2024-12-02
Carlo Magnani: «Sui campi da gioco troviamo una via per accedere al sacro»
Lo studioso: «Il gesto atletico è come l’arte: una prova dell’esistenza di Dio e della bellezza della creazione. E il corpo, nella sua irriducibile realtà, è un ostacolo al transumano».Carlo Magnani è ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico presso la facoltà di Sociologia dell’Università Carlo Bo di Urbino, e da qualche anno si dedica ad approfondire il discorso sullo sport dal punto di vista antropologico, filosofico e sociologico. Dopo aver pubblicato una Filosofia del tennis (Mimesis) ora ha dato alle stampe E Dio creò lo sport (Rogas), una suggestiva riflessione sul sacro contemporaneo. Per quale motivo secondo lei lo sport è diventato una sorta di fenomeno religioso? «A dire il vero la mia tesi non è che lo sport sia ormai un surrogato della religione. Non è una indagine sociologica sul tifo o sui modi di vivere le competizioni agonistiche. L’intensità con cui nella sfera pubblica si vive il fenomeno sportivo da parte dei media, dei gruppi sociali, e pure delle persone, è semmai il motivo che testimonia la presenza nello sport di una qualche eccedenza. Lo sport non è una nuova religione immanente nell’epoca della secolarizzazione, ma, al contrario è un elemento nel quale può vivere la domanda di senso religioso più tradizionale. Il gesto atletico è un po’ come l’arte, scrive von Balthasar che “la vera, grande opera d’arte fa la sua comparsa nella storia come un miracolo inspiegabile”. Ecco, quante volte di fronte all’impresa di un campione si esclama al miracolo? Maradona ha giustificato il suo celebre gol all’Inghilterra nei mondiali di Messico 1986 come un intervento della “mano de Dios”: e aveva perfettamente ragione. Lo sport, come la grande arte, è sostanzialmente una prova della esistenza di Dio, della bellezza e della grandezza della creazione. La pratica sportiva è rappresentazione di una idea, è intrisa di fattori ideali e spirituali che promuovono il valore della persona e la sua libertà. Nel testo si raccontano anche - con taglio pop - episodi che riguardano famosi campioni, tali immagini testimoniano l’eccedenza culturale e spirituale del momento sportivo. Si abbozza una teologia “minore” dello sport, come ricerca di un senso ultramondano che traspare da opere umane. Lo sport diventa così una sorta di momento dello spirito assoluto, collocandosi appunto al livello dell’arte. Nel contesto secolare delle nostre società occidentali, pervase da una ideologia postcristiana se non addirittura antireligiosa, pratiche come l’arte o lo sport possono divenire occasioni per l’individuo di confrontarsi con la domanda di senso religioso e di sacro. Lo sportivo impegnato in una gara è come il personaggio di una giovanile lirica di Montale, ove si può leggere che: “Chi trascina i piedi nel fango e gli occhi nelle stelle,/ quello è il solo eroe/ quello il sol vivente”».Che differenza c’è tra lo sport e il gioco?«Schiller afferma in un noto passo che “l’uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca”. Il celebre libro del grande storico olandese Huizinga è un grande omaggio all’homo ludens, uscito nel 1939 alla vigilia della guerra sembra prendere le distanze dalla tragedia a cui ci condurrà di lì a breve l’homo faber. Il gioco è un momento libero, senza altro scopo che sé stesso, sta oltre ogni distinzione di vero o falso, è una sospensione del tempo ordinario e delle funzioni sociali, che ci riconnette a figure archetipiche del comportamento umano. Si può persino azzardare una analogia che giunge a lambire la dimensione del sacro. Già Platone congiungeva esplicitamente l’attività ludica al sacro, danze e giochi rientravano nella formazione spirituale dei fanciulli. Huizinga nota le similitudini formali tra pratica ludica e sacro, e per spiegare la sua concezione perviene a citare lo scritto di Romano Guardini sulla liturgia, definita “senza scopo, ma piena di senso”, proprio come il gioco. Tale analogia è però produttiva anche all’inverso. Ci si può chiedere, cioè, non solo cosa resta del sacro dopo la contaminazione con il gioco, ma anche se si dà una eccedenza nel gioco (e del gioco) vista la sacralità dei suoi riti. Insomma, se il sacro è (parzialmente) gioco, il gioco non è anche un po’ sacro? Lo sport, come momento agonistico nato a seguito della Rivoluzione industriale, si è però staccato da tale modello. Lo stesso Huizinga aveva chiare le cose, e nel 1939 si chiedeva cosa restasse dello spirito del gioco. Figuriamoci ora!».Studiosi come Christopher Lasch in passato hanno criticato la concezione contemporanea dello sport perché in qualche misura troppo concentrato sulla performance in una società già abbastanza fissata con la performatività... «Lo sport come forma storica subisce il contesto sociale. Nell’epoca del globalismo come mercato mondiale senza limiti e della tecnica come credo ultimo, è chiaro che l’atto ludico rischia di trasformarsi in qualcosa d’altro. Lo sport può diventare allora culto di sé medesimo, celebrazione della forza fisica, idolatria della vittoria e della potenza, credo pagano della propria tecnica, esaltazione mistica della partecipazione delle masse. Lo si vede bene osservando, oggi, che cosa sono le gare sportive. Vi sono competizioni come quelle automobilistiche che sono state completamente snaturate dalla tecnologia e dalla ipertrofia dei regolamenti: comunque, resta ancora viva la possibilità