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2023-01-26
Avviso a Consob: «Il calcio non deve andare in Borsa»
Giuseppe Vegas (Ansa)
Nel pieno della bufera sulla Juventus, già penalizzata di 15 punti nella classifica di Serie A per l’inchiesta sulle plusvalenze, l’ex presidente della Consob Giuseppe Vegas prende di mira le società di calcio quotate in Borsa. «Calcio e Borsa sono inconciliabili» sostiene, e anche se «non entro nel merito delle vicende di cui si occuperanno le autorità» nell’eventualità di una quotazione alle società «si richiedono trasparenza e solidità patrimoniale che sono strutturalmente non alla portata dei club», dice il professore di Economia a Milano Finanza.
Le parole arrivano in giorni tormentati per il mondo del calcio. Ma sono anche le stesse che aveva espresso nel 2009 Lamberto Cardia, all’epoca presidente dell’Autorità garante del mercato azionario. «Ritengo che la quotazione delle società calcistiche sia stata e resti un errore». E così, a distanza di 14 anni, mentre la Juventus, quotata ormai dal 2001, deve fare fronte a filoni di inchieste che variano dal bilancio fino ai ritardi negli stipendi, lo scorso mese la Roma Calcio ha completato il delisting dopo lo sbarco a piazza Affari nel 2000. Anche i bianconeri e la Lazio dovrebbero seguire l’esempio dei giallorossi?
Secondo Vegas, in passato, «vi fu una spinta forte per portare i club in Borsa, assecondata da alcuni proprietari alla ricerca di risorse fresche. Si pensava di risolvere, così, un problema sportivo ed economico. Si immaginava di riuscire a portare trasparenza nel mondo del calcio, imbrigliando i club nelle forme e nelle procedure delle società per azioni e della quotazione in borsa».
Invece, sostiene l’ex presidente Consob, «è successo l’opposto: tanta più trasparenza si richiede a chi non è strutturalmente in grado di fornirla, tanto più cresce il rischio di comportamenti non commendevoli». Non nuovo ad attacchi di questo tipo, si pensi a quello verso il governo nel 2020 («Usare il Recovery fund per progetti concreti e non buttare via i quattrini», disse), Vegas rivolge ora la sua attenzione sul mondo del calcio. «Sebbene sia corretto riportare all’attenzione su come l’andamento di titoli sportivi difficilmente si presti alle normali logiche di investimento, pensiamo a come a volte un’azione possa essere venduta dopo la vittoria di un titolo sportivo, oppure a come le valutazioni risultino essere altamente opinabili e soprattutto volatili, il negare l’accesso alla Borsa rischia di creare un precedente, ma soprattutto confusione» puntualizza alla Verità Gabriel Debach, market analyst di eToro. «Quali sarebbero le basi per definire quali business sarebbero giusti e quali sarebbero vietati? In generale, gli investitori dovrebbero essere maggiormente consapevoli del fatto che le azioni delle società calcistiche possono essere più rischiose rispetto a quelle di altri settori, ma anche molti titoli del Nasdaq possiedono tali etichette».
Era il 1996 quando l’allora vicepresidente del Consiglio con delega allo Sport, Walter Veltroni, varò il decreto legge numero 485, sostenuto dall’ambiente calcistico, sulla possibilità anche per le società di calcio di avere fini di lucro. In precedenza, invece, c’era l’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività sportiva.
In questi 27 anni, la quotazione in Borsa delle squadre di calcio ha, di fondo, coltivato il sogno che i tifosi potessero essere azionisti della propria squadra del cuore. Sembrano lontani i tempi di quando Sergio Cragnotti, ex patron della Lazio e della Cirio, sosteneva che «acquisire azioni delle società di calcio può senza dubbio essere un affare». Eppure, dice adesso Vegas, «i tifosi investono e valutano le società non sulla base dei fondamentali economici ma per spirito di squadra, quindi secondo parametri emotivi. È un problema perché la capitalizzazione del club non cambia al variare del valore degli asset del club e dei suoi risultati economici, come accade nelle normali quotate. Chi si muove, e talvolta con logiche speculative, è invece l’azionista di maggioranza».
Secondo Debach, però, solo in parte il ragionamento è corretto. «Certamente i tifosi rischiano di giudicare in maniere errata le basi di una squadra; tuttavia, anche le meme stock hanno generato lo stesso percorso». Quindi, conclude il market analyst di eToro, «la soluzione, più che vietare le quotazioni, sarebbe una maggiore educazione finanziaria degli investitori, i quali tendono ancora eccessivamente a valutare l’investimento basandosi sul maggior rendimento rispetto a una ponderazione sul rischio. Osservando l’evoluzione delle principali squadre di calcio europee quotate in Borsa, non è certamente delle migliori, soprattutto per le italiane, con la Lazio in calo di oltre il 99% e la Juventus del 6,7% nonostante gli 11, 12 con quello revocato, campionati vinti dal 2001».
