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2022-01-26
Il centrodestra cala un tris ma l’asso è coperto
Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio (Ansa)
«Chiudiamoci in una stanza a pane e acqua e buttiamo via la chiave fino a quando non esce un nome», dice Enrico Letta a sera, dopo averli rifiutati tutti e non averne indicato neppure uno. Più che un leader, una principessa sul pisello. Per ora l’unico nome che spacca è Bianca Scheda. Che esisteva veramente, faceva la contadina in Emilia e nel 1992 arrivò a prendere 917 voti. Qui si attesta attorno ai 600, segnale che la ricreazione non è finita. Eppure qualcosa si muove: il centrodestra lancia la sua rosa, il centrosinistra conferma l’abbraccio peloso allo status quo e l’Europa fa sapere che un’Italia politicamente immobile sarebbe l’ideale nel segno della stabilità.
L’unica mossa politica sulla scacchiera è del centrodestra, che propone i «senza tessera» Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. «Non sono nomi né di partito né di bandiera, è una terna che offriamo alla discussione sperando che non ci siano veti», sottolinea Matteo Salvini per bypassare la pretesa del Nazareno di definire super partes solo candidati del Pd. Giorgia Meloni aggiunge un po’ di storia a beneficio della bulimia gauchiste: «Gli ultimi quattro presidenti della Repubblica hanno una provenienza di sinistra; sarebbe giusto nel rispetto del principio di alternanza che il nuovo capo dello Stato possa avere un’appartenenza culturale diversa, tanto più in un Parlamento in cui il centrodestra ha la maggioranza relativa». Il magistrato berluscofobico (Oscar Luigi Scalfaro), il tecnocrate socialista (Carlo Azeglio Ciampi), l’ex leader comunista (Giorgio Napolitano), il mellifluo colonnello del Pd (Sergio Mattarella) non furono certo frutto di condivisione democratica.
La volontà di proporre un candidato unitario è dimostrata dalle assenze partitiche nella lista di centrodestra; mancano Giulio Tremonti, Franco Frattini, Antonio Tajani, Elisabetta Casellati. Su quest’ultima il leader della Lega puntualizza: «Essendo attualmente in carica, ha già per questo la dignità e lo status per una possibile candidatura». Non è stato facile lasciar fuori Tajani, espressamente indicato da Silvio Berlusconi dopo il suo passo di lato, ma sul tema Salvini è lapidario: «Avrebbe i titoli ma non candidiamo dirigenti di partito». Nel transatlantico fibrillato aleggia la domanda: perché è scomparso Pier Ferdinando Casini? «Perché non è di centrodestra».
Tutto perfetto, tutto secondo i patti, tutto inutile. Lo intuisce Andrea Cangini (Forza Italia): «Anche se proponessimo Benedetto Croce verrebbe bocciato». A metà pomeriggio Letta sembra ammorbidirsi: «Quelli proposti dal centrodestra sono nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale. Fra poco arriveranno i nostri». Giuseppe Conte è in sintonia: «Non diamo patenti di legittimità. Il centrodestra ha il diritto e il dovere di presentare proposte. Le valuteremo». Poi i leader di sinistra si incontrano e il clima si raffredda. «Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione necessaria in questo momento», è la nota congiunta. Roberto Speranza fa l’intellettuale: «Non serviva fare la guerra delle due rose». Così la coalizione grillodem non riesce a esprimerne mezzo candidato. Lo ritiene superfluo perché l’accoppiata c’è da sempre, ed è quella che vuole Bruxelles: Mattarella-Draghi. In barba alla sovranità, ai numeri, alla politica alta e ai traslochi da operetta. Come riserva c’è sempre l’equivicino Casini.
Però chi ascolta i borbotti dei peones sa che Mario Draghi non scalda a sufficienza i cuori. Se l’elezione avvenisse nelle redazioni sarebbe l’imperatore della galassia, ma in Parlamento servono i voti. E magari un accordo politico sul prossimo governo, ipotesi lunare. In ogni caso Letta continua a tenere in piedi la statuetta del premier («Sono qui per proteggerlo, deve rimanere assolutamente nelle istituzioni del Paese») perché come al solito ce lo chiede l’Europa. La conferma arriva da una dichiarazione del commissario per il Bilancio, Johannes Hahn, che mette il naso nei nostri affari quirinalizi: «L’Europa ha tutto l’interesse affinché la situazione attuale continui perché vediamo che ci sono molte rassicurazioni e fiducia che i soldi del Recovery fund siano ben spesi».
