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2022-01-26
Il centrodestra cala un tris ma l’asso è coperto
Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio (Ansa)
«Chiudiamoci in una stanza a pane e acqua e buttiamo via la chiave fino a quando non esce un nome», dice Enrico Letta a sera, dopo averli rifiutati tutti e non averne indicato neppure uno. Più che un leader, una principessa sul pisello. Per ora l’unico nome che spacca è Bianca Scheda. Che esisteva veramente, faceva la contadina in Emilia e nel 1992 arrivò a prendere 917 voti. Qui si attesta attorno ai 600, segnale che la ricreazione non è finita. Eppure qualcosa si muove: il centrodestra lancia la sua rosa, il centrosinistra conferma l’abbraccio peloso allo status quo e l’Europa fa sapere che un’Italia politicamente immobile sarebbe l’ideale nel segno della stabilità.
L’unica mossa politica sulla scacchiera è del centrodestra, che propone i «senza tessera» Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. «Non sono nomi né di partito né di bandiera, è una terna che offriamo alla discussione sperando che non ci siano veti», sottolinea Matteo Salvini per bypassare la pretesa del Nazareno di definire super partes solo candidati del Pd. Giorgia Meloni aggiunge un po’ di storia a beneficio della bulimia gauchiste: «Gli ultimi quattro presidenti della Repubblica hanno una provenienza di sinistra; sarebbe giusto nel rispetto del principio di alternanza che il nuovo capo dello Stato possa avere un’appartenenza culturale diversa, tanto più in un Parlamento in cui il centrodestra ha la maggioranza relativa». Il magistrato berluscofobico (Oscar Luigi Scalfaro), il tecnocrate socialista (Carlo Azeglio Ciampi), l’ex leader comunista (Giorgio Napolitano), il mellifluo colonnello del Pd (Sergio Mattarella) non furono certo frutto di condivisione democratica.
La volontà di proporre un candidato unitario è dimostrata dalle assenze partitiche nella lista di centrodestra; mancano Giulio Tremonti, Franco Frattini, Antonio Tajani, Elisabetta Casellati. Su quest’ultima il leader della Lega puntualizza: «Essendo attualmente in carica, ha già per questo la dignità e lo status per una possibile candidatura». Non è stato facile lasciar fuori Tajani, espressamente indicato da Silvio Berlusconi dopo il suo passo di lato, ma sul tema Salvini è lapidario: «Avrebbe i titoli ma non candidiamo dirigenti di partito». Nel transatlantico fibrillato aleggia la domanda: perché è scomparso Pier Ferdinando Casini? «Perché non è di centrodestra».
Tutto perfetto, tutto secondo i patti, tutto inutile. Lo intuisce Andrea Cangini (Forza Italia): «Anche se proponessimo Benedetto Croce verrebbe bocciato». A metà pomeriggio Letta sembra ammorbidirsi: «Quelli proposti dal centrodestra sono nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale. Fra poco arriveranno i nostri». Giuseppe Conte è in sintonia: «Non diamo patenti di legittimità. Il centrodestra ha il diritto e il dovere di presentare proposte. Le valuteremo». Poi i leader di sinistra si incontrano e il clima si raffredda. «Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione necessaria in questo momento», è la nota congiunta. Roberto Speranza fa l’intellettuale: «Non serviva fare la guerra delle due rose». Così la coalizione grillodem non riesce a esprimerne mezzo candidato. Lo ritiene superfluo perché l’accoppiata c’è da sempre, ed è quella che vuole Bruxelles: Mattarella-Draghi. In barba alla sovranità, ai numeri, alla politica alta e ai traslochi da operetta. Come riserva c’è sempre l’equivicino Casini.
