
Il leader turco punta a delegittimare il ruolo dell'Unione, Germania in testa. Il petrolio intanto schizza alle stelle per i pozzi chiusi da Khalifa Haftar, che minaccia: «Salpati per l'Italia 41 terroristi». Ad appena poche ore dalla fine della conferenza di Berlino, già l'accordo sulla crisi libica inizia parzialmente a scricchiolare: il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, non ha esitato a mettere i suoi paletti. In primo luogo, il Sultano ha inferto uno schiaffo all'Unione europea: «Visto che è coinvolta l'Onu, non è corretto che l'Ue intervenga come coordinatore del processo di pace», ha dichiarato. Quest'affermazione costituisce una doccia fredda soprattutto per Italia e Germania, che negli scorsi giorni avevano rivendicato una sorta di centralità nella stabilizzazione dello scacchiere libico. Ma non è finita qui. Il presidente turco ha anche aggiunto: «La presenza della Turchia in Libia ha aumentato le speranze di pace. I passi che abbiamo compiuto hanno portato un equilibrio al processo. Continueremo a supportare un processo politico sia sul terreno sia al tavolo delle trattative. La Turchia è la chiave per la pace». Dichiarazione un po' sibillina, che pare tuttavia stridere non poco con l'auspicio, espresso a Berlino, di interrompere le interferenze straniere nello scenario libico. Insomma, il Sultano ha nei fatti rafforzato la propria influenza economica e geopolitica su Tripoli, soprattutto dopo che il premier libico, Fayez Al Serraj, aveva domenica scorsa manifestato tutta la sua irritazione verso gli europei. Ankara mira sempre più a considerare la Tripolitania come un proprio protettorato, da cui vuole escludere eventuali intromissioni del Vecchio Continente. È probabilmente anche in questo senso che deve leggersi l'invocazione turca del Palazzo di Vetro: istituzione sempre più debole, che nei fatti farà molta fatica a contenere l'influenza di Erdogan in quel di Tripoli. Non va d'altronde dimenticato come - storicamente - fosse Serraj il «candidato» dell'Onu: un leader che ha tuttavia potuto fare ben poco, prima del sostegno turco.Dall'altra parte, Khalifa Haftar non sembra restare con le mani in mano. Le forze del generale hanno bloccato domenica due grandi giacimenti petroliferi nel Sud Ovest della nazione, provocando un'impennata dei prezzi del greggio. Una mossa diretta a colpire economicamente Tripoli (che parla di «situazione catastrofica») ed esercitare pressioni sugli europei. Tra l'altro, secondo i beninformati, sembrerebbe che alcuni dei principali sponsor regionali di Haftar (soprattutto gli Emirati Arabi Uniti) lo stiano spingendo a non interrompere il proprio approccio bellicoso. La situazione resta quindi significativamente tesa. E la stessa istituzione del comitato congiunto che dovrebbe sovrintendere al cessate il fuoco potrebbe alla fine non produrre troppi risultati (non a caso parrebbe siano ripresi dei combattimenti a sud di Tripoli). Del resto, l'altro ieri il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, lamentava l'assenza di un dialogo serio tra Serraj e Haftar. Tra l'altro, il petrolio non costituisce l'unica arma di pressione approntata dal generale della Cirenaica. Pochi giorni fa, l'Esercito nazionale libico ha dichiarato che oltre 41 terroristi siriani avrebbero lasciato le coste tripolitane per dirigersi verso l'Italia, grazie all'aiuto di scafisti appoggiati dal governo di accordo nazionale. È chiaro che Haftar voglia presentarsi agli occhi degli europei come l'uomo forte in grado di bloccare i flussi migratori verso nord, ma c'è dell'altro. Non è infatti un mistero che il maresciallo abbia sempre stigmatizzato la vicinanza di Serraj alle sigle islamiste e - soprattutto - ai Fratelli musulmani, a loro volta sostenuti dalla Turchia. Per scrollarsi di dosso le accuse di vicinanza al radicalismo, Erdogan ha recentemente pubblicato un editoriale su Politico, in cui ha tuonato che un eventuale crollo del governo di Serraj creerebbe terreno florido per il terrorismo. Se (per ora) gli Stati Uniti sembrano disposti alle sole dichiarazioni di principio, la Russia mantiene un basso profilo ma non è escludibile che, nel lungo termine, punti a una spartizione del territorio libico con Ankara. Una spartizione - magari - con il benestare più o meno tacito di Washington. Le tensioni di cui abbiamo infatti parlato rendono oggettivamente difficile mantenere quell'integrità territoriale, auspicata dall'intesa di Berlino. Tutto questo, mentre ieri la Germania ha annunciato che a febbraio si terrà una nuova conferenza nella capitale tedesca: ma non è al momento chiaro se verranno affrontate le questioni delle sigle islamiste e del ruolo incarnato dalle tribù. Elementi che dovrebbero essere considerati in vista di una soluzione della crisi.In tutto questo, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è recato ieri in Qatar, monarchia al centro di complicatissime dinamiche geopolitiche. Molto vicina agli Stati Uniti, Doha è altrettanto vicina ad Ankara nel sostegno alla Fratellanza musulmana e - venendo alla crisi libica - al governo di Tripoli. Senza poi trascurare i suoi legami con l'Iran: legami che rendono il Qatar un crocevia fondamentale nel dipanarsi della crisi attualmente in corso tra Washington e Teheran. La parziale distensione che si è di recente verificata fra Doha e i sauditi potrebbe aprire scenari interessanti, portando magari il Qatar a rompere con la Fratellanza e conseguentemente a raffreddare i rapporti con Ankara: un fattore che avrebbe delle ripercussioni anche sul teatro libico (visto il sostegno dei sauditi a Khalifa Haftar). Si tratta ovviamente di prospettive non ancora consolidate, ma su cui bisogna comunque riflettere con estrema attenzione.
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