2021-11-09
C’è «omofobia» pure alla mostra radical chic
Cortocircuito alla Triennale milanese guidata dall'archistar del Pd, Stefano Boeri: nella rassegna su Saul Steinberg spunta una lettera in cui l'icona progressista evoca «la guerra ai finocchi, morali e fisici». Ironie d'altri tempi. Ma Zan che ne dice?«Bisogna organizzare la guerra ai finocchi, morali o fisici». Se lo dicesse un campione dell'ultradestra con il naso rosso Amarone, verrebbe crivellato di insulti sui social network, rimosso all'istante da ogni incarico e additato a imperitura ignominia. Ma la frase in bella calligrafia risalta in una lettera esposta nella mostra più cool (e obiettivamente più affascinante) del momento, quella alla Triennale di Milano su Saul Steinberg, geniale e poliedrico architetto, disegnatore, scrittore, umorista che ha attraversato il secolo breve da protagonista sulla direttrice Milano-New York. Allora la faccenda si fa paradossale.Il proposito politicamente scorrettissimo arriva fra noi come un candelotto di vaniglia. Scoppia, imbratta la capitale italiana del progressismo culturale e ce la «racconta lunga» sui rischi del ddl Zan. Se oggi fosse legge nella sua fanatica interezza (con il plotone di esecuzione degli articoli 1 e 4), il presidente della Triennale Stefano Boeri - archistar icona dell'Italia con la patente radical e luce del piddismo saggio del Municipio 1 -, sarebbe il primo a rischiare di finire davanti a un giudice per «istigazione alla violenza omofoba». Massimo del comico, i Ferragnez e il popolo delle fiaccole dell'Arco della Pace dovrebbero trasferire i sit-in al tribunale per difenderlo. Perché, come si dice nel mai tramontato gergo dipietrista, non poteva non sapere.La lettera è del maggio 1946 e fa parte del carteggio di Steinberg con Cesare Zavattini, di proprietà della biblioteca Panizza di Reggio Emilia. Il contesto storico è particolare; l'artista ebreo, nato in Romania e arrivato in Lombardia a studiare, dopo il varo delle leggi razziali riesce a fuggire negli Stati Uniti e diventa vignettista del New Yorker, si inserisce nel démi monde culturale americano e da lì manda agli amici italiani piccoli reportage privati per raccontare meraviglie e contraddizioni. Scoprire il nuovo mondo sarà un filone della sua arte. Come scrive Claudio Castellacci nel catalogo della mostra curato da Marco Belpoliti per Electa, «la sua America è costellata di simbolici toreri che sfidano improbabili tacchini incazzosi, coccodrilli a spasso per strade cittadine, grattacieli a forma di cassettoni, galline dalle dimensioni di tirannosauri, statue della Libertà che danzano». Lo scritto indirizzato all'amico emiliano, sceneggiatore e commediografo del neorealismo, è di fatto un invito a raggiungerlo attraverso una narrazione che solletica la fantasia. «Ci sono a New York un centinaio circa di gallerie d'arte», scrive di suo pugno Steinberg. «Molta arte buona è in mano dei finocchi che la fanno diventare chic. Bisogna organizzare la guerra ai finocchi, morali e fisici. Ma è un gran Paese questo, c'è posto per tutti e, più importante, nessuno ti rompe le scattole». Proprio con doppia «tt». Zavattini non sembra entusiasta, ma il 2 giugno risponde: «Non riuscirei a stare lontano dall'Italia più di un mese, ma un mese entro l'anno spererei proprio di passarlo all'ombra dell'infelicità degli americani». La zampata dello scettico blu.È curioso notare come la parola «finocchi», imparata con il resto dell'italiano da Steinberg al suo arrivo a Milano, sia un retaggio della vulgata degli anni Trenta. E va dato atto alla curatrice della mostra Francesca Pellicciari di avere inserito ed esposto la lettera con filologico rigore fra centinaia di testimonianze artistiche. Impossibile che non se ne sia accorta. Fra copertine di riviste, disegni, fotografie, autoritratti (Steinberg giovane è il sosia con i baffi di Enrico Letta), vignette, provocazioni, calembour, non è facile trovarla. Ma quando la leggi, ormai condizionato da qualche anno di ammorbante dominio del politicamente corretto e del suo ipocrita sussiego, ti blocchi in surplace alla Antonio Maspes, paralizzato dallo schiaffone visivo. Fino a qualche tempo fa nessuno avrebbe fatto una piega, trattasi di conversazione privata inserita in un contesto storico preciso. Oggi no. Oggi secondo il canone della dittatura dei buoni sospinta dal vento salvifico dei campus universitari anglosassoni, fra i marmi della Triennale si stanno perpetrando due reati: omofobia e istigazione alla violenza. In nome della «cancel culture» che a mesi alterni rovescia secchi di vernice sulla statua di Indro Montanelli che si fa? Si chiude la mostra, si fa sparire la lettera o si chiede il permesso di Tomaso Montanari e Michela Murgia prima di andare avanti?Ovviamente tutto questo è grottesco, provocatorio e dimostra quanto sia post-storico e ultra-imbecille ciò che certa sinistra intellettuale italiana cavalca con allegra superficialità. Un segnale di imbarazzo si nota nel monumentale catalogo (curatissimo, 577 pagine) dove - almeno nella parte dedicata al rapporto con Zavattini - si parla della lettera senza riprodurla, quindi senza doverne giustificare il proposito bellico e ortofrutticolo insieme. Un'innocente censura, forse pure involontaria. Una debolezza che conferma l'emicrania culturale di oggi rispetto alla libertà del passato. Quando, per dirla con Steinberg medesimo, «nessuno ti rompeva le scattole».