Però chi ascolta i borbotti dei peones sa che Mario Draghi non scalda a sufficienza i cuori. Se l’elezione avvenisse nelle redazioni sarebbe l’imperatore della galassia, ma in Parlamento servono i voti. E magari un accordo politico sul prossimo governo, ipotesi lunare. In ogni caso Letta continua a tenere in piedi la statuetta del premier («Sono qui per proteggerlo, deve rimanere assolutamente nelle istituzioni del Paese») perché come al solito ce lo chiede l’Europa. La conferma arriva da una dichiarazione del commissario per il Bilancio, Johannes Hahn, che mette il naso nei nostri affari quirinalizi: «L’Europa ha tutto l’interesse affinché la situazione attuale continui perché vediamo che ci sono molte rassicurazioni e fiducia che i soldi del Recovery fund siano ben spesi».
Conte liquida l’ipotesi Draghi al Colle con una metafora nautica: «È il timoniere del governo, non ci sono le condizioni per fermare i motori». In realtà piuttosto che vedere lassù l’uomo che lo sfrattò si butterebbe nel Tevere gelato. Salvini semplicemente chiude la porta: «Lavora bene a Palazzo Chigi». Il trasloco del premier rimane complicato per entrambi i blocchi. Centrodestra: Berlusconi e Meloni sono contrari, Giancarlo Giorgetti e i governatori a favore, Salvini tratta senza voler deludere nessuno. Centrosinistra: Letta e Renzi sì, piddini sparsi e Movimento 5 stelle fedele a Conte assolutamente no. Luigi Di Maio e i suoi 70 fedelissimi sì. E allora avanti con Bianca Scheda, per non uscire matti e prima di buttare via la chiave.
Letta stizzisce i suoi complicando pure il cammino di Draghi
«Il nome del presidente della Repubblica non lo fanno i mercati, ma i rappresentanti del popolo»: quando Matteo Salvini pronuncia questa frase, nel corso dell’ennesima assemblea dei deputati della Lega, manca poco che ci scappi una ovazione. Il tema della giornata di ieri infatti è esattamente questo: il fronte del no all’ascesa al Colle di Mario Draghi è compatto, trasversale, determinato. Lega e Forza Italia (a parte Giancarlo Giorgetti e forse un paio di ministri di Fi) non ne vogliono sapere; Fratelli d’Italia ha come prima opzione votare un presidente di centrodestra; Italia viva accetterebbe Draghi al Colle solo se nascesse il famoso «governo dei leader»; nel Pd e nel M5s a fare i corazzieri di Draghi sono rimasti solo Enrico Letta e Luigi Di Maio; la sinistra non ne vuole sapere; tra i centristi di Coraggio Italia ci sono alcuni draghiani sparsi, ma Giovanni Toti è lapidario: «Nelle prossime ore i partiti devono decidere due cose: se si va su Draghi al Quirinale», dice il presidente della Liguria, «c’è da fare un accordo di governo, se invece si trova un altro nome bisogna che Draghi se ne faccia una ragione e continui a fare il presidente del Consiglio». Se uno come Toti, sempre felpato, suggerisce a Draghi, nel caso di una sua mancata elezione al Quirinale, di «farsene una ragione», e se Matteo Salvini si ribella alle ingerenze dei soliti «mercati» sulla elezione del capo dello Stato, vuol dire che la pressione che Nonno Mario sta esercitando sui partiti è altissima. «Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi ed è assolutamente importante averlo nelle istituzioni del Paese», si spinge a dire alla Cnbc Enrico Letta: una frase un po’ paradossale, pronunciata da chi dovrebbe più che altro fare il segretario del Pd: «Letta», dice alla Verità un esponente di primissimo piano dei dem, «ha spiegato che voleva dire che Draghi non va inserito nelle rose per il Colle, ma ci mancherebbe altro! Nel Pd le quotazioni del premier sono in caduta libera. Letta è andato da Draghi a chiedergli, in un eventuale nuovo governo da formare se il premier andasse al Colle, di cambiare la delegazione dei nostri ministri per inserire delle donne, e Draghi si è detto disponibile. Potete immaginare» aggiunge la nostra fonte, «la reazione dei ministri Lorenzo Guerini, Dario Franceschini e Andrea Orlando e di tutti i parlamentari di riferimento, praticamente il 90% della truppa. Tra l’altro l’idea che Draghi se non venisse eletto al Quirinale mollerebbe il governo è completamente infondata». Il fatto che anche Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, potente leader del correntone Base riformista, si sia spostato sul no a Draghi la dice lunga sul clima che si respira in Parlamento. Come andrà a finire? «Dipende da Salvini: se si decide a fare un nome che noi possiamo votare», risponde la nostra fonte dem, «come Casini o Amato, si chiude in mezza giornata».
