- L'idea è semplice: se suddividi un asset, il mercato tende a valorizzarlo più della somma delle parti. In ogni caso nella nuova società finirebbe buona parte delle sofferenze, liberando l'impresa telefonica dal suo storico fardello che la limita in Borsa.
- Consob interviene nella diatriba tra Vivendi e il fondo Elliott e chiede più documenti in vista dell'assemblea. Il ministro Carlo Calenda si scaglia contro i francesi: «Pessimi gestori». Ai risparmiatori, però, non interessa tanto chi comanderà ma che il titolo torni a salire nel lungo termine.
L'idea è semplice: se suddividi un asset, il mercato tende a valorizzarlo più della somma delle parti. In ogni caso nella nuova società finirebbe buona parte delle sofferenze, liberando l'impresa telefonica dal suo storico fardello che la limita in Borsa.Consob interviene nella diatriba tra Vivendi e il fondo Elliott e chiede più documenti in vista dell'assemblea. Il ministro Carlo Calenda si scaglia contro i francesi: «Pessimi gestori». Ai risparmiatori, però, non interessa tanto chi comanderà ma che il titolo torni a salire nel lungo termine.Lo speciale contiene due articoli.È la rete e il suo valore, una volta scorporata con debiti annessi, il disegno su cui poggia l'assalto del fondo di Paul Singer al presunto immobilismo del raider bretone Vincent Bolloré. Era intuibile già all'inizio della schermaglia e ora è manifesto. Del resto per il fondo Elliott, che di mestiere spinge sulla remunerazione nel breve termine, quella della valorizzazione sul mercato della rete di Telecom è l'unica mossa che può ridare entro il 2018 una scossa al titolo.Il disegno è semplice. Il classico break up: se scorpori un asset il mercato tende a valorizzarlo più della somma delle parti. Non solo. Alla rete che ha un valore del capitale intorno ai 10 miliardi puoi agganciare una parte sostanziosa del debito che sta in Telecom, liberando così la società telefonica dal suo storico fardello (anche se ridimensionato) che ne limita i movimenti borsistici. Due piccioni con una fava. A Bolloré l'ipotesi non è mai piaciuta. Se vuole fare l'azionista forte della Telecom integrata, la sottrazione della rete dal suo perimetro sarebbe un danno per lui e il suo investimento tuttora in perdita secca. Ma la schermaglia comunque vada può far comodo anche al finanziere francese. Il suo unico problema, resosi conto ormai di essere accerchiato nel suo fortino fatto di Telecom e Mediaset, è quello di poter eventualmente, a battaglia persa, uscirne senza danni. Una volata di Telecom sopra l'euro, verso quell'1,2 euro che è il suo valore di carico permetterebbe di uscire senza perdite. Evitando che i fondi globali, soci di Vivendi, usino la disastrosa (per ora) campagna italiana per fargliela pagare in Francia su tutta la linea. E anche Elliott ha tutto da guadagnare. La speculazione al rialzo sulla guerra per il controllo rende i suoi acquisti di questi giorni abbastanza al riparo da possibili minusvalenze e il progetto rete quotata creerebbe ulteriore valore ai suoi titoli telefonici. La Cassa depositi e prestiti si è inserita nella partita. Per ragioni di consenso politico dei suoi uomini di vertice (il presidente Claudio Costamagna in testa) che non per ragioni di opportunità economica. Ma tant'è. Quell'intervento che ha fatto strepitare molti osservatori liberisti sull'invadenza dello Stato interventista andava con ogni probabilità, con il senno di poi, fatto molto prima. Molti anni fa. Quando la madre di tutte le privatizzazioni non ha generato valore per nessuno. Alla faccia del privato è meglio. La gestione privata sia in termini di efficienza aziendale che di ritorno per i soci non ha certo brillato nel decennio scorso. E del resto se si ha così tanta paura dello Stato padrone vien da chiedersi perché non si strepita alla stessa maniera per il fatto che Cdp stazioni in quasi tutte le utilities a rete del Paese. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cdp-tim-scorporo-debiti-2560572575.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-500-000-piccoli-azionisti-di-tim-dal-2006-hanno-perso-in-borsa-il-70" data-post-id="2560572575" data-published-at="1764455962" data-use-pagination="False"> I 500.000 piccoli azionisti di Tim dal 2006 hanno perso in Borsa il 70% Poco capitale, il minimo indispensabile. E poi solo debito, tanto. Tale da bloccare la società in una sorta di cul de sac. Una morta gora dove i flussi di cassa prodotti finivano in buona parte a ripagare gli interessi sul debito. Spegnendo sul nascere ogni velleità di espansione, di sviluppo, di crescita futura. È un fotogramma che dipinge la storia degli ultimi vent'anni di Telecom Italia, da quando cioè nel 1997 venne privatizzata. Da allora molti protagonisti passarono sulla tolda di comando del colosso telefonico italiano. Più un luogo di potere, di controllo rarefatto tra scatoli cinesi e leve finanziarie tirate a dismisura. Dopo la privatizzazione del cosiddetto nocciolino duro che videro gli Agnelli governare di fatto il gruppo con solo lo 0,6% del capitale, arrivò subito dopo nel 1999 l'Opa a debito di Roberto Colaninno e soci. Nel 2001 sbarca (senza