Stellantis & C. scoprono il bluff Ue: «Svolta sulle elettriche disastrosa»
2025-12-19
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Quando a vendere azioni di una società è il suo amministratore delegato non è mai un bel segnale. Anche se in precedenza si era acquistato. Nei giorni scorsi Uberto Fornara ha ceduto titolo della Cairo Communication di cui è amministratore delegato. Nelle comunicazioni obbligatorie di internal dealing sono segnalate cessioni, a piccole tranche, nelle sedute del 17 e 18 maggio scorsi per complessivi 102mila titoli dell’azienda quotata, per un incasso di circa 228 mila euro.
In sole due sedute di Borsa. La cifra in sé per uno degli uomini più vicini ad Urbano Cairo non è eclatante. E Fornara aveva comunque acquistato titoli di Cairo Communication nel corso dell’anno scorso per 160mila pezzi, a prezzi più bassi delle quotazioni cui ha venduto sui massimi del 2022. Piccolo trading quindi con qualche decina di migliaia di euro di plusvalenza. Niente che cambi drasticamente la vita di uno dei manager di punta della squadra fidata dell’imprenditore alessandrino che ha scalato Rcs.
Fornara l’anno scorso ha incassato complessivamente come remunerazione dal gruppo 1,22 milioni di euro e ha tuttora in portafoglio, anche dopo le cessioni di questi giorni, quasi 350 mila azioni Cairo Communicatios. Nessun segnale di crisi dunque tale da far vendere titoli.
IL PORTAFOGLIO DI CAIRO
Ma mentre l’amministratore delegato ha venduto, Urbano Cairo ha invece incrementato le sue posizioni. Nel 2021 ha acquistato altri 450mila titoli del gruppo portando la sua quota di controllo, detenuta attraverso la Ut Communications, a 69,64 milioni di azioni. Non solo; ha comprato anche titoli Rcs per quasi 3 milioni di pezzi portando a oltre 4,6 milioni i titoli della casa editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, posseduti direttamente.
LE REMUNERAZIONI
Oltre all’investimento diretto in titoli il proprietario del gruppo nonché di Rcs vanta una remunerazione tra fisso e bonus nel gruppo di 3,29 milioni di euro per il 2021. Fornara, come detto, ha guadagnato, anche lui tra fisso e incentivi, 1,22 milioni. Mentre l’altro manager di punta di casa Cairo, Marco Pompignoli, ha portato a casa, sempre l’anno scorso, 1,48 milioni di euro. Il terzetto che guida le sorti del gruppo editoriale vale quindi solo di stipendi annui quasi 6 milioni di euro. Tanti? Pochi? Dipende.
Se raffrontati alle remunerazioni medie annue dei dipendenti del gruppo (61 mila euro di Ral) siamo a 100 volte i salari medi. Ovviamente in tre. Il solo Urbano Cairo vale poco più di 50 volte lo stipendio medio lordo di un suo dipendente. Un gap certamente elevato anche se in linea con il divario classico tra capo-azienda e singolo dipendente esistente nei i grandi gruppi quotati.
I RISULTATI ECONOMICI
Ma contano anche le capacità gestionali e i risultati aziendali e qui Cairo e i suoi uomini di comando mostrano sicuramente di saper creare ricchezza. Il gruppo che dal 2016 incorpora anche Rcs macina utili anno su anno. Nel 2021 a livello consolidato ha prodotto ricavi per 1,17 miliardi con un margine operativo lordo salito a 179 milioni dai 109 milioni del 2020. Un margine operativo netto a 103 milioni dai 30 milioni dell’anno prima e un utile netto triplicato a 51 milioni dai 16 milioni del 2020.