Tim, da Cassazione assist a Vivendi
La Consob di Paolo Savona va a sbattere contro la Cassazione sul caso Vivendi-Telecom. E la questione rischia di avere ricadute sul futuro della rete unica a poche ore dal tavolo di governo che si terrà oggi e a una settimana dalle dimissioni, dal consiglio di amministrazione di Tim, dell’amministratore delegato di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine. Del resto, come stabilito dalla sentenza, non avendo il controllo della società di telecomunicazioni, l’azionista francese non ha obblighi sul fronte del consolidamento del debito di quasi 30 miliardi di euro.
De Puyfontaine aveva deciso di farsi da parte «per tenersi le mani libere» ma, come spiegò il ministro per lo Sviluppo economico, Adolfo Urso, le dimissioni dell’azionista dal board non avrebbero di certo «semplificato la trattativa di Cassa depositi e prestiti sulla rete». Ora è arrivata anche la sentenza della Cassazione a ingarbugliare le cose. Con un’ordinanza che risale all’11 ottobre, ha dichiarato «inammissibile» il ricorso della Consob e confermato che Vivendi non ha «il controllo di fatto» su Tim. L’autorità garante del mercato si è vista, così, bocciare il ricorso contro la decisione del Consiglio di Stato che aveva annullato, su ricorso di Tim e Vivendi, sia la deliberazione della Commissione che qualificava il rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom Italia in termini di controllo di fatto, sia la decisione del Tar a favore della Consob.
La questione è annosa. Risale all’epoca dell’ingresso dei francesi nella compagnia telefonica, nel giugno del 2015, con una partecipazione iniziale del 6,66%, poi salita fino all’attuale 23,95% circa del capitale. Secondo la Consob, questa quota era sufficiente a determinare il controllo societario di fatto, avallando, dunque, la possibilità in capo a Vivendi della nomina della maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Tim il 13 settembre del 2017. Nell’agosto del 2017, la società francese aveva ribadito in una nota, su richiesta dell’autorità, come «la partecipazione detenuta in Telecom Italia» non fosse «sufficiente a determinare alcuno stabile esercizio di una influenza dominante sulle assemblee dei soci di Telecom Italia».
E aveva aggiunto come «a tal proposito, da tutti i dati empirici – ivi inclusa la presenza alle assemblee ordinarie dei soci di Telecom Italia a decorrere dal 22 giugno 2015 fino al 4 maggio 2017, la partecipazione detenuta dai presenti e l’esito delle deliberazioni assunte – emerge univocamente che Vivendi non detiene una posizione di controllo nelle assemblee ordinarie dei soci di Telecom Italia». Sempre quell’anno, Tim aveva deciso di impugnare la decisione della Consob di fronte al Tar che aveva legittimato l’accertamento dell’autorità.
A questo punto era stato il Consiglio di Stato (il 14 dicembre 2020) a ribaltare la questione, annullando la delibera di Consob. Ora è arrivata la conferma da parte della Cassazione dopo il ricorso della nostra autorità garante. «Dal momento in cui abbiamo insediato il tavolo» sulla rete nazionale, che «riprende domani (oggi, ndr), «il titolo di Tim in Borsa è cresciuto del 27-28%. Nei mesi precedenti, aveva perso quasi la metà del proprio valore», ricordava ieri il ministro Urso durante la sua prima missione a Bruxelles.
«Il che vuol dire», ha aggiunto, «che la Borsa crede nell’azione che il governo ha messo in piedi per realizzare la rete nazionale a controllo pubblico per innervare l’intero Paese e diventare un vantaggio competitivo come noi crediamo che debba essere. Stiamo facendo un percorso comune con tutti gli attori che partecipano: quelli istituzionali, i ministeri ma anche gli attori privati e pubblici e, credo, che qualche risultato lo si abbia già avuto», ha aggiunto Urso.
Sempre secondo il ministro, «il punto fermo è una rete nazionale a controllo pubblico e, quindi, a guida di Cassa depositi e prestiti. Questo non esclude che anche altri attori possano partecipare nel realizzare questo progetto».
