2024-12-28
Cecilia Sala è in carcere a Teheran. L’ombra di una ritorsione iraniana
La giornalista in isolamento nella terribile prigione di Evin. Ignote per ora le accuse, la Farnesina è al lavoro. La vicenda potrebbe avere a che fare con il fermo a Malpensa, pochi giorni fa, di un uomo legato ai Pasdaran.Ora alcuni colleghi dicono che la concessione di un visto giornalistico da ben otto giorni, quando di solito i giorni autorizzati sono di meno, avrebbe dovuto insospettirla. Che non sarebbe dovuta partire. E che Cecilia Sala, la giornalista di Chora Media (che produce podcast) e del Foglio, sarebbe finita in una trappola. Tant’è che il suo ultimo podcast comincia proprio con queste parole: «È un posto (l’Iran, ndr) dove l’accesso per i giornalisti può essere complicato». Abituata a muoversi nelle aree più calde del mondo, era partita per l’Iran giovedì 12 dicembre con un volo da Roma e con il suo visto giornalistico da otto giorni, rinnovabile. Sarebbe dovuta rientrare in Italia il 20, ma qualcosa è andato terribilmente storto. La mattina del 19, dopo alcuni messaggi scambiati con i colleghi, il suo telefono si è spento, e da quel momento si sono perse le sue tracce. La giornalista è stata arrestata nell’hotel in cui alloggiava a Teheran ed è detenuta nel famigerato carcere di Evin. Un nome che fa rabbrividire. È il carcere in cui vengono rinchiusi dissidenti, intellettuali e studenti. Un luogo simbolo della repressione, già noto per aver ospitato la travel blogger Alessia Piperno, prigioniera per 45 giorni, che ora ricorda: «Non sappiamo se Cecilia si trovi nello stesso settore in cui ero io, il 209, che è il peggiore, oppure nel 2A. Nel 209 non ci sono letti, si dorme a terra. Il problema principale però non è di tipo fisico, a noi stranieri non torcono un capello, ma mentalmente ti provano molto». E infatti la Sezione 209 è sospettata di essere gestita dal ministero dell’Interno ed è l’ala del carcere nella quale è più dura la mano del regime. I detenuti che hanno vissuto quest’esperienza hanno raccontato di essere stati bendati e portati in un seminterrato dove si trovano una novantina di celle su più file. La luce rimane accesa 24 su 24 e in ogni cella c’è solo una piccola finestra. Era finita lì anche Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace. Cecilia, conferma la Farnesina, è in isolamento. La notizia è stata diffusa solo ieri, nella speranza che la diplomazia potesse risolvere rapidamente il caso. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha assicurato che «fin dal primo giorno tutto il governo si è mosso». Poi ha aggiunto che «le trattative con l’Iran non si risolvono, purtroppo, con il coinvolgimento dell’opinione pubblica occidentale e con la forza dello sdegno popolare ma solo con un’azione politica e diplomatica di alto livello». Al momento però non se ne conoscono i contorni. Come le accuse. Per ora fumose e non formalizzate. Il viaggio di Cecilia era cominciato con le migliori intenzioni. Aveva già realizzato per Chora media una serie di interviste, prodotto tre puntate del suo podcast Stories, raccontando vicende coraggiose per descrivere il patriarcato oppressivo in Iran e l’arresto della comica Zeinab Musavi per i suoi spettacoli satirici. Ma il 19 dicembre tutto si è interrotto. La prima notizia dell’arresto è arrivata attraverso una telefonata concessa a sua madre, poche parole: «Sono stata arrestata, sono in carcere». Poi il silenzio. Farnesina e Unità di crisi hanno subito avviato un dialogo con le autorità iraniane. «Non sono ancora chiare le imputazioni», ha detto al Tg4 il ministro degli Esteri, Antonio Tajani: «Noi è dal giorno del fermo che stiamo seguendo la vicenda, la nostra ambasciata a Teheran e il nostro consolato minuto per minuto sono in contatto con il ministero degli Esteri di Teheran. C’è stata una lunga visita consolare da parte della nostra ambasciatrice, Paola Amadei, che è stata più di mezz’ora con la giornalista fermata e l’ha trovata in buone condizioni di salute». Le dinamiche dell’arresto restano oscure. «Conoscendo Cecilia, che ha sempre mandato gli audio per le puntate del podcast con estrema puntualità anche dal fronte ucraino nei momenti più difficili», fanno sapere da Chora Media, «ci siamo preoccupati e, insieme al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri, abbiamo allertato l’Unita di crisi del ministero degli Esteri. Abbiamo chiamato i suoi contatti iraniani, ma nessuno sapeva dove fosse finita. La mattina di venerdì non si è imbarcata sul volo di ritorno e la situazione si è fatta ancora più angosciante». Finché il telefono non si è riacceso. E la telefonata alla mamma ha messo in moto la macchina diplomatica. La seconda telefonata di Cecilia è con il compagno: ha detto di stare bene e di non essere ferita. Poi il Post ipotizza: «È possibile che abbia dovuto leggere un testo scritto, perché ha usato alcune espressioni che non suonano naturali in italiano, ma sembrano più una traduzione dall’inglese. Non le è stato permesso di dare altre informazioni». E mentre l’Italia lavora con discrezione, emergono ombre inquietanti su potenziali ritorsioni diplomatiche. Il 16 dicembre, ovvero tre giorni prima dell’arresto di Cecilia, coincidenza, le autorità italiane hanno fermato all’aeroporto di Malpensa Mohammad Abedini Najafabadi, un iraniano accusato dagli Stati Uniti di aver fornito tecnologia per la produzione di droni utilizzati dalle Guardie della rivoluzione iraniane (che per gli Usa sono un’associazione terroristica). Le attrezzature sarebbero state utilizzate per produrre almeno uno dei droni impiegati nell’attacco contro l’avamposto americano Tower 22, in Giordania, compiuto da milizie sostenute dai Pasdaran, nel quale tre soldati statunitensi sono morti e oltre 40 sono rimasti feriti. E il fermo di Najafabadi ha sollevato non poche tensioni internazionali: l’Iran ha protestato formalmente, accusando Italia e Stati Uniti di violazioni del diritto internazionale. E ora l’arresto della giornalista sembra inserirsi quantomeno in questo contesto di nervi tesi.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)