Se Letta piange, Conte non ride: Giuseppi è molto infastidito, per usare un eufemismo, dall’atteggiamento del segretario del Pd, che lavora solo e soltanto per Draghi, soluzione che al leader del M5s non va bene. Conte deve trovare una soluzione che salvaguardi innanzitutto la legislatura, poiché il pattuglione di deputati e senatori del M5s, la stragrande maggioranza dei quali ha la matematica certezza di non ritornare mai più a poggiare le pentastellate terga sulle poltrone vellutate del Parlamento, voterà esclusivamente in funzione di questo nobile e disinteressato obiettivo. Luigi Di Maio, da parte sua, continua a lavorare per Draghi, ma ha lo stesso identico problema: deve convincere i suoi che una ascesa del premier al Colle sia contestuale a un accordo su un nuovo governo. «Conte», confida alla Verità un esponente di peso del fronte giallorosso, «sta facendo circolare la voce della possibilità di un accordo con Salvini per smuovere Letta dalla posizione o Draghi o morte. Certo che se il segretario del Pd si intestardisce, Conte potrebbe convergere su un nome proposto dal centrodestra, ma certamente non su uno della terna».
A proposto del centrodestra: Salvini continua a giocare su due tavoli. Per dare l’ok a Draghi aspetta il sì al ritorno del Viminale alla Lega, ma col passare delle ore questo primo forno sta per spegnersi definitivamente. Resta acceso il secondo: un nome di centrodestra al Colle, per la prima volta nella storia della Repubblica. Non a caso Salvini, Meloni e Tajani hanno escluso dalla rosa di nomi la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Quest’ultima è la carta di riserva da mettere in campo solo se altre votazioni andassero a vuoto. Mettere sul tavolo nel momento sbagliato il nome della Casellati, sulla quale il M5s potrebbe convergere avendola votata presidente del Senato, che ha già l’ok di molti parlamentari di Italia viva e che è apprezzata anche da alcuni senatori del Pd, sarebbe un errore clamoroso.
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Candidati per il Colle Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio. Pd e M5s: «Nomi di qualità però ve li bocciamo. Incontriamoci». A sinistra perde quota l’ipotesi Mario Draghi. Enrico Letta (e l’Ue) ripropongono il Mattarella bis. Intanto è scheda bianca.Il leader del Pd va dal banchiere e chiede più donne al governo: furiosi i ministri dem. E ora il partito diviso è un ostacolo alle trattative.Lo speciale contiene due articoli.«Chiudiamoci in una stanza a pane e acqua e buttiamo via la chiave fino a quando non esce un nome», dice Enrico Letta a sera, dopo averli rifiutati tutti e non averne indicato neppure uno. Più che un leader, una principessa sul pisello. Per ora l’unico nome che spacca è Bianca Scheda. Che esisteva veramente, faceva la contadina in Emilia e nel 1992 arrivò a prendere 917 voti. Qui si attesta attorno ai 600, segnale che la ricreazione non è finita. Eppure qualcosa si muove: il centrodestra lancia la sua rosa, il centrosinistra conferma l’abbraccio peloso allo status quo e l’Europa fa sapere che un’Italia politicamente immobile sarebbe l’ideale nel segno della stabilità.L’unica mossa politica sulla scacchiera è del centrodestra, che propone i «senza tessera» Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. «Non sono nomi né di partito né di bandiera, è una terna che offriamo alla discussione sperando che non ci siano veti», sottolinea Matteo Salvini per bypassare la pretesa del Nazareno di definire super partes solo candidati del Pd. Giorgia Meloni aggiunge un po’ di storia a beneficio della bulimia gauchiste: «Gli ultimi quattro presidenti della Repubblica hanno una provenienza di sinistra; sarebbe giusto nel rispetto del principio di alternanza che il nuovo capo dello Stato possa avere un’appartenenza culturale diversa, tanto più in un Parlamento in cui il centrodestra ha la maggioranza relativa». Il magistrato berluscofobico (Oscar Luigi Scalfaro), il tecnocrate socialista (Carlo Azeglio Ciampi), l’ex leader comunista (Giorgio Napolitano), il mellifluo colonnello del Pd (Sergio Mattarella) non furono certo frutto di condivisione democratica.La volontà di proporre un candidato unitario è dimostrata dalle