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2022-05-16
C'era una volta l'infermiere
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Quando si pensa alla sanità, le riflessioni spesso e volentieri convogliano sui medici, e ancora più spesso sui medici di base. Sono quelli più in vista, quelli con cui tutti hanno un contatto più o meno diretto ed è risaputo ormai che i medici sono pochi, perciò, per esempio, i tempi di attesa per ricevere un riscontro dal medico di famiglia si dilatano. Se però la mancanza di medici diventa sempre più problematica e fa impallidire addetti ai lavori e pazienti, davanti alla carenza degli infermieri si può solamente tremare.
Il diciassettesimo Rapporto Crea Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) è molto netto sulla carenza infermieristica. Spiega che la questione peculiare rimane quella dell’adeguatezza degli organici. A livello internazionale, in termine di numeri di medici che praticano attivamente la professione, il nostro Paese, secondo i dati Oecd, è in cima alle graduatorie. Nel 2018 in Italia si contano 4,06 medici per 1.000 abitanti contro 3,17 in Francia ed i 2,84 nel Regno Unito. La Spagna presenta un valore simile all’Italia (4,0), mentre in Germania si registrano 4,3 medici per 1.000 abitanti. E pensare che la percezione della popolazione è ben diversa. Per il personale infermieristico attivo la situazione si ribalta e nel nostro Paese si registra un tasso molto inferiore alla media europea. Nel 2018 in Italia operano 5,5 infermieri per 1.000 abitanti contro i 7,8 del Regno Unito, i 10,8 della Francia ed i 13,2 della Germania. Solo la Spagna si avvicina a noi con un tasso pari a 5,8 ogni 1.000 abitanti.
Il Rapporto sottolinea che in assoluto il surplus di medici di traduce in un’eccedenza di quasi 29.000 unità, mentre gli infermieri mancanti sarebbero oltre 237.000. In particolare, con riferimento alla sola fascia over 75, che è in continua crescita per effetto della scarsa natalità e l’allungamento di vita, «il numero di medici ogni 1.000 abitanti over 75 risulta essere inferiore rispetto a quello della media dei Paesi europei considerati e, a maggior ragione, quello degli infermieri: allo stato attuale, mancherebbero all’appello più di 17.000 medici e 350.000 infermieri». A seconda, dunque, delle fasce di popolazione in esame il deficit di personale infermieristico passa da un minimo di 237.282 unità a un massimo di 350.074.
È evidente che servirà nei prossimi anni un intervento massiccio sul settore sanitario, non solo preventivando una maggior spesa sul costo del personale, entro cui un ruolo fondamentale potrebbe avere il Pnrr, ma sincerandosi della capacità produttiva degli Atenei. Anche nell’anno accademico 2021-2022, infatti, il sistema formativo italiano sta continuando a formare meno infermieri del necessario. I posti di primo anno di corso di laurea per infermieri richiesti da Regione e Ordine degli infermieri erano 23.498, ma i posti messi a disposizione dalle Università sono rimasti fermi a 17.394. I corsi sono stati accessibili, dunque, al 26% in meno di quanto richiesto dalle Regioni. A livello nazionale, le domande di accesso al primo anno sono state 27.952. Il 38% delle aspiranti matricole ha visto respinta la propria richiesta. Inoltre, rispetto al 2020 le domande sono aumentate del 13,6%, ma i posti non hanno tenuto il ritmo e sono saliti solo dell’8,6%. Un dato preoccupante si ottiene a Milano, dove solo il 53% dei candidati è riuscito ad entrare al primo anno di corso di laurea per infermiere in una delle quattro università disponibili.
In ogni caso soluzioni a breve termine per una carenza così stringente non sembrano essere presenti, soprattutto per i centri privati che combattono sia con la mancanza di personale, sia con la competizione della sanità pubblica, date le recenti riaperture di graduatorie e concorsi.
