conto capitale. E allora letta in questo modo, c'è ben poco da festeggiare. Certo pericolo scampato, minusvalenze recuperate, ma quanta fatica per chi ha creduto alle sorti benevole delle principali azioni italiane. E quel record storico, quando prima della grande crisi il Ftse Mib quotava 40.000 punti, è ancora oggi un miraggio lontanissimo e forse mai più raggiungibile. Questo mentre Wall Street ha festeggiato, lei sì, la fine della crisi toccando molte volte negli ultimi anni i suoi massimi di sempre. Ma ovviamente non tutto è andato perduto. L'indice è un paniere di 40 azioni e la performance tiene insieme chi è andato molto bene e chi no. E come tutte le medie si presta solo a una lettura di superficie. Perché c'è invece chi ha reso più che felici i propri investitori. Una pattuglia di società che non ha deluso. Al contrario ha offerto performance da leccarsi le dita. Vediamole. In cima come miglior titolo spicca Brembo. Dal 19 ottobre del 2009 quando il Ftse Mib valeva quanto adesso la società bergamasca di freni per auto ha reso ben il 987%. Una performance stellare. Oltre cinque volte il guadagno dell'S&P500 di Wall Street. E rendimenti da capogiro li hanno prodotti anche Recordati, Campari, Luxottica, Stm, Prysmian. Cosa unisce queste stelle di Borsa? Tutte sono di fatto multinazionali globalizzate nei fatturati e nelle vendite. E tutte hanno visto crescere ricavi, margini e utili a doppia cifra anno su anno. La grande corsa nel risparmio gestito degli italiani ha messo le ali a Banca Generali e ad Azimut.Poi staccate dal gruppetto di testa ecco le grandi utility: Atlantia, Terna, Snam ed Enel. Tutte con buone anche se non eclatanti performance. Qui la spiegazione è altrettanto semplice. Sono business regolati da tariffe e al riparo dalla concorrenza globale. Facile veder crescere ricavi e utili anche in piena crisi.I veri perdenti sono le banche. Solo Intesa Sanpaolo, la più solida e redditizia tra le banche italiane, e Mediobanca, banca d'affari non esposta sui guai del credito (leggi sofferenze) hanno tenuto botta. Il resto è un'ecatombe. Con loro sono cadute anche le assicurazioni con il disastro Unipol e il risultato negativo di Generali. E poi le grandi delusioni; da Eni (che ha patito il ribasso del greggio) a Leonardo, Telecom Italia (su cui le battaglie per il controllo non rianimano mai un titolo troppo carico di debito per poter correre sul listino) fino a Mediaset, che ha sofferto l'appannamento politico del suo mentore, la crisi anche della pubblicità televisiva e il flop di Premium. Inclassificabile con -88% Saipem, alle prese con tangenti, inchieste di Consob e Procura e bilanci allegri. La nuova Monte dei Paschi di Siena, non bancaria questa volta. Il consiglio quindi è mai comprare l'intero paniere, ma scegliere con cura su chi vale la pena puntare.
Bivacco di immigrati in Francia. Nel riquadro, Jean Eudes Gannat (Getty Images)
Inquietante caso di censura: prelevato dalla polizia per un video TikTok il figlio di un collaboratore storico di Jean-Marie Le Pen, Gannat. Intanto i media invitano la Sweeney a chiedere perdono per lo spot dei jeans.
Sarà pure che, come sostengono in molti, il wokismo è morto e il politicamente corretto ha subito qualche battuta d’arresto. Ma sembra proprio che la nefasta influenza da essi esercitata per anni sulla cultura occidentale abbia prodotto conseguenze pesanti e durature. Lo testimoniano due recentissimi casi di diversa portata ma di analoga origine. Il primo e più inquietante è quello che coinvolge Jean Eudes Gannat, trentunenne attivista e giornalista destrorso francese, figlio di Pascal Gannat, storico collaboratore di Jean-Marie Le Pen. Giovedì sera, Gannat è stato preso in custodia dalla polizia e trattenuto fino a ieri mattina, il tutto a causa di un video pubblicato su TikTok.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Il ministro fa cadere l’illusione dei «soldi a pioggia» da Bruxelles: «Questi prestiti non sono gratis». Il Mef avrebbe potuto fare meglio, ma abbiamo voluto legarci a un mostro burocratico che ci ha limitato.
«Questi prestiti non sono gratis, costano in questo momento […] poco sopra il 3%». Finalmente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti fa luce, seppure parzialmente, sul grande mistero del costo dei prestiti che la Commissione ha erogato alla Repubblica italiana per finanziare il Pnrr. Su un totale inizialmente accordato di 122,6 miliardi, ad oggi abbiamo incassato complessivamente 104,6 miliardi erogati in sette rate a partire dall’aprile 2022. L’ottava rata potrebbe essere incassata entro fine anno, portando così a 118 miliardi il totale del prestito. La parte residua è legata agli obiettivi ed ai traguardi della nona e decima rata e dovrà essere richiesta entro il 31 agosto 2026.
I tagli del governo degli ultimi anni hanno favorito soprattutto le fasce di reddito più basse. Ora viene attuato un riequilibrio.
Man mano che si chiariscono i dettagli della legge di bilancio, emerge che i provvedimenti vanno in direzione di una maggiore attenzione al ceto medio. Ma è una impostazione che si spiega guardandola in prospettiva, in quanto viene dopo due manovre che si erano concentrate sui percettori di redditi più bassi e, quindi, più sfavoriti. Anche le analisi di istituti autorevoli come la Banca d’Italia e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) tengono conto dei provvedimenti varati negli anni passati.
Maurizio Landini (Ansa)
La Cgil proclama l’ennesima protesta di venerdì (per la manovra). Reazione ironica di Meloni e Salvini: quando cade il 12 dicembre? In realtà il sindacato ha stoppato gli incrementi alle paghe degli statali, mentre dal 2022 i rinnovi dei privati si sono velocizzati.
Sembra che al governo avessero aperto una sorta di riffa. Scavallato novembre, alcuni esponenti dell’esecutivo hanno messo in fila tutti i venerdì dell’ultimo mese dell’anno e aperto le scommesse: quando cadrà il «telefonatissimo» sciopero generale di Landini contro la manovra? Cinque, dodici e diciannove di dicembre le date segnate con un circoletto rosso. C’è chi aveva puntato sul primo fine settimana disponibile mettendo in conto che il segretario questa volta volesse fare le cose in grande: un super-ponte attaccato all’Immacolata. Pochi invece avevano messo le loro fiches sul 19, troppo vicino al Natale e all’approvazione della legge di Bilancio. La maggioranza dei partecipanti alla serratissima competizione si diceva sicura: vedrete che si organizzerà sul 12, gli manca pure la fantasia per sparigliare. Tant’è che all’annuncio di ieri, in molti anche nella maggioranza hanno stappato: evviva.