Conte liquida l’ipotesi Draghi al Colle con una metafora nautica: «È il timoniere del governo, non ci sono le condizioni per fermare i motori». In realtà piuttosto che vedere lassù l’uomo che lo sfrattò si butterebbe nel Tevere gelato. Salvini semplicemente chiude la porta: «Lavora bene a Palazzo Chigi». Il trasloco del premier rimane complicato per entrambi i blocchi. Centrodestra: Berlusconi e Meloni sono contrari, Giancarlo Giorgetti e i governatori a favore, Salvini tratta senza voler deludere nessuno. Centrosinistra: Letta e Renzi sì, piddini sparsi e Movimento 5 stelle fedele a Conte assolutamente no. Luigi Di Maio e i suoi 70 fedelissimi sì. E allora avanti con Bianca Scheda, per non uscire matti e prima di buttare via la chiave.
Letta stizzisce i suoi complicando pure il cammino di Draghi
«Il nome del presidente della Repubblica non lo fanno i mercati, ma i rappresentanti del popolo»: quando Matteo Salvini pronuncia questa frase, nel corso dell’ennesima assemblea dei deputati della Lega, manca poco che ci scappi una ovazione. Il tema della giornata di ieri infatti è esattamente questo: il fronte del no all’ascesa al Colle di Mario Draghi è compatto, trasversale, determinato. Lega e Forza Italia (a parte Giancarlo Giorgetti e forse un paio di ministri di Fi) non ne vogliono sapere; Fratelli d’Italia ha come prima opzione votare un presidente di centrodestra; Italia viva accetterebbe Draghi al Colle solo se nascesse il famoso «governo dei leader»; nel Pd e nel M5s a fare i corazzieri di Draghi sono rimasti solo Enrico Letta e Luigi Di Maio; la sinistra non ne vuole sapere; tra i centristi di Coraggio Italia ci sono alcuni draghiani sparsi, ma Giovanni Toti è lapidario: «Nelle prossime ore i partiti devono decidere due cose: se si va su Draghi al Quirinale», dice il presidente della Liguria, «c’è da fare un accordo di governo, se invece si trova un altro nome bisogna che Draghi se ne faccia una ragione e continui a fare il presidente del Consiglio». Se uno come Toti, sempre felpato, suggerisce a Draghi, nel caso di una sua mancata elezione al Quirinale, di «farsene una ragione», e se Matteo Salvini si ribella alle ingerenze dei soliti «mercati» sulla elezione del capo dello Stato, vuol dire che la pressione che Nonno Mario sta esercitando sui partiti è altissima. «Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi ed è assolutamente importante averlo nelle istituzioni del Paese», si spinge a dire alla Cnbc Enrico Letta: una frase un po’ paradossale, pronunciata da chi dovrebbe più che altro fare il segretario del Pd: «Letta», dice alla Verità un esponente di primissimo piano dei dem, «ha spiegato che voleva dire che Draghi non va inserito nelle rose per il Colle, ma ci mancherebbe altro! Nel Pd le quotazioni del premier sono in caduta libera. Letta è andato da Draghi a chiedergli, in un eventuale nuovo governo da formare se il premier andasse al Colle, di cambiare la delegazione dei nostri ministri per inserire delle donne, e Draghi si è detto disponibile. Potete immaginare» aggiunge la nostra fonte, «la reazione dei ministri Lorenzo Guerini, Dario Franceschini e Andrea Orlando e di tutti i parlamentari di riferimento, praticamente il 90% della truppa. Tra l’altro l’idea che Draghi se non venisse eletto al Quirinale mollerebbe il governo è completamente infondata». Il fatto che anche Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, potente leader del correntone Base riformista, si sia spostato sul no a Draghi la dice lunga sul clima che si respira in Parlamento. Come andrà a finire? «Dipende da Salvini: se si decide a fare un nome che noi possiamo votare», risponde la nostra fonte dem, «come Casini o Amato, si chiude in mezza giornata».