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L’ex presidente Giuseppe Vegas: «Le società non hanno solidità e trasparenza». Debach (eToro): «Educhiamo gli investitori».La Corte ha bocciato il ricorso della Commissione e conferma che i francesi non hanno «il controllo di fatto» sull’ex Telecom. Così non sono costretti a consolidare il debito.Lo speciale contiene due articoli. Nel pieno della bufera sulla Juventus, già penalizzata di 15 punti nella classifica di Serie A per l’inchiesta sulle plusvalenze, l’ex presidente della Consob Giuseppe Vegas prende di mira le società di calcio quotate in Borsa. «Calcio e Borsa sono inconciliabili» sostiene, e anche se «non entro nel merito delle vicende di cui si occuperanno le autorità» nell’eventualità di una quotazione alle società «si richiedono trasparenza e solidità patrimoniale che sono strutturalmente non alla portata dei club», dice il professore di Economia a Milano Finanza.Le parole arrivano in giorni tormentati per il mondo del calcio. Ma sono anche le stesse che aveva espresso nel 2009 Lamberto Cardia, all’epoca presidente dell’Autorità garante del mercato azionario. «Ritengo che la quotazione delle società calcistiche sia stata e resti un errore». E così, a distanza di 14 anni, mentre la Juventus, quotata ormai dal 2001, deve fare fronte a filoni di inchieste che variano dal bilancio fino ai ritardi negli stipendi, lo scorso mese la Roma Calcio ha completato il delisting dopo lo sbarco a piazza Affari nel 2000. Anche i bianconeri e la Lazio dovrebbero seguire l’esempio dei giallorossi? Secondo Vegas, in passato, «vi fu una spinta forte per portare i club in Borsa, assecondata da alcuni proprietari alla ricerca di risorse fresche. Si pensava di risolvere, così, un problema sportivo ed economico. Si immaginava di riuscire a portare trasparenza nel mondo del calcio, imbrigliando i club nelle forme e nelle procedure delle società per azioni e della quotazione in borsa».Invece, sostiene l’ex presidente Consob, «è successo l’opposto: tanta più trasparenza si richiede a chi non è strutturalmente in grado di fornirla, tanto più cresce il rischio di comportamenti non commendevoli». Non nuovo ad attacchi di questo tipo, si pensi a quello verso il governo nel 2020 («Usare il Recovery fund per progetti concreti e non buttare via i quattrini», disse), Vegas rivolge ora la sua attenzione sul mondo del calcio. «Sebbene sia corretto riportare all’attenzione su come l’andamento di titoli sportivi difficilmente si presti alle normali logiche di investimento, pensiamo a come a volte un’azione possa essere venduta dopo la vittoria di un titolo sportivo, oppure a come le valutazioni risultino essere altamente opinabili e soprattutto volatili, il negare l’accesso alla Borsa rischia di creare un precedente, ma soprattutto confusione» puntualizza alla Verità Gabriel Debach, market analyst di eToro. «Quali sarebbero le basi per definire quali business sarebbero giusti e quali sarebbero vietati? In generale, gli investitori dovrebbero essere maggiormente consapevoli del fatto che le azioni delle società calcistiche possono essere più rischiose rispetto a quelle di altri settori, ma anche molti titoli del Nasdaq possiedono tali etichette».Era il 1996 quando l’allora vicepresidente del Consiglio con delega allo Sport, Walter Veltroni, varò il decreto legge numero 485, sostenuto dall’ambiente calcistico, sulla possibilità anche per le società di calcio di avere fini di lucro. In precedenza, invece, c’era l’obbligo di reinvestire gli utili nell’attività sportiva. In questi 27 anni, la quotazione in Borsa delle squadre di calcio ha, di fondo, coltivato il sogno che i tifosi potessero essere azionisti della propria squadra del cuore. Sembrano lontani i tempi di quando Sergio Cragnotti, ex patron della Lazio e della Cirio, sosteneva che «acquisire azioni delle società di calcio può senza dubbio essere un affare». Eppure, dice adesso Vegas, «i tifosi investono e valutano le società non sulla base dei fondamentali economici ma per spirito di squadra, quindi secondo parametri emotivi. È un problema perché la capitalizzazione del club non cambia al variare del valore degli asset del club e dei suoi risultati economici, come accade nelle normali quotate. Chi si muove, e talvolta con logiche speculative, è invece l’azionista di maggioranza».Secondo Debach, però, solo in parte il ragionamento è corretto. «Certamente i tifosi rischiano di giudicare in maniere errata le basi di una squadra; tuttavia, anche le meme stock hanno generato lo stesso percorso». Quindi, conclude il market analyst di eToro, «la soluzione, più che vietare le quotazioni, sarebbe una maggiore educazione finanziaria degli investitori, i quali tendono ancora eccessivamente a valutare l’investimento basandosi sul maggior rendimento rispetto a una ponderazione sul rischio. Osservando l’evoluzione delle principali squadre di calcio europee quotate in Borsa, non è certamente delle migliori, soprattutto per le italiane, con la Lazio in calo di oltre il 99% e la Juventus del 6,7% nonostante gli 11, 12 con quello revocato, campionati vinti dal 2001».