assenze partitiche nella lista di centrodestra; mancano Giulio Tremonti, Franco Frattini, Antonio Tajani, Elisabetta Casellati. Su quest’ultima il leader della Lega puntualizza: «Essendo attualmente in carica, ha già per questo la dignità e lo status per una possibile candidatura». Non è stato facile lasciar fuori Tajani, espressamente indicato da Silvio Berlusconi dopo il suo passo di lato, ma sul tema Salvini è lapidario: «Avrebbe i titoli ma non candidiamo dirigenti di partito». Nel transatlantico fibrillato aleggia la domanda: perché è scomparso Pier Ferdinando Casini? «Perché non è di centrodestra».Tutto perfetto, tutto secondo i patti, tutto inutile. Lo intuisce Andrea Cangini (Forza Italia): «Anche se proponessimo Benedetto Croce verrebbe bocciato». A metà pomeriggio Letta sembra ammorbidirsi: «Quelli proposti dal centrodestra sono nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale. Fra poco arriveranno i nostri». Giuseppe Conte è in sintonia: «Non diamo patenti di legittimità. Il centrodestra ha il diritto e il dovere di presentare proposte. Le valuteremo». Poi i leader di sinistra si incontrano e il clima si raffredda. «Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione necessaria in questo momento», è la nota congiunta. Roberto Speranza fa l’intellettuale: «Non serviva fare la guerra delle due rose». Così la coalizione grillodem non riesce a esprimerne mezzo candidato. Lo ritiene superfluo perché l’accoppiata c’è da sempre, ed è quella che vuole Bruxelles: Mattarella-Draghi. In barba alla sovranità, ai numeri, alla politica alta e ai traslochi da operetta. Come riserva c’è sempre l’equivicino Casini.Però chi ascolta i borbotti dei peones sa che Mario Draghi non scalda a sufficienza i cuori. Se l’elezione avvenisse nelle redazioni sarebbe l’imperatore della galassia, ma in Parlamento servono i voti. E magari un accordo politico sul prossimo governo, ipotesi lunare. In ogni caso Letta continua a tenere in piedi la statuetta del premier («Sono qui per proteggerlo, deve rimanere assolutamente nelle istituzioni del Paese») perché come al solito ce lo chiede l’Europa. La conferma arriva da una dichiarazione del commissario per il Bilancio, Johannes Hahn, che mette il naso nei nostri affari quirinalizi: «L’Europa ha tutto l’interesse affinché la situazione attuale continui perché vediamo che ci sono molte rassicurazioni e fiducia che i soldi del Recovery fund siano ben spesi». Conte liquida l’ipotesi Draghi al Colle con una metafora nautica: «È il timoniere del governo, non ci sono le condizioni per fermare i motori». In realtà piuttosto che vedere lassù l’uomo che lo sfrattò si butterebbe nel Tevere gelato. Salvini semplicemente chiude la porta: «Lavora bene a Palazzo Chigi». Il trasloco del premier rimane complicato per entrambi i blocchi. Centrodestra: Berlusconi e Meloni sono contrari, Giancarlo Giorgetti e i governatori a favore, Salvini tratta senza voler deludere nessuno. Centrosinistra: Letta e Renzi sì, piddini sparsi e Movimento 5 stelle fedele a Conte assolutamente no. Luigi Di Maio e i suoi 70 fedelissimi sì. E allora avanti con Bianca Scheda, per non uscire matti e prima di buttare via la chiave. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/centrodestra-cala-tris-asso-coperto-2656478838.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="letta-stizzisce-i-suoi-complicando-pure-il-cammino-di-draghi" data-post-id="2656478838" data-published-at="1643174668" data-use-pagination="False"> Letta stizzisce i suoi complicando pure il cammino di Draghi «Il nome del presidente della Repubblica non lo fanno i mercati, ma i rappresentanti del popolo»: quando Matteo Salvini pronuncia questa frase, nel corso dell’ennesima assemblea dei deputati della Lega, manca poco che ci scappi una ovazione. Il tema della giornata di ieri infatti è esattamente questo: il fronte del no all’ascesa al Colle di Mario Draghi è compatto, trasversale, determinato. Lega e Forza Italia (a parte Giancarlo Giorgetti e forse un paio di ministri di Fi) non ne vogliono sapere; Fratelli d’Italia ha come prima opzione votare un presidente di centrodestra; Italia viva accetterebbe Draghi al Colle solo se nascesse il famoso «governo dei leader»; nel