2021-08-25
Cassese e il clan degli «onusiani» discettano di diritti all’acqua di rose
Il giurista fa parte di una lunga schiera di colleghi convinti che la democrazia sia un fatto accademico. Invece essa esiste solo se connessa all'esercizio forte del potere. Con buona pace delle vuote «dichiarazioni» dell'Onu.Esiste una rivista che si intitola Democrazia e diritto. Era una volta la rivista del Partito comunista in area ingraiana e immagino che sia oggi vicina al Partito democratico. Fu anche diretta per molti anni da un giurista e filosofo originale come Pietro Barcellona, ma non credo che ne abbia conservato lo spirito. Cito questa rivista perché mi è venuta in mente leggendo l'editoriale di Sabino Cassese sul Corriere della sera di lunedì scorso, un articolo dedicato a «democrazia e diritti» come «valore universale».Le considerazioni di Cassese riguardano ovviamente la tragedia dell'Afghanistan o, per meglio dire, la débâcle (scilicet: sconfitta totale) dell'Occidente americano in quella parte del mondo dove, per l'appunto, si è posta la domanda fondamentale: si può esportare la democrazia? Un po' tutti e anche Cassese danno per scontato che la democrazia sia qualcosa di ovvio, pur con tutti i suoi confini concettuali e storici. Nessuno, però, si interroga fino in fondo sul concetto di democrazia, che ha certamente a che fare con il «diritto» (come sapevano ancora i vecchi comunisti di Democrazia e diritto), ma non necessariamente con i «diritti», la cui retorica si muove oramai su un piano del tutto autonomo. Certo, i diritti sono connessi con la democrazia: quelli politici e civili con la democrazia liberale, quelli sociali ed economici con la democrazia dello Stato sociale di diritto, quelli individualissimi con l'anti Stato della cosiddetta postmodernità liquida (che poi sono quelli che più di tutti si vorrebbero «esportare»).I comunisti sapevano bene che la democrazia ha a che fare fondamentalmente con i rapporti di forza e di potere, solo eventualmente con i «diritti», tanto meno quelli individualissimi che oggi vanno per la maggiore. La democrazia è infatti «potere» (deriva dal greco kratos), sia pure originariamente di una parte del popolo (la parte povera di Atene), oggi teoricamente di «tutto» il popolo. Ma resta sempre esercizio (secondo una certa tecnica, a partire diciamo da Montesquieu) del potere e quindi non è connessa con i «diritti» ma con il diritto e di conseguenza con lo Stato. Di qui il problema: si può «esportare il potere», ovvero lo Stato? Chiaramente no. Il potere si può far valere su e contro un altro, non certo «esportare». Realisticamente, gli Americani in Afghanistan (e in Iraq) non hanno esportato la democrazia, ma imposto il loro potere, seguendo, per la verità solo in parte e tutto sommato molto limitatamente, i comportamenti di Atene (dove sarebbe nata, stando al Pericle di Tucidide, cioè a Tucidide, la democrazia), che avendo a che fare con gli abitanti dell'isola di Melo pose loro l'alternativa: o diventare sudditi di Atene o essere annientati (e i poveri meli furono democraticamente annientati: era il 416 a.C.).Naturalmente c'è stato e c'è tuttora un discorso sulla esportazione della democrazia, ma è appunto un discorso, una retorica, si tratti di Cassese o dei neoconservatori (ex trotzkisti) del Project for a New American Century di 20 anni fa. Insomma, c'è un'ideologia, un «racconto», da un lato, e una realtà, dall'altro. Fino a quando la retorica ideologica, sia pure in buona fede, verrà sovrapposta alla realtà non solo non se uscirà, come si dice, ma soprattutto non si comprenderà il senso delle azioni, proprie e altrui. Ci si scontrerà sempre con la parola infrangibile del fanatico islamista: «Noi amiamo la morte, voi la vita: avete già perso». Non che si debba rinunciare alla nostra tradizione, che appunto pone al primo posto la vita, ma bisogna organizzare un discorso alternativo e opposto che non può partire dai «diritti», bensì dal diritto, ovvero dalla organizzazione concreta del potere, che può e deve essere messo al servizio della vita (e della libertà e via dicendo), ma trova un muro quando si tratta dei diritti individualissimi, che invece si oppongono allo Stato e quindi rendono l'Occidente un perdente in partenza. Occorre essere consapevoli del fatto che il mondo si muove su linee di faglia mobili e sempre determinate non dall'ideologia dei diritti ma da interessi di potere (vedi la questione cinese).Quello che voglio dire è che nessun «ragionamento» ideologico può sostituire il discorso della potenza. Il soft power (il discorso buonista sui «diritti») ha senso, se ne ha, solo insieme con l'hard power, altrimenti ci restano solo le parole di Bergoglio sull'accoglienza universale. I «diritti» vigono solo se interni ad un ragionamento politico su come immaginare e organizzare il potere. Se la retorica dei diritti vale qualcosa prima o poi si farà storicamente valere, dove che sia. Ma ha la forza intrinseca di farlo dove il discorso contrario è altrettanto se non più forte? Perché nel mondo non esiste solo il racconto occidentale, ma molti altri racconti, che non si riconoscono nel nostro. Si può imporre un discorso al posto di un altro? Ovviamente no, a meno che non elimino il portatore del discorso altro, come fecero i democratici ateniesi a Melo: e sull'isola non restò più nessuno. Ecco allora che il discorso di Cassese e con lui di tutti quelli che chiacchierano di «diritti» si scontra con le dure repliche della storia, per citare Hegel. Perché non esiste nessun diritto alla democrazia di nessun popolo, diritto che potrebbe significare, logicamente, solo esercizio autonomo del potere (demo-crazia). Cassese cita le solite Dichiarazioni dei diritti e si immagina una democrazia come una «fabbrica composita», che a me pare più un miscuglio di princìpi comuni: libertà di stampa (e perché non di circolazione?), eguaglianza (e perché la solita «eguaglianza di genere» che va di moda e non l'eguaglianza dinanzi al diritto?), e poi, però, si va sul tecnico: separazione dei poteri, libere elezioni, c'è pure il «decentramento dei poteri» (che non c'entra niente con la democrazia, la quale anzi è per principio centralista e comunque in Afghanistan vorrebbe dire sfasciare il paese in tanti Stati etnici). Insomma, i diritti finché si «discorre», nel concreto, però, ciò che dovrebbe contare sono il diritto, lo Stato, la forza, che non hanno nulla a che fare con i «diritti» se non mediatamente. I popoli, nonostante quello che dice Cassese e con lui diceva Eleanor Roosevelt nel 1948 o altri benpensanti facitori di «carte dei diritti», non hanno nessun «diritto» alla democrazia, perché l'unico significato logico e coerente dell'affermazione vorrebbe dire: diritto ad esercitare il potere in proprio, secondo la propria volontà e quindi semmai secondo le proprie tradizioni e costumi, religiose e istituzionali. Cassese si rivela un «onusiano», come si diceva una volta, e non trova di meglio che citare una dichiarazione dell'Onu del 2005, di quella organizzazione che è un fallimento quotidiano e storico e che vorrebbe imporre «universalmente» non solo comportamenti, ma anche modi di pensare. Per di più, sembra mettere addirittura sullo stesso piano Afghanistan e Ungheria, tutti e due Paesi ai quali bisogna insegnare la democrazia come «valore universale», secondo le smargiassate purtroppo spesso letali dell'Onu e dell'Unione europea. Peccato che in Ungheria ci siano proprio quelle «libere elezioni» che dovrebbero essere il presupposto della democrazia come «valore universale».
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