Opa) al vertice la Pirelli di Tronchetti Provera. Qualche anno e nel 2007 ecco le banche italiane e la spagnola Telefonica salire sul carro di Telecom. E infine la scalata del bretone Vincent Bolloré nel 2015 che giunge a controllare il 24% del capitale con la sua Vivendi. E oggi la contesa con il fondo americano Elliot che vuole scalzare il francese dalla società, accusandolo di badare più ai propri interessi che alla redditività della società. Ieri la Consob è intervenuta nella diatriba chiedendo una integrazione di documenti in vista dell'assemblea. Mentre il ministro Carlo Calenda è intervenuto a gamba tesa definendo alla faccia della terzietà di un governo, Vivendi «un pessimo azionista». In questo scenario di battaglie per il controllo dell'ex monopolista c'è un grande assente. Un convitato di pietra che conta su mezzo milione di investitori. A tanto ammonta il numero degli azionisti, spesso piccoli e silenti, della società che hanno subìto di fatto in 12 anni un depauperamento del 70% circa. E soprattutto vedendo il loro investimento sfumare lentamente nel quasi nulla. Come documenta R&S Mediobanca, l'investimento nel titolo Telecom è stato una delle più cocenti delusioni per i suoi azionisti. Da fine del 2006 il rendimento medio annuo del titolo ha segnato un -6,2% annuo. Vuol dire per gli ostinati cassettisti avere bruciato in Borsa due terzi del loro investimento. Solo le banche nel decennio hanno fatto peggio. Ma lì ha giocato un ruolo chiave l'innegabile crisi bancaria. Per Telecom il lunghissimo letargo borsistico affonda le sue ragioni nel peccato originale. Aver scambiato da tutti quelli che si sono succeduti nella cabina di regia, la società per una mucca da mungere. Andavano assicurati ricchi dividendi e nel contempo andavano però pagati oneri finanziari sempre più consistenti che si mangiavano completamente i margini d redditività. Basti un dato. Nel 2007 gli oneri finanziari erodevano un terzo del reddito operativo prodotto dalla gestione. Cinque anni dopo nel 2012 la spesa sul debito era salita oltre il 100% dell'utile operativo. E la metamorfosi da società pubblica ricca e con una struttura patrimoniale-finanziaria equilibrata a società privata pluri-indebitata è raffigurata in questi numeri. All'indomani della privatizzazione il debito netto è di 27 miliardi e vale quanto il capitale. Nel 2001 sale di ben 10 miliardi e nel 2005 toccherà il record di 40 miliardi. Quasi 2 volte il capitale. Ogni anno la società deve accantonare 2,5 miliardi solo per pagare gli interessi su quella montagna di denaro. E per fortuna che la redditività industriale lorda tiene con il margine operativo lordo che riesce a stazionare al 40% dei ricavi. Sono gli anni dell'espansione all'estero. Espansione che verrà completamente ridimensionata nel tempo sempre per l'equilibrio patrimoniale precario e che ridurrà la Telecom a operare di fatto solo sul mercato domestico con l'unica appendice del mercato brasiliano. Si dimagrisce fortemente l'attivo per tenere a bada sempre il solito mostro: quel debito caricato dai vari soggetti succedutesi nel cambio di controllo. Una stasi che si riflette inevitabilmente sui corsi di Borsa. Solo per venire ai tempi vicini il titolo viaggia da ormai cinque anni in un range medio di valore di 90 centesimi. Scende a 0,6 per salire a 1-1,2. Lo stesso Bollorè nella sua scalata ha comprato nel 2015 a 1,2 euro i titoli e oggi conta una minusvalenza di oltre 1 miliardo. Prima del lungo letargo borsistico degli ultimi cinque anni ci fu la caduta rovinosa della bolla Internet che portò il titolo da 6 euro del 2000 ai 2 euro del 2003. Oggi 15 anni dopo Telecom fa fatica a riagguantare la soglia psicologica di un euro per azione. Telecom capitalizzava ancora nel 2005 40 miliardi di valore, oggi tocca a malapena i 13 miliardi di valore di mercato. E dal 2012 anche il ricco dividendo delle azioni ordinarie è venuto a mancare. La Borsa continua così a snobbare Telecom, anche se i risultati economico-finanziari sono assai migliorati. Negli ultimi anni Telecom ha mantenuto redditività alta con il margine lordo al 40% e il margine operativo netto al 20% dei ricavi. Nel 2017 ha chiuso con ricavi a 19,8 miliardi, un utile operativo a 4 miliardi e un indebitamento finanziario netto a 26 miliardi. I recenti sforzi per ripristinare quell'equilibrio patrimonial-finanziario andato perduto vent'anni fa non sono stati vani. Oggi Telecom pur con un mercato molto competitivo e un attivo di bilancio dimagrito è molto più solida degli anni delle scorribande. Ma, e questo suona oggi come un paradosso, la Borsa continua a non accorgersene. Forse quel peccato originale di aver indebitato oltre misura la compagnia telefonica continua ad aleggiare come un marchio indelebile nel Dna della Telecom anche dei giorni nostri. Chissà se chiusa la nuova battaglia franco-americana la Borsa tornerà a guardare ai fondamentali accorgendosi che la Telecom si è rimessa in carreggiata? Agli azionisti, a quel mezzo milione di investitori testardi, più che chi governa la società interessa che il loro investimento torni a recuperare di valore soprattutto nel lungo termine.