Pd e nel M5s a fare i corazzieri di Draghi sono rimasti solo Enrico Letta e Luigi Di Maio; la sinistra non ne vuole sapere; tra i centristi di Coraggio Italia ci sono alcuni draghiani sparsi, ma Giovanni Toti è lapidario: «Nelle prossime ore i partiti devono decidere due cose: se si va su Draghi al Quirinale», dice il presidente della Liguria, «c’è da fare un accordo di governo, se invece si trova un altro nome bisogna che Draghi se ne faccia una ragione e continui a fare il presidente del Consiglio». Se uno come Toti, sempre felpato, suggerisce a Draghi, nel caso di una sua mancata elezione al Quirinale, di «farsene una ragione», e se Matteo Salvini si ribella alle ingerenze dei soliti «mercati» sulla elezione del capo dello Stato, vuol dire che la pressione che Nonno Mario sta esercitando sui partiti è altissima. «Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi ed è assolutamente importante averlo nelle istituzioni del Paese», si spinge a dire alla Cnbc Enrico Letta: una frase un po’ paradossale, pronunciata da chi dovrebbe più che altro fare il segretario del Pd: «Letta», dice alla Verità un esponente di primissimo piano dei dem, «ha spiegato che voleva dire che Draghi non va inserito nelle rose per il Colle, ma ci mancherebbe altro! Nel Pd le quotazioni del premier sono in caduta libera. Letta è andato da Draghi a chiedergli, in un eventuale nuovo governo da formare se il premier andasse al Colle, di cambiare la delegazione dei nostri ministri per inserire delle donne, e Draghi si è detto disponibile. Potete immaginare» aggiunge la nostra fonte, «la reazione dei ministri Lorenzo Guerini, Dario Franceschini e Andrea Orlando e di tutti i parlamentari di riferimento, praticamente il 90% della truppa. Tra l’altro l’idea che Draghi se non venisse eletto al Quirinale mollerebbe il governo è completamente infondata». Il fatto che anche Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, potente leader del correntone Base riformista, si sia spostato sul no a Draghi la dice lunga sul clima che si respira in Parlamento. Come andrà a finire? «Dipende da Salvini: se si decide a fare un nome che noi possiamo votare», risponde la nostra fonte dem, «come Casini o Amato, si chiude in mezza giornata». Se Letta piange, Conte non ride: Giuseppi è molto infastidito, per usare un eufemismo, dall’atteggiamento del segretario del Pd, che lavora solo e soltanto per Draghi, soluzione che al leader del M5s non va bene. Conte deve trovare una soluzione che salvaguardi innanzitutto la legislatura, poiché il pattuglione di deputati e senatori del M5s, la stragrande maggioranza dei quali ha la matematica certezza di non ritornare mai più a poggiare le pentastellate terga sulle poltrone vellutate del Parlamento, voterà esclusivamente in funzione di questo nobile e disinteressato obiettivo. Luigi Di Maio, da parte sua, continua a lavorare per Draghi, ma ha lo stesso identico problema: deve convincere i suoi che una ascesa del premier al Colle sia contestuale a un accordo su un nuovo governo. «Conte», confida alla Verità un esponente di peso del fronte giallorosso, «sta facendo circolare la voce della possibilità di un accordo con Salvini per smuovere Letta dalla posizione o Draghi o morte. Certo che se il segretario del Pd si intestardisce, Conte potrebbe convergere su un nome proposto dal centrodestra, ma certamente non su uno della terna». A proposto del centrodestra: Salvini continua a giocare su due tavoli. Per dare l’ok a Draghi aspetta il sì al ritorno del Viminale alla Lega, ma col passare delle ore questo primo forno sta per spegnersi definitivamente. Resta acceso il secondo: un nome di centrodestra al Colle, per la prima volta nella storia della Repubblica. Non a caso Salvini, Meloni e Tajani hanno escluso dalla rosa di nomi la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Quest’ultima è la carta di riserva da mettere in campo solo se altre votazioni andassero a vuoto. Mettere sul tavolo nel momento sbagliato il nome della Casellati, sulla quale il M5s potrebbe convergere avendola votata presidente del Senato, che ha già l’ok di molti parlamentari di Italia viva e che è apprezzata anche da alcuni senatori del Pd, sarebbe un errore clamoroso.