Se Letta piange, Conte non ride: Giuseppi è molto infastidito, per usare un eufemismo, dall’atteggiamento del segretario del Pd, che lavora solo e soltanto per Draghi, soluzione che al leader del M5s non va bene. Conte deve trovare una soluzione che salvaguardi innanzitutto la legislatura, poiché il pattuglione di deputati e senatori del M5s, la stragrande maggioranza dei quali ha la matematica certezza di non ritornare mai più a poggiare le pentastellate terga sulle poltrone vellutate del Parlamento, voterà esclusivamente in funzione di questo nobile e disinteressato obiettivo. Luigi Di Maio, da parte sua, continua a lavorare per Draghi, ma ha lo stesso identico problema: deve convincere i suoi che una ascesa del premier al Colle sia contestuale a un accordo su un nuovo governo. «Conte», confida alla Verità un esponente di peso del fronte giallorosso, «sta facendo circolare la voce della possibilità di un accordo con Salvini per smuovere Letta dalla posizione o Draghi o morte. Certo che se il segretario del Pd si intestardisce, Conte potrebbe convergere su un nome proposto dal centrodestra, ma certamente non su uno della terna».
A proposto del centrodestra: Salvini continua a giocare su due tavoli. Per dare l’ok a Draghi aspetta il sì al ritorno del Viminale alla Lega, ma col passare delle ore questo primo forno sta per spegnersi definitivamente. Resta acceso il secondo: un nome di centrodestra al Colle, per la prima volta nella storia della Repubblica. Non a caso Salvini, Meloni e Tajani hanno escluso dalla rosa di nomi la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Quest’ultima è la carta di riserva da mettere in campo solo se altre votazioni andassero a vuoto. Mettere sul tavolo nel momento sbagliato il nome della Casellati, sulla quale il M5s potrebbe convergere avendola votata presidente del Senato, che ha già l’ok di molti parlamentari di Italia viva e che è apprezzata anche da alcuni senatori del Pd, sarebbe un errore clamoroso.
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Candidati per il Colle Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio. Pd e M5s: «Nomi di qualità però ve li bocciamo. Incontriamoci». A sinistra perde quota l’ipotesi Mario Draghi. Enrico Letta (e l’Ue) ripropongono il Mattarella bis. Intanto è scheda bianca.Il leader del Pd va dal banchiere e chiede più donne al governo: furiosi i ministri dem. E ora il partito diviso è un ostacolo alle trattative.Lo speciale contiene due articoli.«Chiudiamoci in una stanza a pane e acqua e buttiamo via la chiave fino a quando non esce un nome», dice Enrico Letta a sera, dopo averli rifiutati tutti e non averne indicato neppure uno. Più che un leader, una principessa sul pisello. Per ora l’unico nome che spacca è Bianca Scheda. Che esisteva veramente, faceva la contadina in Emilia e nel 1992 arrivò a prendere 917 voti. Qui si attesta attorno ai 600, segnale che la ricreazione non è finita. Eppure qualcosa si muove: il centrodestra lancia la sua rosa, il centrosinistra conferma l’abbraccio peloso allo status quo e l’Europa fa sapere che un’Italia politicamente immobile sarebbe l’ideale nel segno della stabilità.L’unica mossa politica sulla scacchiera è del centrodestra, che propone i «senza tessera» Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. «Non sono nomi né di partito né di bandiera, è una terna che offriamo alla discussione sperando che non ci siano veti», sottolinea Matteo Salvini per bypassare la pretesa del Nazareno di definire super partes solo candidati del Pd. Giorgia Meloni aggiunge un po’ di storia a beneficio della bulimia gauchiste: «Gli ultimi quattro presidenti della Repubblica hanno una provenienza di sinistra; sarebbe giusto nel rispetto del principio di alternanza che il nuovo capo dello Stato possa avere un’appartenenza culturale diversa, tanto più in un Parlamento in cui il centrodestra ha la maggioranza relativa». Il magistrato berluscofobico (Oscar Luigi Scalfaro), il tecnocrate socialista (Carlo Azeglio Ciampi), l’ex leader comunista (Giorgio Napolitano), il mellifluo colonnello del Pd (Sergio Mattarella) non furono certo frutto di condivisione democratica.La volontà di proporre un candidato unitario è dimostrata dalle assenze partitiche nella lista di centrodestra; mancano Giulio Tremonti, Franco Frattini, Antonio Tajani, Elisabetta Casellati. Su quest’ultima il leader della Lega puntualizza: «Essendo attualmente in