Non solo; il gruppo ha azzerato completamente il debito finanziario rilevando una posizione finanziaria netta positiva per 37 milioni a fine dello scorso anno. La parte del leone la fa ovviamente Rcs, che Cairo ha completamente risanato sul piano dell’imponente debito da mezzo miliardo che si ritrovò in capo quando rilevò il primo gruppo editoriale del Paese nell’agosto del 2016. Ma oltre alla situazione finanziaria, riportata in piena salute, Cairo ha fatto correre Rcs sul fronte dei ricavi e dei margini. Nel 2021 l’editrice di Corriere e Gazzetta ha prodotto ricavi per quasi 100 milioni in più rispetto al 2020 a quota 846 milioni. Ma è la marginalità il vero capolavoro di Cairo.
LA RISCOSSA DI RCS
Rilevata una Rcs in perdita pluri-milionaria da anni, ora il gruppo sforna un margine lordo al 17% dei ricavi e un utile di 72 milioni, oltre l’8% del fatturato. Numeri che era impossibile profetizzare quando Cairo conquistò Rcs ormai sei anni fa. Ma anche sull’editoria periodica, il primo business su cui si è esercitato come imprenditore per anni, Cairo continua a tenere botta, benché tale segmento in questa fase sia caratterizzato da perdite e chiusure di testate.
I PERIODICI
La sua prima creatura, la Cairo Editore, non ha mai chiuso in perdita nemmeno nel decennio più tragico della crisi dell’editoria e nel 2021 su ricavi per 88 milioni ha prodotto una marginalità lorda sopra il 10%. Anche l’editoria televisiva con La7 vede ricavi per 115 milioni con un margine lordo di oltre 15 milioni. Il peso degli ammortamenti, più incisivo che su altri business, porta il reddito operativo netto in perdita per 700 mila euro. Nel complesso il gruppo Cairo Communications con i suoi 51 milioni di profitti netti, pari a quasi il 5% dei ricavi, è a buon diritto l’editore più profittevole in un mercato devastato da ricavi in calo costante e perdite che si susseguono da anni. Le remunerazioni dei suoi uomini-guida sono certo elevate, ma conta anche la capacità di saper creare valore. E qui il successo è indubbio.
Quella che i commenti a caldo definivano «svolta epocale», si è prima trasformata in un passo in avanti «importante» - a strettissimo giro sminuito come «significativo» -, e poi è diventata l’ennesimo pastrocchio della Commissione europea che peggiora la già drammatica situazione dell’automotive nel Vecchio continente. La rapidissima parabola delle modifiche annunciate da Bruxelles sui veicoli elettrici si è compiuta quando i diretti interessati, cioè le case automobilistiche, hanno svelato il bluff.
Ma agli occhi più attenti che ci fosse qualcosa che non quadrava era apparso subito chiaro. Non tutti avevano infatti notato che la Vda, la potentissima associazione tedesca del settore, aveva subito storto il naso. Alla «Verband der Automobil» che è solita imporre rigidi standard di qualità ai fornitori di Bmw, Mercedesm e Volkswagen, in modo da assicurare il mantenimento delle alte performance che hanno contraddistinto storicamente le automobili prodotte in loco, l’accordo era immediatamente risultato poco credibile.
Vero che la Commissione parla di riduzione del 90% delle emissioni nocive entro il 2035 e apre la porta per il restante 10% ai motori ibridi e termici, ma ponendo una serie di paletti e condizioni che rischiano di aumentare i costi, già impazziti, del mercato.
«In un momento cruciale per l’Europa», ha spiegato la numero uno della Vda Hildegard Mülleral Financial Times, «l’intero pacchetto proposto da Bruxelles è disastroso. Quella che sembra una maggiore apertura è in realtà una strada piena di ostacoli che rischia di rivelarsi inefficace nella pratica».
A cosa fa riferimento? Per esempio all’obbligo di usare l’acciaio verde, oppure all’imposizione di materiali made in Europe che secondo diversi analisti faranno lievitare i costi delle auto diesel e benzina. Ma non solo.
Perché, forse un po’ a sorpresa, è Stellantis, la casa italo-francese che si era contraddistinta (all’epoca dell’ex ad Carlos Tavares) per una tenace difesa del Green deal, a mostrare le maggiori perplessità. Secondo la ricostruzione di Bloomberg, infatti, il gruppo proprietario dei marchi Jeep, Fiat e Peugeot, ha una posizione netta: le nuove proposte della Commissione sono «inadeguate», non affrontano le sfide della transizione elettrica per i veicoli commerciali leggeri e non prevedono una flessibilità sufficiente per raggiungere gli obiettivi di emissioni nel 2030.