Negli anni Venti la radioattività diventò una moda. Sulla scia delle scoperte di Röntgen e dei coniugi Pierre e Marie Curie alla fine dell’Ottocento, l’utilizzo di elementi come il radio e il torio superò i confini della fisica e della radiodiagnostica per approdare nel mondo del commercio. Le sostanze radioattive furono esaltate per le presunte (e molto pubblicizzate) proprietà benefiche. I produttori di beni di consumo di tutto il mondo cavalcarono l’onda, utilizzandole liberamente per la realizzazione di cosmetici, integratori, oggetti di arredo e abbigliamento. La spinta verso la diffusione di prodotti a base di elementi radioattivi fu suggerita dalla scienza, ancora inconsapevole delle gravi conseguenze sulla salute riguardo al contatto di quelle sostanze sull’organismo umano. Iniziata soprattutto negli Stati Uniti, la moda investì presto anche l’Europa. Il caso più famoso è quello di un integratore venduto liberamente, il Radithor. Brevettato nel 1925 da William Bailey, consisteva in una bevanda integratore in boccetta la cui formula prevedeva acqua distillata con aggiunta di un microcurie di radio 226 e di radio 228. A seguito di un grande battage pubblicitario, la bevanda curativa ebbe larga diffusione. Per 5 anni fu disponibile sul mercato, fino allo scandalo nato dalla morte per avvelenamento da radio del famoso golfista Eben Byers, che in seguito ad un infortunio assunse tre boccette al giorno di Radithor che inizialmente sembravano rinvigorirlo. Grande scalpore fece poi il caso delle «Radium girls», le operaie del New Jersey che dipingevano a mano i quadranti di orologi e strumenti con vernice radioluminescente. Istruite ad inumidire i pennelli con la bocca, subirono grave avvelenamento da radio che generò tumori ossei incurabili. Prima di soccombere alla malattia le donne furono protagoniste di una class action molto seguita dai media, che aprì gli occhi all'opinione pubblica sui danni della radioattività sul corpo umano. A partire dalla metà degli anni ’30 la Fda vietò definitivamente la commercializzazione delle bevande radioattive. Nel frattempo però, la mania della radioattività benefica si era diffusa ovunque. Radio e torio erano presenti in creme di bellezza, dentifrici, dolciumi. Addirittura nell’abbigliamento, come pubblicizzava un marchio francese, che presentò in catalogo sottovesti invernali con tessuti radioattivati. Anche l’Italia mise in commercio prodotti con elementi radioattivi. La ditta torinese di saponi e creme Fratelli De Bernardi presentò nel 1923 la saponetta «Radia», arricchita con particelle di radio. Nello stesso periodo fu messa in commercio la «Fiala Pagliani», simile al Radithor, brevettata dal medico torinese Luigi Pagliani. Arricchita con Radon-222, la fiala detta «radioemanogena» era usata come una vera e propria panacea.