Dove questa problematica risulta più evidente è nelle Rsa, dove, da quanto emerge dal quarto Rapporto Osservatorio Long Term Care Cergas Bocconi - Essity, mancano all’appello il 26% degli infermieri, con picchi di gestori che segnalano essere alla ricerca del 50% degli infermieri, il 18% dei medici e il 13% degli Oss. Quelli che ci sono al momento non sono adeguati a rispondere alla domanda dei circa quattro milioni di italiani non più autosufficienti e questo può declinarsi in una possibile compromissione dei servizi. Inoltre, il 100% dei gestori delle residenze sanitarie assistenziali partecipanti all’analisi dichiara di vivere in una situazione critica nella gestione del personale a causa della carenza di unità (94%), di motivazione (56%) e di casi di burnout (38%). I responsabili delle strutture parlano di offerte di assunzioni, a cui non si è presentato nessuno, o, quando presenti, i candidati erano in un numero talmente irrisorio da impedire una vera selezione. Tutte problematiche già presenti dalla primavera del 2020, che il Covid ha sicuramente acuito.
L’unica soluzione per molti centri pare sia quella di aprire le proprie porte all’estero, pagando corsi intensivi online di italiano a infermieri stranieri, purché vengano in Italia a curare i nostri anziani.
Ci curano senza sapere nemmeno l’italiano
La carenza di infermieri in Italia è talmente stringente che le soluzioni delle strutture sanitarie per ovviare al problema sono le più svariate. Nonostante la loro drammaticità, non può che togliere un sorriso constatare come ci si stia arrampicando sugli specchi pur di non lasciare i nostri anziani a farsi le punture da soli.
I casi presenti nelle cronache locali sono numerosi e spaziano in tutta Italia.
Il Consorzio il Solco, a Ravenna, per esempio, ha annunciato, quasi con toni trionfalistici, l’assunzione di 36 infermieri di nazionalità tunisina e albanese. Oltre al periodo di quarantena, i nuovi arrivati hanno dovuto sostenere un corso intensivo online di italiano. Chissà cosa avranno imparato con un mero corso online, non essendo neanche lingue particolarmente affini all’italiano. È immaginabile la confusione che si verrà a creare nella comunicazione fra gli anziani e i nuovi infermieri che non spiccicheranno una parola della nostra lingua. Da fuori potrebbe sembrare un interessante quadretto comico.
Ma procediamo.
Nelle case di riposo veronesi si va a pescare oltre oceano. Le fondazioni veronesi Giovanni Meritani, Villa Serena, Pia Opera Ciccarelli e l’Istituto Assistenza Anziani hanno rafforzato le truppe con 25 infermieri provenienti dagli ospedali e dalle cliniche della Repubblica Dominicana e del Brasile. «Dopo la prima selezione sono stati organizzati corsi di italiano nel paese di origine dei candidati, che proseguiranno nelle nostre sedi. È previsto poi un periodo di affiancamento ad infermieri italiani durante i servizi», ha fatto presente Andrea Pizzocaro, direttore della «Meritani», al quotidiano online L’Arena.
Sempre in Veneto, a Padova, la Fondazione Santa Tecla fa da apripista al l’assunzione di sette infermieri keniani. Sì, la situazione si è ribaltata. Vengono dal Kenya in missione in Italia.
E ancora. L’arrivo di 2.000 ucraini in fuga dalla guerra con la qualifica di medici e infermieri è stato preso come una manna dal cielo per le strutture sanitarie. Potranno temporaneamente lavorare da noi fino al 2023, grazie al via libera concesso dal governo con il decreto del 21 marzo. La maggioranza delle richieste per i professionisti ucraini arrivano da strutture di Puglia, Calabria, Sicilia e Veneto, pronto ad assumerne 250, soprattutto infermieri per le case di riposo, ma anche per i Pronto Soccorso e gli ambulatori, pubblici e privati. Insomma, le Regioni li hanno agguantati come i ragazzini le figurine Panini mancanti.
Poi c’è la spola che fanno ogni sera gli infermieri sloveni, attraversando il confine per assistere pazienti delle Rsa di Treviso durante le ore notturne. Da noi gli infermieri mancano e loro ne approfittano, portandosi a casa, come riporta la Tribuna di Treviso, 360 euro a notte, cifre da capogiro.
La ciliegina sulla torta è sicuramente l’idea dell’Asl dell’Alto Adige, che potrebbe essere rinominata «Chi trova un amico trova un tesoro». L’azienda ha inviato una mail ai dipendenti, in cui offriva 400 euro come «premio di produttività aggiunto» ogni nuovo infermiere reclutato. Ne porti due? Premio doppio. L’azienda sanitaria ha poi spiegato che la mail, che ha fatto andare su tutte le furie i sindacati, si trattava solo del primo passo di un progetto che andava ancora formalizzato. «Si voleva» hanno spiegato «semplicemente vedere quale tipo di adesione ci potrebbe essere». Poco importa se la pensata andrà in porto o meno, perché basta a descrivere la situazione disastrosa in cui ci troviamo.