Una bocciatura senza se e senza ma. Bocciatura che è stata confermata dal mercato, all’indomani della presentazione del piano, i titoli di alcuni dei principali produttori interessati hanno perso quota (vedi Stellantis e Volkswagen) mentre l’indice Stoxx Europe 600 Automobiles & Parts ha lasciato sul terreno fino all’1,3%. E da alcuni dei principali analisti, per esempio Ubs. Secondo gli esperti della banca d’investimento svizzera, infatti, la sedicente svolta europea è una delusione. Da una parte per la tempistica. Gli effetti finanziari dei provvedimenti si avranno tra quattro o cinque anni. E poi per le prospettive. Quello che traspare è che Bruxelles, almeno fino a quando resterà questa maggioranza, non è disponibile a fare altre concessioni di sostanza e che la battaglia contro i produttori cinesi che stanno già invadendo il mercato del Vecchio continente può essere considerata persa.
Del resto le trattative sulla stesura delle nuove norme sembra essere stata piuttosto serrata e alla fine chi chiedeva un rinvio più corposo o un taglio degli obiettivi fino al 50% è rimasto deluso.
Tra questi non rientrano i produttori d’auto francesi che hanno invece accolto con meno scetticismo la linea della Commissione, confermando quella che sembra essere diventata una costante dell’Unione Europea. Parigi e Berlino, i due campioni in crisi economica e politica, prima andavano d’accordo su tutto (anzi facevano asse) e adesso fanno fatica a convergere su quasi tutte le partite che contano nell’Ue. Dai rapporti con gli Stati Uniti di Trump e con la Cina di Xi, fino al Mercosur e all’automotive, appunto.
Speranze? Ora la palla passa al Parlamento Ue. Dove si continuerà a negoziare e le posizioni per ora sotterranee diventeranno ufficiali. Molti Stati sperano di spuntare altre concessioni sul trattamento di favore per i veicoli ibridi plug-in e su alcune paletti che oggettivamente sembrano eccessivi. Ma, ammesso che la loro linea riesca a passare, saremo pur sempre di fronte a palliativi, probabilmente solo di facciata, che non affrontano la sostanza del problema. Fino a quando resteranno obblighi che il mercato rigetta, è impossibile pensare a una svolta dell’industria dell’auto in Europa.
Nuove infrastrutture, integrazione delle energie rinnovabili e sicurezza della rete elettrica nazionale. È il quadro delineato da Terna, società guidata dall’ad Giuseppina Di Foggia, che entro il 2025 prevede di portare in esercizio interventi di sviluppo per circa 800 milioni di euro, confermando un impegno pluriennale che dal 2023 ha già visto entrare in funzione opere per oltre 2 miliardi di euro.
«Le opere di Terna entrate in esercizio rendono la trasmissione dell’energia più sicura e la rete più flessibile», ha dichiarato Di Foggia. «Il collegamento sottomarino con l’Isola d’Elba, il potenziamento della rete elettrica siciliana, le nuove interconnessioni con l’Austria e la Francia: infrastrutture sostenibili che rafforzano la rete e permettono di integrare nuova energia rinnovabile».
dal 2023 a oggi sono stati autorizzati oltre 80 progetti per un valore complessivo superiore ai 6 miliardi di euro, di cui 36 nuovi interventi nel corso dell’anno per circa 1 miliardo di euro, distribuiti su tutto il territorio nazionale. Tra questi, spiccano opere come la razionalizzazione della rete nella Brianza Ovest, la nuova stazione elettrica a Volpago (Treviso), l’elettrificazione delle banchine del porto di La Spezia e il riassetto del Quadrante Sud-Ovest di Roma.