carica, ha già per questo la dignità e lo status per una possibile candidatura». Non è stato facile lasciar fuori Tajani, espressamente indicato da Silvio Berlusconi dopo il suo passo di lato, ma sul tema Salvini è lapidario: «Avrebbe i titoli ma non candidiamo dirigenti di partito». Nel transatlantico fibrillato aleggia la domanda: perché è scomparso Pier Ferdinando Casini? «Perché non è di centrodestra».Tutto perfetto, tutto secondo i patti, tutto inutile. Lo intuisce Andrea Cangini (Forza Italia): «Anche se proponessimo Benedetto Croce verrebbe bocciato». A metà pomeriggio Letta sembra ammorbidirsi: «Quelli proposti dal centrodestra sono nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale. Fra poco arriveranno i nostri». Giuseppe Conte è in sintonia: «Non diamo patenti di legittimità. Il centrodestra ha il diritto e il dovere di presentare proposte. Le valuteremo». Poi i leader di sinistra si incontrano e il clima si raffredda. «Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione necessaria in questo momento», è la nota congiunta. Roberto Speranza fa l’intellettuale: «Non serviva fare la guerra delle due rose». Così la coalizione grillodem non riesce a esprimerne mezzo candidato. Lo ritiene superfluo perché l’accoppiata c’è da sempre, ed è quella che vuole Bruxelles: Mattarella-Draghi. In barba alla sovranità, ai numeri, alla politica alta e ai traslochi da operetta. Come riserva c’è sempre l’equivicino Casini.Però chi ascolta i borbotti dei peones sa che Mario Draghi non scalda a sufficienza i cuori. Se l’elezione avvenisse nelle redazioni sarebbe l’imperatore della galassia, ma in Parlamento servono i voti. E magari un accordo politico sul prossimo governo, ipotesi lunare. In ogni caso Letta continua a tenere in piedi la statuetta del premier («Sono qui per proteggerlo, deve rimanere assolutamente nelle istituzioni del Paese») perché come al solito ce lo chiede l’Europa. La conferma arriva da una dichiarazione del commissario per il Bilancio, Johannes Hahn, che mette il naso nei nostri affari quirinalizi: «L’Europa ha tutto l’interesse affinché la situazione attuale continui perché vediamo che ci sono molte rassicurazioni e fiducia che i soldi del Recovery fund siano ben spesi». Conte liquida l’ipotesi Draghi al Colle con una metafora nautica: «È il timoniere del governo, non ci sono le condizioni per fermare i motori». In realtà piuttosto che vedere lassù l’uomo che lo sfrattò si butterebbe nel Tevere gelato. Salvini semplicemente chiude la porta: «Lavora bene a Palazzo Chigi». Il trasloco del premier rimane complicato per entrambi i blocchi. Centrodestra: Berlusconi e Meloni sono contrari, Giancarlo Giorgetti e i governatori a favore, Salvini tratta senza voler deludere nessuno. Centrosinistra: Letta e Renzi sì, piddini sparsi e Movimento 5 stelle fedele a Conte assolutamente no. Luigi Di Maio e i suoi 70 fedelissimi sì. 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Lega e Forza Italia (a parte Giancarlo Giorgetti e forse un paio di ministri di Fi) non ne vogliono sapere; Fratelli d’Italia ha come prima opzione votare un presidente di centrodestra; Italia viva accetterebbe Draghi al Colle solo se nascesse il famoso «governo dei leader»; nel Pd e nel M5s a fare i corazzieri di Draghi sono rimasti solo Enrico Letta e Luigi Di Maio; la sinistra non ne vuole sapere; tra i centristi di Coraggio Italia ci sono alcuni draghiani sparsi, ma Giovanni Toti è lapidario: «Nelle prossime ore i partiti devono decidere due cose: se si va su Draghi al Quirinale», dice il presidente della Liguria, «c’è da fare un accordo di governo, se invece si trova un altro nome bisogna che Draghi se ne faccia una ragione e continui a fare il presidente del Consiglio». Se uno come Toti, sempre felpato, suggerisce a Draghi, nel caso di una sua mancata elezione al Quirinale, di «farsene una ragione», e se Matteo Salvini si ribella alle ingerenze dei soliti «mercati» sulla elezione del capo dello Stato, vuol dire che la pressione che Nonno Mario sta esercitando sui partiti è altissima. «Il mio ruolo è proteggere Mario Draghi ed è assolutamente importante averlo nelle istituzioni del Paese», si spinge a dire alla Cnbc Enrico Letta: una frase un po’ paradossale, pronunciata da chi dovrebbe più che altro fare il segretario del Pd: «Letta», dice alla Verità un esponente di primissimo piano dei dem, «ha spiegato che voleva dire che Draghi non va inserito