Alla fin fine, gli anziani delle Rsa dovranno ringraziare se a curarli saranno degli ispanici. Almeno la nostra lingua è simile.
«Stipendi bassi per il troppo lavoro»
«Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma, è netto in merito alla situazione emergenziale in cui gravita il settore infermieristico italiano.
Quanto è grave la carenza di infermieri nel nostro Paese?
«È una vera e propria emergenza. Il problema è che gli operatori all’acme della formazione, dopo l’università, la quale prevede che imparino a gestire elevate responsabilità, non vengono considerati per l’elevata potenzialità che hanno, e ciò si riflette anche a livello contrattuale. Questo porta disaffezione alla professione e l’emergenza odierna. Dalla carenza degli anni passati di 60.000 unità, durante la pandemia si sono toccate vette di 85.000, perché con il Covid sono cambiati i servizi assistenziali. Ciò che questo governo vuol fare, attraverso il Pnrr, investendo sulla sanità territoriale e le case di comunità, andrà ad acuire l’emergenza. Ci sono state delle assunzioni durante il Covid, ma paradossalmente sono state per la maggior parte a tempo determinato. Ci ritroviamo con una carenza strutturale che viaggia sulle 80.000 unità, nonostante la pandemia sia passata, per l’introduzione dell’infermiere di famiglia».
Il rapporto Crea individua una carenza di oltre 200.000 unità.
«Tenga in considerazione che i numeri di cui noi stiamo parlando sono quelli minimi per garantire l’assistenza. Se poi vogliamo far riferimento alle medie europee, abbiamo un tasso bassissimo di infermieri per numero di abitanti. Alla luce di quella che sarebbe un’assistenza ottimale, e non ai minimi, servirebbero gli infermieri stimati dal Crea. Il problema è che in Italia non ci sono politiche di programmazione, e la grave carenza di infermieri non viene compensata. La prospettiva di un laureato in infermieristica è di finire in un reparto ospedaliero, in aziende che ti chiedono di fare centinaia di ore di straordinario al mese, senza che le ore vengano retribuite. Da un lato ti dicono che quelle ore le potrai recuperare, ma essendo sempre in emergenza, se manca il personale manca non si sa con chi sostituirlo. Per quale motivo non cedere quando ti arriva l’agenzia interinale inglese o svizzera che ti propone uno stipendio dai 2.500 ai 5.000 euro?».
Quanto incide il fatto che i nostri giovani scappino all’estero a lavorare?
«Con l’emergenza che abbiamo noi, anche dieci unità sono un problema. E le persone che se ne vanno sono decine. Con il sindacato siamo stati costretti a fare accordi con agenzie interinali estere per accompagnare i nostri colleghi a lavorare in Germania e in Inghilterra. Ma le pare normale che con l’emergenza che abbiamo accompagniamo le nostre eccellenze ad andare a lavorare per cittadini di altri Paesi? La politica nostrana al di là delle belle parole non produce fatti, perché gli infermieri stanno chiedendo da anni una valorizzazione».
Qual è l’origine della carenza?
«Gli infermieri sono pochi perché mancano le condizioni per attirare i giovani a svolgere questa professione e perché i nostri ministeri non sono in grado di allargare i posti delle università. La decisione di mantenere il numero chiuso, evidentemente non è una decisione dettata dalla necessità, vista l’emergenza, ma dalla politica. Ho il sospetto che i politici che sanno dell’emergenza sanno anche che se si programma il numero più alto di infermieri da formare ogni anno, questi in un secondo momento dovranno essere assunti e pagati. Non vorremmo mai che questa politica bieca da un lato predichi bene, ma poi non crei le premesse perché gli infermieri vengano formati. Che senso ha il limite annuo alla formazione di infermieri, in piena emergenza, in una situazione in cui servirebbero come il pane? È davvero paradossale che gli infermieri siano meno della media europea, mentre i medici sono di più. I medici ci sono, lo testimoniano i dati. Rispetto agli infermieri non c’è proprio paragone».