di ascoltare direttamente nello stomaco il rumore di un motore a scoppio o di annusare il dolce aroma dei lubrificanti nei box. In questa ossessione della prestazione faccio un cenno alla storia della Minardi in Formula Uno (“beati gli ultimi, perché saranno i primi…”) e al rapporto di amicizia che legava tutta la scuderia a Senna, il quale avrebbe voluto chiudere la sua carriera correndo un’intera stagione proprio con la monoposto di Faenza. Nel mio libro vi sono riflessioni sul calcio che sottolineano proprio questi elementi di crisi dello sport come atto libero. La trascendenza si fatica un po’ a trovarla, anche se poi spuntano un tennista come Djokovic che miracolosamente vince le Olimpiadi o un ciclista come Tadej Pogacar che sembra guidato da forze superiori». Da qualche tempo sembra che la nostra società abbia timore del confronto. Si cancellano le parole e i pensieri considerati scorretti o offensivi, la censura domina. Lo sport è l’unica forma di confronto anche fisico rimasta?«Viviamo in un moralismo senza etica e, tantomeno, senza religione, appoggiato cioè sul nulla, su istanze generiche e confuse, arbitrarie, come i diritti. Lo scontro politico è ormai del tutto neutralizzato, c’è una struttura tecno-finanziaria (ah, quanto era bello il vecchio capitalismo che produceva merci!) che non può essere messa in discussione, al di sopra della quale domina un discorso pubblico moralista e relativista: non valgono più le identità o i legami comunitari, tutto deve essere riscritto. Mettere in discussione tale narrazione, però, costa la censura, scatta il bullismo etico del politicamente corretto. Lo sport risente di tale clima, e le ultime Olimpiadi sono state davvero un pessimo segnale. Che il fenomeno sportivo sia stato usato a fini ideologici è una costante di tutto il Novecento democratico, i boicottaggi olimpici della guerra fredda erano atti di aperta ostilità ideologica. Nel globalismo reale invece si stende una patina moralistica sul conflitto, di qua i buoni e di là i cattivi: gli atleti russi vengono privati del riconoscimento nazionale, cancellata la loro bandiera, censurati i simboli. Nella guerra fredda non era mai accaduto. Ma lo sport è anche un fattore di resistenza contro tale deriva, ancora il gioco si rivela uno spazio sacro e libero ove poter rappresentare un conflitto autentico e lo scontro tra varie idee di umanità».Nell’epoca della inclusività a tutti i costi che cosa ha da insegnare lo sport? «Inclusività è termine assai abusato, che andrebbe sempre affiancato da quello affine ma non identico di uguaglianza. Trattare in modo uguale situazioni eguali e in modo differente situazioni differenti, secondo proporzione, resta sempre un principio valido. Lo sport ha allargato meritoriamente i propri orizzonti includendo nella pratica e nelle competizioni anche le persone con disabilità. Si tratta di una cosa molto positiva. Tuttavia, differenza ed eguaglianza non valgono meno di inclusività». Al centro dello sport c’è il corpo. Che oggi è diventato centrale anche nella politica: dalle politiche sanitarie alle questioni gender, perché secondo lei occupa tutto questo spazio?«La questione del corpo è stata sempre centrale, non a caso il documento che viene considerato come la prima dichiarazione dei diritti, la Magna Carta del 1215, afferma proprio quel principio della civiltà occidentale che è l’habeas corpus. Con il tempo anche il Magistero della Chiesa cattolica, ingiustamente indicato come mortificatore del corpo, ha espresso attenzione verso la pratica sportiva come momento per fortificare non solo lo spirito ma anche il fisico. Recentemente, nel 2018, è stato prodotto un documento, a cura del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, dal titolo suggestivo Dare il meglio di sé, che offre una visione di insieme particolarmente estesa sulla prospettiva cristiana dello sport nell’ottica dello sviluppo della persona umana. Ma già Pio XII, nel 1945, sosteneva che “lontano dal vero è tanto chi rimprovera alla Chiesa di non curarsi dei corpi e della cultura fisica, quanto chi vorrebbe restringere la sua competenza e la sua azione alle cose ‘puramente religiose’, ‘esclusivamente spirituali’”; e apprezzando il fatto che gli sportivi recano “gioia e speranza” in mezzo alle tribolazioni della guerra, concludeva che “infine cosa è lo ‘sport’ se non una delle forme dell’educazione del corpo? Ora questa educazione è in stretto rapporto con la morale. Come dunque potrebbe la Chiesa disinteressarsene?”. Oggi, però, il corpo ha una centralità nuova perché, da un lato, è stato assoggettato al concetto di prestazione calcolabile nel dominio quantitativo della tecnica, proiettato nel futuro transumano in cui si vuole addirittura sconfiggere la morte; ma dall’altro costituisce anche, contestualmente nella sua irriducibile realtà, un ostacolo a tale processo di trasformazione. La realtà della libertà della persona e del suo corpo resta ineliminabile. Come ci ha ricordato Djokovic». A proposito, che ne pensa della questione degli atleti transgender?«Sul punto la penso come la campionessa di tennis Martina Navratilova e come le femministe radicali della RadFem Italia, che sostengono che le donne devono avere il diritto di poter competere solo tra donne. L’ideologia del transumanesimo è una grande insidia per la tradizione sportiva moderna come l’abbiamo conosciuta sinora».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.