Fu la guerra, più che altri fattori, a generare il declino definitivo dei prodotti radioattivati. Le bombe atomiche del 1945 con le loro drammatiche conseguenze a lungo termine e la continua minaccia di guerra nucleare dei decenni seguenti, fecero comprendere ai consumatori la pericolosità delle radiazioni non controllate, escludendo quelle per scopi clinici. A partire dagli anni Sessanta sparirono praticamente tutti i prodotti a base di elementi radioattivi, vietati nello stesso periodo dalle leggi. Non si è a conoscenza del numero esatto di vittime dovuto all’uso di alimenti o oggetti, in quanto durante gli anni della loro massima diffusione non furono da subito identificati quali causa dei decessi.
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Addobbi natalizi a Senigallia (Marche) di notte (iStock)
ll profumo del frustingo e del vino cotto si mescola all’aria fredda, le luminarie illuminano i vicoli acciottolati già bui alle cinque del pomeriggio, gli addobbi e gli alberi di Natale decorano piazze e vetrine nei centri storici, mentre il rintocco delle campane e le musiche stile Jingle Bells fanno da colonna sonora a mercatini e presepi.
Dalle calme acque dell’Adriatico fino alle vette silenziose dell’Appennino, le Marche si trasformano nel periodo dell’Avvento. Diventano un teatro a cielo aperto sospeso tra memoria e meraviglia. In scena storie e tradizioni, colori e sapori di città e paesi che, vestiti a festa e allestiti a regola d’arte, sembrano volere raccontare la propria versione della magia natalizia, invitando a scoprirla, chiamando a viverla.
In una gara di soli vincenti, in uno spettacolo di soli protagonisti, piccole e grandi province marchigiane regalano tutte qualcosa di speciale. A partire da «Il Natale che non ti aspetti». Un evento diffuso che coinvolge fino al 6 gennaio una ventina di borghi tra Pesaro e Urbino. Da tranquilli centri diventano mondi incantati. Si animano e scendono in strada con mercatini artigianali, performance itineranti, giochi e giostre per far sognare adulti e bambini. Lo stesso succede con il «Grande Natale di Corinaldo», che accende di vita e di festa il piccolo borgo, tra i più belli d’Italia: spettacoli, mercatini, eventi, che toccano l’apice con la Festa conclusiva della Befana, il 6 gennaio. Altrettanto coinvolgente e forse ancor più suggestiva, «Candele a Candelara» (www.candelara.it; nell’immagine in alto a destra, scorci del borgo durante l’evento. Foto: Archivio fotografico Regione Marche - Associazione Turistica Pro Loco di Candelara APS).
Arrivata alla 22esima edizione, la festa delle fiammelle di cera va in scena nel borgo medievale vicino a Pesaro fino al 14 dicembre, con un calendario di eventi, visite guidate, attrazioni e divertimenti, oltre all’immancabile rito nel cuore del borgo. Qui ogni sera si spengono le luci artificiali per lasciare posto a migliaia di fiammelle tremolanti accese. Per qualche minuto tutto sembra sospeso: il tempo rallenta, il silenzio avvolge le vie, l’atmosfera si carica di poesia e la grande bellezza delle piccole cose semplici affiora e travolge.
Spostandosi ad Ancona con il naso all’insù, ecco che il periodo di Natale ha il passo della modernità che danza con la tradizione o, meglio, vola: una ruota panoramica alta trenta metri domina il centro, regalando una vista unica sul porto e sulla città illuminata. Da lassù si vedono i mercatini tra piazza Cavour e corso Garibaldi rimpicciolirsi e i fiumi di persone che girano per il centro diventare sinuose serpentine.
