L’Ue, che punta alla neutralità climatica per il 2050, lancia un maxi sondaggio per fissare un tagliando al 2040. Ma un report inglese svela dove ci porterà la svolta green: niente viaggi o trasporti via nave e case più fredde.
L’Ue, che punta alla neutralità climatica per il 2050, lancia un maxi sondaggio per fissare un tagliando al 2040. Ma un report inglese svela dove ci porterà la svolta green: niente viaggi o trasporti via nave e case più fredde.Chiudete gli occhi. Immaginate un mondo in cui i cieli non sono più solcati da aeroplani di linea. Un mondo nel quale, dai porti, non salpano più navi cariche di merci. Un mondo in cui, a casa vostra, i termosifoni - pardon, le pompe di calore, perché i vecchi caloriferi li avranno già messi fuorilegge da un pezzo - possono stare accesi per il 40% di tempo in meno rispetto a oggi. È la trama di un romanzo fantascientifico? No. È il mondo green, sostenibile, ecocompatibile, a emissioni zero, che stanno preparando per voi. Qui, adesso. L’Unione europea ha da poco lanciato una consultazione online sugli obiettivi climatici da raggiungere entro il 2040, in vista di quello principale, fissato da una norma comunitaria del 2021: la totale abolizione delle emanazioni di gas serra per il 2050. Sembra una data lontanissima. Ma se la osserviamo dal punto di vista dei mutamenti radicali all’economia e allo stile di vita che tale meta comporterà, essa è davvero dietro l’angolo. E forse è su questo che contano gli europianificatori: se il «progresso» ci travolge, non riusciremo a resistere. I primi effetti li stiamo già constatando: entro il 2035 potremo comprare solamente auto elettriche; entro il 2033, tutte le nostre case dovranno essere riadeguate ai nuovi standard di consumi energetici. Per chi cerca una vettura, per chi ha esigenza di acquistare o vendere casa e va in banca a chiedere un mutuo, i regolamenti europei hanno un impatto immediato. Intanto, Bruxelles invoca un tagliando intermedio. E lo fa con un sondaggione calibrato in un modo che sarebbe eufemistico definire suggestivo. Domande del tipo: di quanto dobbiamo ridurre le emissioni entro il 2040? «Almeno del 65%», è una delle opzioni, che però viene accompagnata da un avvertimento: «È un’ambizione molto bassa». Con magnanimità, gli ideatori del questionario consentono anche di proporre un target inferiore, purché non scenda mai al di sotto del -55% rispetto al 2020. E poi: «Quali sono i benefici di un obiettivo climatico ambizioso per il 2040?». La lista spazia dai «posti di lavoro green», alla accresciuta «competitività», al miglioramento del nostro «benessere». Mancano le fontane di vino e la manna dal cielo. Al contrario, il cambiamento climatico causerà danni incalcolabili. «Quali sono quelli che la preoccupano di più?», chiede il format. L’elenco è nutrito: «nuove malattie e pandemie», che dopo il Covid colpiscono sempre l’attenzione; «perdita di vite»; «perdite materiali»; «mutamento dei paesaggi». Insomma, partecipare alla consultazione europea, aperta fino al 24 giugno prossimo, significherà per forza proclamarsi a favore di interventi risoluti per arginare la catastrofe ambientale. Le uniche divergenze d’opinione si registreranno sul carattere dei provvedimenti: più o meno draconiani. E dopo aver acchittato il sondaggio, di sicuro i soloni dell’Ue ci spiegheranno che i cittadini sono tutti d’accordo: bisogna «fare presto». E accelerare la transizione verde. Quello che ieri ha ribadito il Fondo monetario internazionale, il cui direttore del Dipartimento affari di bilancio, Victor Gaspar, è tarato su toni apocalittici: il climate change è una «minaccia esistenziale», se «le politiche resteranno invariate, le emissioni in questo decennio aumenteranno e la strada per limitare gli aumenti delle temperature a due gradi sopra i livelli pre industriali sarà mancata. Un’azione collettiva è