2020-05-10
Calvario burocratico di un cittadino che non vuole morire di lockdown
Lo Stato che ci mette mesi a erogare il nulla e non dà risposte, appena un imprenditore tenta di rialzare la testa lo sommerge di richieste di scartoffie: un elenco di documenti in 11 capitoli. Da consegnare in 48 ore.E chi poi, fra mille difficoltà, ce la fa a riaprire, non riesce a lavorare. Perché? Semplice: deve occuparsi della burocrazia della riapertura. Quello che ho fra le mani è un documento che vorrei non fosse vero. Come invece, purtroppo, è. Lo manda l'ispettorato del lavoro a un'azienda. Nel caso specifico si tratta dell'ispettorato del lavoro di Cosenza («processo di vigilanza, team numero 2», cita la carta intestata, dal che deduco che all'ispettorato del lavoro di Cosenza ci siano almeno due team che lavorano sul «processo di vigilanza» delle aziende che riaprono). E che cosa fanno questi team dell'ispettorato del lavoro? Ovvio: chiedono scartoffie. Un lungo elenco di scartoffie divise in undici capitoli (leggete bene: undici). Una sequenza infinita di documenti che l'imprenditore deve preparare e consegnare tassativamente in 48 ore. Rinunciando, di conseguenza, a lavorare.Non è meraviglioso? Uno sta chiuso due mesi. Non riceve dallo Stato nessun aiuto di quelli sbandierati nelle conferenze stampa di governo. Poi finalmente ottiene il permesso di riaprire. Riapre. Deve sobbarcarsi tutti i costi per la messa in sicurezza del luogo di lavoro, anche qui, ovviamente, senza aiuti da nessuno. E quando finalmente pensa di essere pronto per ricominciare a produrre, nell'interesse di tutti, che cosa succede? Si trova davanti la «richiesta documentale per verifica d'ufficio» del team numero 2 dell'ispettorato del lavoro. Il quale in base al «protocollo condiviso tra il governo e le parti sociali del 14 marzo 2020 per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di lavoro», «al fine di verificare il rispetto del protocollo di cui all'oggetto», «in ottemperanza alle disposizioni della locale Prefettura», invita l'azienda a trasmettere la «seguente documentazione». E qui arriva l'elenco, che consiglio soltanto ai lettori dallo stomaco robusto. Dunque l'imprenditore, secondo il mitico team numero 2, deve: punto 1) sottoporsi al rito di un lungo questionario, che deve essere naturalmente «compilato in ogni sua parte» (guai a saltare una risposta); poi deve: punto 2) allegare copia delle fatture di acquisto dei dispositivi di sicurezza individuali «necessari per quanto previsto dal protocollo in oggetto» (cioè uno deve recuperare le prove di tutto quello che ha comprato, fino all'ultima mascherina); poi deve: punto 3) allegare copia delle fatture relative all'acquisto di gel igienizzanti messi a disposizione del personale (cioè uno deve recuperare le prove di tutto quello che ha comprato, fino all'ultima amuchina); poi deve: punto 4) presentare schede che attestino la consegna dei dispositivi di protezione individuale e farli sottoscrivere uno a uno a tutti i lavoratori; poi deve: punto 5) presentare fattura di acquisto di ogni termometro usato per misurare la temperatura corporea. E qui il burocrate del team numero 2 viene un po' a mancare perché dimentica di chiedere anche la scheda con l'effettiva misurazione, giorno per giorno, o meglio ora per ora, di ciascun dipendente. Ma non disperiamo. Può sempre arrivare con la prossima circolare. Siete esausti? Peccato. Perché non siamo nemmeno arrivati a metà della documentazione. Il povero imprenditore, nell'attesa di poter ricominciare a lavorare, oltre al questionario e alle schede previste dai punti da 1 a 5, infatti deve anche: punto 6) presentare copia di fatture che attestino il pagamento della sanificazione periodica dei locali; e poi deve: punto 7) presentare apposita documentazione che attesti la formazione «erogata ai dipendenti per la prevenzione»; e poi deve: punto 8) presentare apposita documentazione che attesti l'attività di addestramento «erogata ai dipendenti per la prevenzione»); e poi deve: punto 9) presentare apposita documentazione che attesti l'attività di informazione «erogata ai dipendenti per la prevenzione» (e qui urge ricorso alla massima attenzione per distinguere attività di formazione, attività di addestramento e attività di informazione e non cadere nelle ire dell'ispettorato. Per esempio: spiegare come si usa una mascherina in quale caso rientra? E soprattutto: come si fa a documentare?). Infine l'imprenditore deve: punto 10) allegare nominativi, recapiti telefonici e di posta elettronica di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls o Rlst), medici competenti nei casi previsti dal Dlgs 81/2008) e Rsu; e poi deve: punto 11) allegare copia del proprio documento di identità. Caso mai l'ispettorato non sapesse con chi sta parlando.Ma vi pare possibile? E tutto questo, «vista l'emergenza in atto», deve essere fornito «entro 48 ore dal ricevimento della presente». Sottolineato e in neretto. Come a dire: guai se sgarri. Con arroganza. Non è incredibile? Uno Stato che ci mette mesi a erogare il nulla, uno Stato che non risponde mai quando c'è bisogno, che s'è intortato nelle lungaggini della cassa integrazione, nei meandri bancari della liquidità, che non è stato in grado di dare risposte celeri e precise, che ha imposto regole durissime e assurde, ecco: questo Stato, quando un imprenditore cerca di rialzare la testa, finalmente si fa vedere. Bussa alla porta dell'azienda. Ma ha il volto del team numero 2 dell'ispettorato del lavoro di Cosenza (che poi immagino non diverso dal team numero 1 o dal team numero 3, se ci fosse, o dagli ispettorati del lavoro delle altre province italiane). Si presenta con la sua mole di documenti. La sua improvvisa fretta. E la sua ottusità burocratica. Non gli interessa verificare se i lavoratori sono davvero sicuri, gli interessa accumulare cartacce per giustificare la propria esistenza. L'imprenditore che mi ha mandato questo documento mi ha scritto: «Sembra di essere in Bolivia». Difficile dargli torto.