nelle rose per il Colle, ma ci mancherebbe altro! Nel Pd le quotazioni del premier sono in caduta libera. Letta è andato da Draghi a chiedergli, in un eventuale nuovo governo da formare se il premier andasse al Colle, di cambiare la delegazione dei nostri ministri per inserire delle donne, e Draghi si è detto disponibile. Potete immaginare» aggiunge la nostra fonte, «la reazione dei ministri Lorenzo Guerini, Dario Franceschini e Andrea Orlando e di tutti i parlamentari di riferimento, praticamente il 90% della truppa. Tra l’altro l’idea che Draghi se non venisse eletto al Quirinale mollerebbe il governo è completamente infondata». Il fatto che anche Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, potente leader del correntone Base riformista, si sia spostato sul no a Draghi la dice lunga sul clima che si respira in Parlamento. Come andrà a finire? «Dipende da Salvini: se si decide a fare un nome che noi possiamo votare», risponde la nostra fonte dem, «come Casini o Amato, si chiude in mezza giornata». Se Letta piange, Conte non ride: Giuseppi è molto infastidito, per usare un eufemismo, dall’atteggiamento del segretario del Pd, che lavora solo e soltanto per Draghi, soluzione che al leader del M5s non va bene. Conte deve trovare una soluzione che salvaguardi innanzitutto la legislatura, poiché il pattuglione di deputati e senatori del M5s, la stragrande maggioranza dei quali ha la matematica certezza di non ritornare mai più a poggiare le pentastellate terga sulle poltrone vellutate del Parlamento, voterà esclusivamente in funzione di questo nobile e disinteressato obiettivo. Luigi Di Maio, da parte sua, continua a lavorare per Draghi, ma ha lo stesso identico problema: deve convincere i suoi che una ascesa del premier al Colle sia contestuale a un accordo su un nuovo governo. «Conte», confida alla Verità un esponente di peso del fronte giallorosso, «sta facendo circolare la voce della possibilità di un accordo con Salvini per smuovere Letta dalla posizione o Draghi o morte. Certo che se il segretario del Pd si intestardisce, Conte potrebbe convergere su un nome proposto dal centrodestra, ma certamente non su uno della terna». A proposto del centrodestra: Salvini continua a giocare su due tavoli. Per dare l’ok a Draghi aspetta il sì al ritorno del Viminale alla Lega, ma col passare delle ore questo primo forno sta per spegnersi definitivamente. Resta acceso il secondo: un nome di centrodestra al Colle, per la prima volta nella storia della Repubblica. Non a caso Salvini, Meloni e Tajani hanno escluso dalla rosa di nomi la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Quest’ultima è la carta di riserva da mettere in campo solo se altre votazioni andassero a vuoto. Mettere sul tavolo nel momento sbagliato il nome della Casellati, sulla quale il M5s potrebbe convergere avendola votata presidente del Senato, che ha già l’ok di molti parlamentari di Italia viva e che è apprezzata anche da alcuni senatori del Pd, sarebbe un errore clamoroso.
Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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Massimo Giannini (Ansa)
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il professor Lorenzo Castellani, ricercatore e docente di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss di Roma, nonché autore di Eminenze grigie. Uomini all’ombra del potere (2024), su X sintetizza così: «Checco Zalone ha spianato i petulanti stand up comedian (quasi tutti «impegnati» a sinistra); Corona sfida i media tradizionali con un linguaggio da uomo qualunque e fa decine di milioni di visualizzazioni; la Zanzara riempie i teatri ed è la trasmissione più ascoltata del Paese. Si è detto per anni che la sinistra sia egemone nell’alta cultura (vero, diciamo, all’80%), ma la «non-sinistra» (non la chiamerei semplicemente destra) ha interamente in mano la cultura e il linguaggio popolare».
Professor Castellani, quindi vorrebbe dirci che la cultura non è più solo ad appannaggio della sinistra?
«Se guardiamo alle istituzioni della cultura ovvero ai luoghi ufficiali della stessa è sempre la sinistra a primeggiare. Ma se guardiamo alla cultura in senso ampio, allora cambia tutto. L’alta cultura è predominante nelle istituzioni ufficiali della sinistra ma in altri ambiti l’ideologia di sinistra viene sconfitta da altre manifestazioni culturali che incontrano di più i gusti del Paese».
Si riferisce a Zalone?