L’importanza delle infrastrutture non si limita alla sicurezza della rete: esse svolgono un ruolo cruciale nell’integrazione delle fonti rinnovabili, elemento centrale del percorso di transizione energetica nazionale. «Gli interventi realizzati assicurano maggiore capacità di trasporto dell’energia dai punti di generazione alle aree di maggiore consumo», ha spiegato Di Foggia. «È la conferma della nostra capacità di esecuzione. E continueremo così: per garantire all’Italia un sistema elettrico più affidabile e pronto per le sfide del futuro».
Nel 2025, oltre 300 chilometri di nuovi collegamenti elettrici sono stati realizzati con soluzioni a ridotto impatto ambientale. Tra le opere principali, quelle pensate per i Giochi olimpici e paralimpici invernali di Milano-Cortina 2026, che prevedono oltre 130 chilometri di elettrodotti interrati, destinati a garantire una magliatura più robusta della rete elettrica e una maggiore affidabilità nella gestione dei picchi di domanda.
In Sicilia, la completata direttrice a 380 chilovolt Paternò-Pantano-Priolo rafforza la continuità del servizio e sostiene l’integrazione di fonti rinnovabili, tra cui solare ed eolico. Sul fronte delle interconnessioni internazionali, gli elettrodotti tra Italia e Francia, Italia e Austria e il collegamento sottomarino Elba-Continente hanno incrementato la capacità di scambio energetico e rafforzato la stabilità del sistema elettrico nelle regioni alpine e costiere.
Il programma di sviluppo di Terna non riguarda solo la costruzione di infrastrutture, ma anche l’innovazione tecnologica. Nel 2025 è stato predisposto il Piano di sicurezza, con interventi dedicati alla prevenzione e mitigazione dei disservizi attraverso l’introduzione di sistemi avanzati di monitoraggio e digitalizzazione delle reti. In parallelo, il Piano industriale del gruppo destina 2,3 miliardi di euro al potenziamento della sicurezza e della stabilità della rete nazionale, con l’installazione di nuove apparecchiature di regolazione, tra cui compensatori sincroni, reattori, Statcom e resistori stabilizzanti.
Gli interventi previsti e già autorizzati sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e mirano a rafforzare la capacità di trasporto dell’energia dai punti di produzione alle zone a maggiore consumo, con un occhio alla sostenibilità ambientale e all’efficienza complessiva del sistema. Tra i progetti di rilevanza nazionale ed europea spiccano le interconnessioni sottomarine: il ramo Ovest del Tyrrhenian Link, tra Sicilia e Sardegna; il progetto Sa.Co.I 3 per il rinnovo e potenziamento dell’elettrodotto tra Sardegna, Corsica e Toscana; l’Adriatic Link tra Marche e Abruzzo; il ponte energetico Elmed, tra Italia e Tunisia; e l’elettrodotto Bolano-Annunziata tra Calabria e Sicilia.
La realizzazione di infrastrutture strategiche e l’adozione di tecnologie innovative rappresentano un elemento fondamentale per garantire affidabilità e sicurezza della rete. Oggi più che mai, in un contesto di crescente domanda energetica e transizione verso fonti rinnovabili, è necessario avere una rete elettrica flessibile e sicura.
La gestione delle interconnessioni internazionali è un altro tassello cruciale della strategia Terna. I collegamenti esistenti e le future opere, una volta in esercizio, permetteranno non solo di
scambiare energia elettrica in maniera efficiente, ma anche di aumentare la stabilità e la sicurezza del sistema energetico europeo. L’allacciamento sottomarino Elba-Continente, ad esempio, raddoppia la capacità di trasporto dell’isola, garantendo continuità di fornitura e maggiore affidabilità anche in condizioni di emergenza.
Oltre alla realizzazione fisica delle infrastrutture, Terna ha investito nella digitalizzazione della rete, implementando tecnologie che permettono di monitorare e gestire il flusso di energia in tempo reale. L’obiettivo è prevenire disservizi, ottimizzare la distribuzione e aumentare la resistenza della rete agli effetti dei cambiamenti climatici.
