2019-12-26
Trump tutela i lavoratori del carbone più di quanto abbia fatto Obama
True
Una certa vulgata mediatica tende a dipingere le politiche ambientali di Donald Trump come dettate dal negazionismo climatico. Il punto è che una simile interpretazione rischia di banalizzare un orientamento che - condivisibile o meno - affonda le proprie radici in un contesto particolarmente complesso.Sotto questo aspetto, non dobbiamo infatti dimenticare che, nel corso della campagna elettorale del 2016, l'allora candidato repubblicano si propose come paladino delle forze sociali maggiormente martoriate dal fenomeno della globalizzazione. E, in tal senso, i lavoratori del settore carbonifero hanno costituito una parte significativa della coalizione elettorale che ha infine portato Trump alla Casa Bianca. Lavoratori che, prevedibilmente, anche alle presidenziali del 2020 saranno destinati a rivelarsi decisivi.Il settore carbonifero statunitense è in profondissima crisi. Secondo la U.S. Energy Information Administration, la produzione di carbone sarebbe infatti calata del 27% negli ultimi cinque anni e il trend negativo non accennerebbe ad arrestarsi. Tra gli Stati, quello indubbiamente più colpito da questa situazione è il Wyoming, che copre circa il 40% della produzione a livello nazionale: le principali società del settore in questo territorio sono ormai sull'orlo del fallimento, visto che si è registrato - secondo il Wyoming State Geological Survey - un calo dell'output di circa il 30% rispetto a cinque anni fa. Tutto questo ha inoltre ovviamente determinato conseguenze negative sui posti di lavoro locali: si pensi che, soltanto lo scorso luglio, vi siano stati licenziati circa seicento minatori. Le ragioni strutturali di questo declino risultano sostanzialmente due. In primo luogo, troviamo le dinamiche di mercato: il settore carbonifero subisce ormai da anni la concorrenza delle energie rinnovabili e - soprattutto - del gas naturale, i cui principali produttori negli Stati Uniti risultano Texas, Pennsylvania e Louisiana (tutti territori in cui - ricordiamolo - Trump ha vinto nel 2016). La seconda causa di crisi risiede invece nelle regolamentazioni ambientaliste, introdotte ai tempi di Barack Obama.Sotto questo aspetto è interessante notare che, da alcuni anni, i lavoratori impegnati nel settore carbonifero abbiano progressivamente abbandonato il Partito democratico: quello stesso Partito democratico da loro sostenuto fin dai tempi di Franklin D. Roosevelt. Già alle presidenziali del 2012 questa quota elettorale scelse infatti di volgersi a favore del candidato repubblicano, Mitt Romney, evitando di fornire il proprio voto alla rielezione di Obama, le cui politiche ambientaliste venivano considerate perniciose sul fronte dell'impatto socioeconomico. In tal senso, Trump - nel 2016 - ha nei fatti ripreso questa battaglia, attaccando ferocemente Hillary Clinton e accusandola di portare avanti una "guerra contro il carbone". Le posizioni dell'ex first lady in materia - accompagnate a una serie di dichiarazioni controverse - contribuirono del resto a far vincere Trump in Stati come l'Ohio e lo stesso Wyoming.Una volta salito al potere, l'attuale inquilino della Casa Bianca ha mantenuto svariate promesse fatte in campagna elettorale. In particolare, ha allentato molte delle regolamentazioni obamiane e - soprattutto - ha avviato, poche settimane fa, il processo di ritiro di Washington dall'accordo di Parigi sul clima. Una scelta, quest'ultima, duramente contestata. Ma che si spiega attraverso due ragioni: la volontà di tutelare il settore carbonifero americano e - sul fronte geopolitico - arginare la concorrenza della Cina. Non dimentichiamo del resto che il progetto della nuova Via della seta sia alimentato principalmente a carbone. E Trump non vuole imbrigliare gli Stati Uniti, consentendo a Pechino di approfittarne. Secondo un recente studio del Tsinghua Center for Finance and Development, i numerosi Paesi coinvolti nella nuova Via della seta, esclusa la Cina, produrrebbero attualmente il 28% delle emissioni globali. Ciononostante, qualora lo sviluppo proseguisse sul binario attuale, entro il 2050 il loro apporto potrebbe arrivare al 66%, determinando così uno sforamento dei limiti imposti dall'accordo di Parigi: quello stesso accordo che, lo scorso novembre, la Cina aveva definito «irreversibile».Nonostante la linea di Trump, il declino del settore - come abbiamo visto - sembra difficilmente arrestabile. Anche perché, come detto, le regolamentazioni di Obama costituivano solo una delle ragioni della sua crisi. In questo senso, il presidente guarda con attenzione al comportamento di alcuni Stati che lo hanno sostenuto nel 2016 e da cui può temere delle conseguenze spiacevoli sul fronte elettorale: non solo il Wyoming ma anche il West Virginia e il Kentucky. Il punto è che se Atene piange, Sparta non ride. È infatti vero che, lo scorso settembre, il presidente del sindacato United Mine Workers of America, Cecil Roberts, ha dichiarato che Trump non sia riuscito a bloccare il tramonto del settore. Ciononostante il medesimo ha espresso profonde preoccupazioni verso la proposta, avanzata dalla deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, del Green new deal che, secondo lui, non risulterebbe realmente in grado di creare nuovi posti di lavoro in sostituzione di quelli scomparsi. E la situazione non sembra migliorare per gli attuali candidati alla nomination democratica del 2020: tutti si dicono genericamente favorevoli alla lotta contro il cambiamento climatico. Tuttavia ben pochi sembrano avere strategie precise su questo fronte. E sono ancora meno quelli che paiono possedere un piano di transizione, volto alla tutela dei lavoratori del settore carbonifero. Quei lavoratori che non è quindi affatto escluso possano tornare a votare per Trump nel 2020.
Tyler Robinson dal carcere dello Utah (Ansa)
Tedros Ghebreyesus (Ansa)