Come si sta cercando di colmare la carenza di infermieri?
«Con soluzioni creative. Infermieri dall’estero spesso. Addirittura, la regione Veneto attraverso una delibera ha attribuito funzioni di prassi infermieristiche a operatori sociosanitari, abilitandoli con un piccolo corso. Un rischio per i cittadini. Continuiamo a mettere delle pezze sulla carenza, non valorizzando la professione. Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea».
Quelli che se ne vanno all’estero. «Pagati di più e trattati meglio»
Una diretta conseguenza alla mancanza di personale infermieristico è che le aziende chiedono ai propri dipendenti molte ore di straordinario ed è difficile riuscirsi a prendere qualche settimana di ferie. Lo straordinario però è ormai è diventato routinario e soprattutto le aziende decidono cosa sia straordinario o meno. Perciò, molte ore extra fatte dagli infermieri non vengono retribuite come straordinario, ma segnate come ore da recuperare. Si riesce effettivamente a recuperare questi giorni? Spesso no, non essendoci infermieri a sostituire i colleghi. Si creano allora situazioni paradossali, come quella di Francesca Batani, responsabile del sindacato Nursing Up della regione Emilia-Romagna, che è arrivata ad avere 110 ore di recupero arretrate più 100 giorni di ferie, quelle che si accumulano in tre anni. Inoltre, quando ci sia possibilità di recuperare le ore, è necessario rimanere a disposizione per eventuali emergenze. Francesca Batani racconta anche che molto spesso i giovani che si trasferiscono da un’azienda all’altra non hanno modo di recuperare le ore che spetterebbero loro di diritto. Spostandosi, magicamente tutte quelle ore lavorate scompaiono. L’infermiere regala dunque all’azienda ore di lavoro, che diventano volontariato in un cambio di ospedale.
Non è difficile capire perché molti giovani decidono di provare un’esperienza lavorativa in altri Paesi. In Inghilterra, riferisce Giulia, infermiera neolaureata, attualmente a Bristol, c’è possibilità di crescita. In Italia, dopo la laurea, si comincia a lavorare, mentre se si vuole studiare, sono disponibili master a proprie spese o la laurea magistrale che però non è clinica, ma manageriale. All’estero puoi specializzarti anche a livello clinico e fare carriera. E oltretutto si viene anche retribuiti molto di più.
In base all’esperienza e alla specializzazione si sale di livello, ma oltre a una crescita verticale, è prevista, a livello salariale, annualmente una progressione orizzontale e un aumento del 3% per combattere l’inflazione . Esiste anche la libera professione e gli ospedali hanno la possibilità di assumere infermieri che non lavorano in reparto a tempo pieno, ma i loro turni vengono assegnati in base alle necessità dell’ospedale. Se uno vuole fare la libera professione, che in Italia è considerata extra moenia, esistono agenzie attraverso appalti e paghe orarie diverse che, una volta verificati i requisiti dei singoli, li assegnano a seconda della specialità. Gli infermieri possono anche decidere di aprire aziende in proprio.
L’estero è gremito di stimoli, mentre noi non lasciamo neanche le ferie ai nostri professionisti.