Maria Chiara Monacelli
Maria Chiara Monacelli, fondatrice dell’azienda umbra Sensorial è riuscita a convertire un materiale tecnico in un veicolo emozionale per il design: «Il progetto intreccia neuroscienze, artigianato e luce. Vogliamo essere una nuova piattaforma creativa anche nell’arredamento».
In Umbria, terra di saperi antichi e materie autentiche, Maria Chiara Monacelli ha dato vita a una realtà capace di trasformare uno dei materiali più umili e tecnici - il cemento - in un linguaggio sensoriale e poetico. Con il suo progetto Sensorial, Monacelli ridefinisce i confini del design artigianale italiano, esplorando il cemento come materia viva, capace di catturare la luce, restituire emozioni tattili e raccontare nuove forme di bellezza. La sua azienda, nata da una visione che unisce ricerca materica, manualità e innovazione, eleva l’artigianato a esperienza, portando il cemento oltre la funzione strutturale e trasformandolo in superficie, texture e gioiello. Un percorso che testimonia quanto la creatività, quando radicata nel territorio e nel saper fare italiano, possa dare nuova vita anche alle materie più inattese.
Diego Fusaro (Imagoeconomica)
Il filosofo Diego Fusaro: «Il cibo nutre la pancia ma anche la testa. È in atto una vera e propria guerra contro la nostra identità culinaria».
La filosofia si nutre di pasta e fagioli, meglio se con le cotiche. La filosofia apprezza molto l’ossobuco alla milanese con il ris giald, il riso allo zafferano giallo come l’oro. E i bucatini all’amatriciana? I saltinbocca alla romana? La finocchiona toscana? La filosofia è ghiotta di questa e di quelli. È ghiotta di ogni piatto che ha un passato, una tradizione, un’identità territoriale, una cultura. Lo spiega bene Diego Fusaro, filosofo, docente di storia della filosofia all’Istituto alti studi strategici e politici di Milano, autore del libro La dittatura del sapore: «La filosofia va a nozze con i piatti che si nutrono di cultura e ci aiutano a combattere il dilagante globalismo guidato dalle multinazionali che ci vorrebbero tutti omologati nei gusti, con le stesse abitudini alimentari, con uno stesso piatto unico. Sedersi a tavola in buona compagnia e mangiare i piatti tradizionali del proprio territorio è un atto filosofico, culturale. La filosofia è pensiero e i migliori pensieri nascono a tavola dove si difende ciò che siamo, la nostra identità dalla dittatura del sapore che dopo averci imposto il politicamente corretto vorrebbe imporci il gastronomicamente corretto: larve, insetti, grilli».
Leonardo
Il fondo è pronto a entrare nella divisione aerostrutture della società della difesa. Possibile accordo già dopo l’incontro di settimana prossima tra Meloni e Bin Salman.
La data da segnare con il circoletto rosso nell’agenda finanziaria è quella del 3 dicembre. Quando il presidente del consiglio, Giorgia Meloni, parteciperà al quarantaseiesimo vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), su espressa richiesta del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Una presenza assolutamente non scontata, perché nella Penisola araba sono solitamente parchi con gli inviti. Negli anni hanno fatto qualche eccezione per l’ex premier britannica Theresa May, l’ex presidente francese François Hollande e l’attuale leader cinese Xi Jinping e poco altro.
Emmanuel Macron (Ansa)
Bruxelles apre una procedura sull’Italia per le banche e tace sull’acciaio transalpino.
L’Europa continua a strizzare l’occhio alla Francia, o meglio, a chiuderlo. Questa volta si tratta della nazionalizzazione di ArcelorMittal France, la controllata transalpina del colosso dell’acciaio indiano. La Camera dei deputati francese ha votato la proposta del partito di estrema sinistra La France Insoumise guidato da Jean-Luc Mélenchon. Il provvedimento è stato approvato con il supporto degli altri partiti di sinistra, mentre Rassemblement National ha ritenuto di astenersi. Manca il voto in Senato dove l’approvazione si preannuncia più difficile, visto che destra e centro sono contrari alla nazionalizzazione e possono contare su un numero maggiore di senatori. All’Assemblée Nationale hanno votato a favore 127 deputati contro 41. Il governo è contrario alla proposta di legge, mentre il leader di La France Insoumise, Mélenchon, su X ha commentato: «Una pagina di storia all’Assemblea nazionale».