«Certo, anche. Zalone è sempre stato apolitico, non ha mai ceduto al politicamente corretto. Fa un cinema che fa riflettere e non vuole indottrinare nessuno, non fa moralismi a senso unico come capita ad altri tipi di comicità di sinistra».
Sanremo è di destra o di sinistra? A volte legare la politica a certe forme di spettacolo non fa scadere nel ridicolo?
«Anche a Sanremo non c’è più una forma di piena differenziazione tra alta cultura e cultura nazionale popolare. A me piace parlare di cultura in senso ampio, non solo di alta cultura, la “Kultur alla tedesca”, che permea nel popolo e permette riflessioni ampie».
Di che tipo?
«Sembra sempre ci sia questa contrapposizione tra il mondo dell’alta cultura, cinema, teatri, fondazioni, fiere del libro, case editrici, think tank nelle università, dove c’è oggettivamente sempre il predominio della sinistra, del mondo progressista, nelle sue varie sfaccettature, e grandi fenomeni di cultura di massa dove prevale l’esatto contrario rispetto all’etica progressista e a quell’atteggiamento pedagogico-educativo e moralistico che il mondo di sinistra tende ad avere nei confronti del popolo. L’idea di fondo della sinistra è stata sempre quella che bisogna civilizzare gli italiani e portarli con la mano come bimbi verso comportamenti più virtuosi».
Ma oggi non è più così. Ci sono vari altri casi giusto?
«Esatto, abbiamo un Fabrizio Corona che su YouTube, con un linguaggio molto politicamente scorretto, attacca il potere in tutte le sue forme e ha un successo enorme. Lo fa in maniera qualunquistica ma è questo che piace alla gente. Si occupa di questioni di cultura di massa, fenomeni che riguardano il crime, il trash, che non rientrano certamente nell’alta cultura ma che creano fenomeni di massa che hanno più visibilità e rilevanza di certi argomenti che trattano tv o giornali».
E non è il solo.
«La Zanzara, che adesso riempie anche i teatri e che offre un interessante esperimento sociale. Cruciani e Parenzo sostengono tutto il contrario del catechismo del politicamente corretto, sicuramente molto al di fuori dei perimetri della cultura ufficiale di sinistra. Ma per questo funziona ed è un fenomeno molto partecipato».
Anche dalla sinistra stessa presumo.
«Certo. Io ci sono andato ed è pieno di studenti della mia università, dirigenti d’azienda, professori, è un fenomeno trasversale che ha conquistato pezzi della classe dirigente».
Insomma, la presunta alta cultura della sinistra è in crisi perché risulta noiosa al grande pubblico?
«Sicuramente la cultura in senso ampio arriva di più alla gente».
Un po’ come in politica?
«Certi politici usano linguaggi più semplici e diretti e vengono capiti più facilmente. È quello che succedeva a Grillo e oggi alla Meloni. Ci sono fenomeni di massa che vengono seguiti da milioni persone e che rigettano l’idea che ci sia una rigida morale comportamentale linguistica da seguire che invece appartiene alla sinistra».
Anche nella musica?
«Certo, le canzoni che hanno avuto più successo negli ultimi anni sono quelle vicine al genere trap, che parlano di consumismo, esaltano il machismo, usano linguaggi volgari e una completa assenza di morale, nulla a che fare con il mondo progressista. Però quelle canzoni arrivano e funzionano. Tanto è vero che anche Sorrentino nel suo ultimo film ha dato un ruolo centrale a Gue Pequeno e alle sue canzoni che fa cantare anche a Servillo».
Quindi la cultura appartenuta da sempre alla sinistra è in caduta perché non arriva più alla gente comune?
«Non credo che la destra debba sfidare la sinistra sull’alta cultura. Però penso che siano in atto nella cultura popolare di massa delle forme di anti-progressismo e anarchismo, dei movimenti spontanei che sono in contrasto con l’alta cultura principalmente di sinistra e che vengono maggiormente capiti dalla gente e da qui il loro enorme successo. C’è questo contrasto tra cultura ufficiale e quella di massa nazional popolare; due mondi che sembrano non parlarsi.
Per la sinistra è come un boomerang?
«In effetti il tentativo di indottrinare della sinistra ha prodotto una reazione ancor più forte nella destra. Più la sinistra ha cercato di catechizzare la gente, più questi fenomeni sono cresciuti. La regola di doversi comportare in un certo modo, oggi è più fallita che mai».
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