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Il rapporto Crea registra la drammatica carenza di paramedici: ne mancano 350.000, una situazione opposta al resto d’Europa. Ma i fondi destinati alla sanità restano scarsi e i corsi di formazione rimangono a numero chiuso.Per sopperire alla mancanza di personale le aziende reclutano da Kenya, Repubblica Dominicana, Tunisia, Brasile, Ucraina, Slovenia, Albania. Le richieste maggiori dal Veneto e dal Sud. Gli anziani pur di non farsi le punture da soli comunicano a gesti.Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma: «Gli ospedali chiedono di fare centinaia di ore di straordinario non retribuite. I politici nonostante i proclami non vogliono investire».Quelli che se ne vanno all’estero: in Italia turni massacranti e pochi riconoscimenti, a Londra possibilità di carriera.Lo speciale contiene quattro articoli.Quando si pensa alla sanità, le riflessioni spesso e volentieri convogliano sui medici, e ancora più spesso sui medici di base. Sono quelli più in vista, quelli con cui tutti hanno un contatto più o meno diretto ed è risaputo ormai che i medici sono pochi, perciò, per esempio, i tempi di attesa per ricevere un riscontro dal medico di famiglia si dilatano. Se però la mancanza di medici diventa sempre più problematica e fa impallidire addetti ai lavori e pazienti, davanti alla carenza degli infermieri si può solamente tremare. Il diciassettesimo Rapporto Crea Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) è molto netto sulla carenza infermieristica. Spiega che la questione peculiare rimane quella dell’adeguatezza degli organici. A livello internazionale, in termine di numeri di medici che praticano attivamente la professione, il nostro Paese, secondo i dati Oecd, è in cima alle graduatorie. Nel 2018 in Italia si contano 4,06 medici per 1.000 abitanti contro 3,17 in Francia ed i 2,84 nel Regno Unito. La Spagna presenta un valore simile all’Italia (4,0), mentre in Germania si registrano 4,3 medici per 1.000 abitanti. E pensare che la percezione della popolazione è ben diversa. Per il personale infermieristico attivo la situazione si ribalta e nel nostro Paese si registra un tasso molto inferiore alla media europea. Nel 2018 in Italia operano 5,5 infermieri per 1.000 abitanti contro i 7,8 del Regno Unito, i 10,8 della Francia ed i 13,2 della Germania. Solo la Spagna si avvicina a noi con un tasso pari a 5,8 ogni 1.000 abitanti.Il Rapporto sottolinea che in assoluto il surplus di medici di traduce in un’eccedenza di quasi 29.000 unità, mentre gli infermieri mancanti sarebbero oltre 237.000. In particolare, con riferimento alla sola fascia over 75, che è in continua crescita per effetto della scarsa natalità e l’allungamento di vita, «il numero di medici ogni 1.000 abitanti over 75 risulta essere inferiore rispetto a quello della media dei Paesi europei considerati e, a maggior ragione, quello degli infermieri: allo stato attuale, mancherebbero all’appello più di 17.000 medici e 350.000 infermieri». A seconda, dunque, delle fasce di popolazione in esame il deficit di personale infermieristico passa da un minimo di 237.282 unità a un massimo di 350.074.È evidente che servirà nei prossimi anni un intervento massiccio sul settore sanitario, non solo preventivando una maggior spesa sul costo del personale, entro cui un ruolo fondamentale potrebbe avere il Pnrr, ma sincerandosi della capacità produttiva degli Atenei. Anche nell’anno accademico 2021-2022, infatti, il sistema formativo italiano sta continuando a formare meno infermieri del necessario. I posti di primo anno di corso di laurea per infermieri richiesti da Regione e Ordine degli infermieri erano 23.498, ma i posti messi a disposizione dalle Università sono rimasti fermi a 17.394. I corsi sono stati accessibili, dunque, al 26% in meno di quanto richiesto dalle Regioni. A livello nazionale, le domande di accesso al primo anno sono state 27.952. Il 38% delle aspiranti matricole ha visto respinta la propria richiesta. Inoltre, rispetto al 2020 le domande sono aumentate del 13,6%, ma i posti non hanno tenuto il ritmo e sono saliti solo dell’8,6%. Un dato preoccupante si ottiene a Milano, dove solo il 53% dei candidati è riuscito ad entrare al primo anno di corso di laurea per infermiere in una delle quattro università disponibili.In ogni caso soluzioni a breve termine per una carenza così stringente non sembrano essere presenti, soprattutto per i centri privati che combattono sia con la mancanza di personale, sia con la competizione della sanità pubblica, date le recenti riaperture di graduatorie e concorsi. Dove questa problematica risulta più evidente è nelle Rsa, dove, da quanto emerge dal quarto Rapporto Osservatorio Long Term Care