La Commissione europea si è appena autocelebrata per aver «rivisto» la sua follia del tutto elettrico al 2035, decretando che non ci sarà il bando totale dei motori a combustione e che l’obiettivo scende al 90%. In altre parole, si fa un passo indietro dopo lo schianto e poi si finge di aver aperto una porta. Una «svolta» dettata dalla crisi industriale e dal pressing delle case automobilistiche, con gli stabilimenti al rallentatore.
Quel 90% è una foglia di fico burocratica che consente agli ambientalisti di raccontare ai propri fedeli che il termico sopravviverà. Per completare l’opera, si spalma tutto con «compensazioni delle emissioni» per dare una patina di virtù contabile, incluso l’ineffabile «acciaio verde» che non esiste su scala industriale ed economicamente sostenibile, come ho mostrato nel mio libro «L’utopia dell’idrogeno». La Commissione persevera nel negare la libertà (neutralità) tecnologica, imponendo persino sotto-obiettivi: 7% di compensazione via acciaio a basse emissioni prodotto in Europa e 3% via biocarburanti.
I media italiani deludono: titoli trionfalistici su «vittoria», «retromarcia», «salta lo stop ai motori termici»… Anche Adolfo Urso sembra berci su, parlando di «una breccia nel muro dell’ideologia».
Anzi, è peggio di prima. Per mesi tutti si aspettavano una vera revisione, tanto la traiettoria era impraticabile. Invece Bruxelles concede quel 10%, ma zavorrato da condizioni che rendono il messaggio ancora più incomprensibile. Risultato: i costruttori non danno più credito alla parola pubblica e il segnale per gli investimenti diventa un guazzabuglio normativo. La «neutralità tecnologica» chiesta da un fronte guidato da Germania e Italia non è tornata: si continuano a imporre traiettorie anziché traguardi, con arbitrati politici all’ultimo minuto.
Questa è un’operazione d’immagine, non una politica industriale: ci viene servita la solita narrazione dell’«UE in avanguardia» e una roadmap «da rivedere al più presto», bella ammissione di impreparazione, camuffata da pragmatismo alla vigilia del pacchetto auto di dicembre 2025. Nel 2022 scrivevo: «Il compianto Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat‑Chrysler, dichiarò senza mezzi termini al Salone di Detroit 2014: “Non comprate le mie auto elettriche, perché perdo 10.000 euro a vettura”».
Eppure, i vertici dell’automotive hanno ceduto alle sirene della decarbonizzazione e, temendo di non apparire «verdi», hanno messo da parte la razionalità per applaudire le ingiunzioni delle Ong ambientaliste, di cui Ursula von der Leyen e Frans Timmermans sono diventati il megafono. Vale la pena ricordarlo: l’obiettivo degli ambientalisti non è mai stato favorire l’auto elettrica, bensì mettere in scacco l’automobile, il nemico da abbattere.
Il mercato non marcia al ritmo imposto. I pochi veicoli elettrici che vediamo sono trainati dall’obbligo per imprese e liberi professionisti di passare all’elettrico per accedere a sconti fiscali; per gli altri, piovono bonus, sussidi e detrazioni. Una costruzione altamente discriminatoria verso la maggioranza dei cittadini che non può permettersi vetture così costose.
L’Ue si scopre vulnerabile lungo l’intera catena del valore, stretta nella tenaglia tra i campioni cinesi e Tesla, mentre i costi lievitano e le dipendenze si consolidano.
Non facciamoci illusioni: se la Commissione ha peccato d’ideologia, molti top manager dell’auto hanno applaudito a vincoli ingestibili finché l’orchestra suonava. Oggi la fiducia dei cittadini è evaporata, non quella di certi leader politici che fanno finta di credere a un cambio di rotta della Commissione.
Dopo aver puntato tutto sulla decarbonizzazione dal 2019, Ursula von der Leyen non può permettersi di perdere la faccia: fino a fine mandato non cambierà una virgola. L’Ue continuerà a impantanarsi.
*Professore di geopolitica
dell’energia, funzionario della Commissione Ue in pensione