A Macerata e dintorni, invece, il Natale porta allegria, sulla scia della pista di pattinaggio su ghiaccio in piazza Cesare Battisti, dei villaggi di Babbo Natale che accolgono con renne ed elfi, e dei tanti mercatini che tentano il palato con dolci e salati, caldarroste e vin brulè, e attirano con prodotti perfetti da regalare a Natale. Mentre Fermo e Porto San Giorgio invitano a immergersi in compagnia in villaggi natalizi pieni di luci e mercatini, riscoprendo il valore dello stare insieme al di là dei display. Stessa cosa succede nella provincia di Ascoli Piceno, ma in una formula ancora più intensa, complice «Piceno Incantato», cartellone che raccoglie attorno a piazza Arringo concerti, gospel, villaggi natalizi, presepi artigianali e viventi. A proposito di presepi, da non perdere il Presepe di San Marco a Fano. Costruito nelle cantine settecentesche di Palazzo Fabbri, copre una superficie di ben 350 metri quadrati. Ed è composto da una cinquantina di diorami (scene), che riproducono episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, con più di 500 statue a movimenti meccanizzati creati ad hoc da maestri artigiani. Una rarità, ma soprattutto un’opera d’arte. Info: www.letsmarche.it
La tradizione è servita in tavola
Non solo olive ascolane. Nelle Marche, terra fertile e generosa, sono tante, tantissime le ricette e le specialità che imbandiscono la tavola, dando forse il meglio d’inverno. Ingredienti di stagione, sapori intensi, piatti robusti e vini corposi sposano a regola d’arte le temperature che si fanno via via più fredde, stuzzicando il palato e riscaldando l’atmosfera. Al bando diete e via libera a calorie e piatti di sostanza. Ecco che le cucine tornano a profumare di tradizione e la convivialità marchigiana diventa, più che un invito al ristorante, un rito semplice, lento e gustoso, servito in indirizzi intimi, curati, con prezzi e porzioni che a Milano e Roma si sognano, e incorniciato da colline morbide e pendii che guardano il mare.
Nel menù ingredienti semplici, genuini, figli di una terra che non ha mai tradito il legame con la stagionalità. Il brodetto, con le sue note calde e avvolgenti, diventa un abbraccio capace di scaldare e colorare le giornate più grigie. Le paste tirate a mano tornano protagoniste, con i vincisgrassi che la fanno da padrone. Imponente e generosa, questa pasta all’uovo, cotta al forno, stratificata con ragù ricco di carni miste e una vellutata besciamella, è un inno calorico alle tradizioni contadine e all’amore profondo per la cucina casalinga.
I cappelletti in brodo di cappone, piccoli scrigni di pasta fatta a mano con ripieno, immersi in un brodo fumante, riportano all’infanzia, ai pranzi delle feste, a un’idea di famiglia che non si lascia scalfire dal tempo. Nei camini e forni accesi, l’arrosto di maiale diffonde un profumo che vola nell’aria, mentre le erbe spontanee, raccolte nei campi addormentati dall’inverno, insaporiscono minestre e ripieni con un carattere rustico e sincero.
I formaggi stagionati, dalle tome ai pecorini più strutturati, raccontano il lavoro meticoloso dei casari, custodi di saperi antichi. E poi ci sono i legumi, piccoli tesori che diventano zuppe dense e nutrienti: ceci, cicerchie, fagioli che profumano di terra buona e di gesti lenti. E poi c’è la gioia della gola per eccellenza: il fritto misto all’ascolana. Che nel piatto presenta pezzi di carne e verdure avvolti in una pastella leggera e dorata che scrocchia a ogni morso, raccontando un’arte culinaria che sa essere golosa e raffinata al tempo stesso. Da accompagnare, senza esitazione, con un calice di Rosso Piceno o di Rosso Conero, che con i loro profumi avvolgenti e il tannino morbido sposano perfettamente le note decise di questo piatto. In alternativa la Lacrima di Morro d’Alba, vino locale, raro e aromatico, regala un tocco di originalità.
Non manca poi il carrello dei dessert. Sfilano veri tesori dolciari. Sul podio, in ordine sparso, il miele, prodotto con cura da apicoltori del territorio, il mitico frustingo, dolce natalizio a base di frutta secca e spezie, e i cavallucci, biscotti speziati che raccontano storie antiche e profumano le feste (e non solo). Da abbinare rigorosamente a un’altra specialità marchigiana: il vino cotto. Ottenuto dalla lenta riduzione del mosto d’uva, nel calice è una liquida e dolce coccola.
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