urgente». A cosa equivalga la tempestiva «azione collettiva», tuttavia, il Fmi, Ursula von der Leyen, il suo vice Frans Timmermans e gli imbrattatori di Ultima generazione si guardano bene dal mostrarcelo. Per fortuna, già da qualche annetto, lo ha messo nero su bianco un gruppo di studiosi britannici, provenienti dalle più blasonate università del Paese e finanziati dal governo di sua maestà. Che, come l’Unione europea, punta a un 2050 senza CO2.Ci riferiamo al lavoro di Uk fires, un programma di ricerca cui partecipano esperti di Cambridge, Oxford, Bath, Nottingham, Strathclyde, nonché dell’Imperial college di Londra. Quello di Andrea Crisanti. I professori elaborano strategie e programmi per «stimolare una crescita industriale nel Regno Unito compatibile con una rapida transizione alle emissioni zero». Peccato che, a giudicare da un loro report uscito nel novembre 2019, le «azioni che possiamo intraprendere» per giungere all’agognata meta sembrino più adatte a un ritorno all’età della pietra, che a una fase di sviluppo e prosperità.Sapete, ad esempio, che destino dovrebbero avere i nostri veicoli a motore? All’incirca quello che sta preparando l’Europa. E se nel 2050 vogliamo essere veramente puliti, dobbiamo essere pronti, oltre che all’auto elettrica, a una consistente riduzione delle dimensioni dei mezzi e dell’uso delle strade. Guai, invece, a immaginare un weekend fuori porta con un volo low cost: nel futuro green, Oltremanica dovrebbero funzionare soltanto gli aeroporti di Heathrow, Glasgow e Belfast, che comunque verrebbero chiusi tra il 2030 e il 2049. Dopo il 2050, forse, ci si potrebbe ripensare. Basta che, a decollare, siano apparecchi elettrici, o alimentati da carburanti sintetici - gli efuel tedeschi? - prodotti da impianti a energia rinnovabile. Resta da capire che destino avranno i jet privati dei multimilionari: resteranno a terra? Oppure chi ha i quattrini potrà permettersi di volare, alla faccia delle emissioni zero?A seguire i cervelloni inglesi, non sarete a vostro agio manco in casa. Dopo avervi costretti a montare le pompe di calore, vi chiederanno di accendere gli impianti per il 60% dell’orario di funzionamento odierno. I frigoriferi e le lavatrici, poi, dovranno essere più piccoli. Niente più cibo importato per via aerea. E scordatevi manzo o agnello: allevare i ruminanti inquina. Nel 2019, gli scienziati annotavano: «C’è un potenziale significativo per l’innovazione nell’estensione e nello sviluppo di nuovi sostituti artificiali della carne». Appunto: cominciate a capire come mai c’è tanto disappunto, tra i benpensanti italiani, per il bando delle bistecche sintetiche imposto dal governo Meloni? Nell’avvenire a prova di ecologia, dovreste trovare solo gli hamburger di Bill Gates. Al posto del macellaio, un laboratorio biochimico. Eccolo, il mondo verde che ci stanno costruendo intorno. Senza dircelo apertamente, per paura che storciamo il naso. È un miscuglio tra il ritorno al paleolitico e la massificazione delle più alienanti e deumanizzanti diavolerie tecnologiche. Nella relazione di Uk fires, si leggeva che la maniera migliore per raccogliere l’entusiastica adesione della gente è quella di persuaderla che «i consumatori possono essere soddisfatti in uno scenario a emissioni zero», poiché «la realizzazione dell’uomo non dipende strettamente dall’uso dell’energia». Anzi, «le attività che amiamo di più sono quelle che ne richiedono di meno». Capito? Tutti in sella alla bersagliera, come Fantozzi, da Roma a Pinerolo. E lungo il percorso, godetevi le ex colline verdeggianti. Tappezzate di pannelli solari.
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Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
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Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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