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/calcio-borsa-consob-2659310422.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tim-da-cassazione-assist-a-vivendi" data-post-id="2659310422" data-published-at="1674680999" data-use-pagination="False"> Tim, da Cassazione assist a Vivendi La Consob di Paolo Savona va a sbattere contro la Cassazione sul caso Vivendi-Telecom. E la questione rischia di avere ricadute sul futuro della rete unica a poche ore dal tavolo di governo che si terrà oggi e a una settimana dalle dimissioni, dal consiglio di amministrazione di Tim, dell’amministratore delegato di Vivendi, Arnaud de Puyfontaine. Del resto, come stabilito dalla sentenza, non avendo il controllo della società di telecomunicazioni, l’azionista francese non ha obblighi sul fronte del consolidamento del debito di quasi 30 miliardi di euro. De Puyfontaine aveva deciso di farsi da parte «per tenersi le mani libere» ma, come spiegò il ministro per lo Sviluppo economico, Adolfo Urso, le dimissioni dell’azionista dal board non avrebbero di certo «semplificato la trattativa di Cassa depositi e prestiti sulla rete». Ora è arrivata anche la sentenza della Cassazione a ingarbugliare le cose. Con un’ordinanza che risale all’11 ottobre, ha dichiarato «inammissibile» il ricorso della Consob e confermato che Vivendi non ha «il controllo di fatto» su Tim. L’autorità garante del mercato si è vista, così, bocciare il ricorso contro la decisione del Consiglio di Stato che aveva annullato, su ricorso di Tim e Vivendi, sia la deliberazione della Commissione che qualificava il rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom Italia in termini di controllo di fatto, sia la decisione del Tar a favore della Consob. La questione è annosa. Risale all’epoca dell’ingresso dei francesi nella compagnia telefonica, nel giugno del 2015, con una partecipazione iniziale del 6,66%, poi salita fino all’attuale 23,95% circa del capitale. Secondo la Consob, questa quota era sufficiente a determinare il controllo societario di fatto, avallando, dunque, la possibilità in capo a Vivendi della nomina della maggioranza dei consiglieri di amministrazione di Tim il 13 settembre del 2017. Nell’agosto del 2017, la società francese aveva ribadito in una nota, su richiesta dell’autorità, come «la partecipazione detenuta in Telecom Italia» non fosse «sufficiente a determinare alcuno stabile esercizio di una influenza dominante sulle assemblee dei soci di Telecom Italia». E aveva aggiunto come «a tal proposito, da tutti i dati empirici – ivi inclusa la presenza alle assemblee ordinarie dei soci di Telecom Italia a decorrere dal 22 giugno 2015 fino al 4 maggio 2017, la partecipazione detenuta dai presenti e l’esito delle deliberazioni assunte – emerge univocamente che Vivendi non detiene una posizione di controllo nelle assemblee ordinarie dei soci di Telecom Italia». Sempre quell’anno, Tim aveva deciso di impugnare la decisione della Consob di fronte al Tar che aveva legittimato l’accertamento dell’autorità. A questo punto era stato il Consiglio di Stato (il 14 dicembre 2020) a ribaltare la questione, annullando la delibera di Consob. Ora è arrivata la conferma da parte della Cassazione dopo il ricorso della nostra autorità garante. «Dal momento in cui abbiamo insediato il tavolo» sulla rete nazionale, che «riprende domani (oggi, ndr), «il titolo di Tim in Borsa è cresciuto del 27-28%. Nei mesi precedenti, aveva perso quasi la metà del proprio valore», ricordava ieri il ministro Urso durante la sua prima missione a Bruxelles. «Il che vuol dire», ha aggiunto, «che la Borsa crede nell’azione che il governo ha messo in piedi per realizzare la rete nazionale a controllo pubblico per innervare l’intero Paese e diventare un vantaggio competitivo come noi crediamo che debba essere. Stiamo facendo un percorso comune con tutti gli attori che partecipano: quelli istituzionali, i ministeri ma anche gli attori privati e pubblici e, credo, che qualche risultato lo si abbia già avuto», ha aggiunto Urso. Sempre secondo il ministro, «il punto fermo è una rete nazionale a controllo pubblico e, quindi, a guida di Cassa depositi e prestiti. Questo non esclude che anche altri attori possano partecipare nel realizzare questo progetto».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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