Cergas Bocconi - Essity, mancano all’appello il 26% degli infermieri, con picchi di gestori che segnalano essere alla ricerca del 50% degli infermieri, il 18% dei medici e il 13% degli Oss. Quelli che ci sono al momento non sono adeguati a rispondere alla domanda dei circa quattro milioni di italiani non più autosufficienti e questo può declinarsi in una possibile compromissione dei servizi. Inoltre, il 100% dei gestori delle residenze sanitarie assistenziali partecipanti all’analisi dichiara di vivere in una situazione critica nella gestione del personale a causa della carenza di unità (94%), di motivazione (56%) e di casi di burnout (38%). I responsabili delle strutture parlano di offerte di assunzioni, a cui non si è presentato nessuno, o, quando presenti, i candidati erano in un numero talmente irrisorio da impedire una vera selezione. Tutte problematiche già presenti dalla primavera del 2020, che il Covid ha sicuramente acuito.L’unica soluzione per molti centri pare sia quella di aprire le proprie porte all’estero, pagando corsi intensivi online di italiano a infermieri stranieri, purché vengano in Italia a curare i nostri anziani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ci-curano-senza-sapere-nemmeno-litaliano" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> Ci curano senza sapere nemmeno l’italiano La carenza di infermieri in Italia è talmente stringente che le soluzioni delle strutture sanitarie per ovviare al problema sono le più svariate. Nonostante la loro drammaticità, non può che togliere un sorriso constatare come ci si stia arrampicando sugli specchi pur di non lasciare i nostri anziani a farsi le punture da soli. I casi presenti nelle cronache locali sono numerosi e spaziano in tutta Italia. Il Consorzio il Solco, a Ravenna, per esempio, ha annunciato, quasi con toni trionfalistici, l’assunzione di 36 infermieri di nazionalità tunisina e albanese. Oltre al periodo di quarantena, i nuovi arrivati hanno dovuto sostenere un corso intensivo online di italiano. Chissà cosa avranno imparato con un mero corso online, non essendo neanche lingue particolarmente affini all’italiano. È immaginabile la confusione che si verrà a creare nella comunicazione fra gli anziani e i nuovi infermieri che non spiccicheranno una parola della nostra lingua. Da fuori potrebbe sembrare un interessante quadretto comico. Ma procediamo. Nelle case di riposo veronesi si va a pescare oltre oceano. Le fondazioni veronesi Giovanni Meritani, Villa Serena, Pia Opera Ciccarelli e l’Istituto Assistenza Anziani hanno rafforzato le truppe con 25 infermieri provenienti dagli ospedali e dalle cliniche della Repubblica Dominicana e del Brasile. «Dopo la prima selezione sono stati organizzati corsi di italiano nel paese di origine dei candidati, che proseguiranno nelle nostre sedi. È previsto poi un periodo di affiancamento ad infermieri italiani durante i servizi», ha fatto presente Andrea Pizzocaro, direttore della «Meritani», al quotidiano online L’Arena. Sempre in Veneto, a Padova, la Fondazione Santa Tecla fa da apripista al l’assunzione di sette infermieri keniani. Sì, la situazione si è ribaltata. Vengono dal Kenya in missione in Italia. E ancora. L’arrivo di 2.000 ucraini in fuga dalla guerra con la qualifica di medici e infermieri è stato preso come una manna dal cielo per le strutture sanitarie. Potranno temporaneamente lavorare da noi fino al 2023, grazie al via libera concesso dal governo con il decreto del 21 marzo. La maggioranza delle richieste per i professionisti ucraini arrivano da strutture di Puglia, Calabria, Sicilia e Veneto, pronto ad assumerne 250, soprattutto infermieri per le case di riposo, ma anche per i Pronto Soccorso e gli ambulatori, pubblici e privati. Insomma, le Regioni li hanno agguantati come i ragazzini le figurine Panini mancanti. Poi c’è la spola che fanno ogni sera gli infermieri sloveni, attraversando il confine per assistere pazienti delle Rsa di Treviso durante le ore notturne. Da noi gli infermieri mancano e loro ne approfittano, portandosi a casa, come riporta la Tribuna di Treviso, 360 euro a notte, cifre da capogiro. La ciliegina sulla torta è sicuramente l’idea dell’Asl dell’Alto Adige, che potrebbe essere rinominata «Chi trova un amico trova un tesoro». L’azienda ha inviato una mail ai dipendenti, in cui offriva 400 euro come «premio di produttività aggiunto» ogni nuovo infermiere reclutato. Ne porti due? Premio doppio. L’azienda sanitaria ha poi spiegato che la mail, che ha fatto andare su tutte le furie i sindacati, si trattava solo del primo passo di un progetto che andava ancora formalizzato. «Si voleva» hanno spiegato «semplicemente vedere quale tipo di adesione ci potrebbe essere». Poco importa se la pensata andrà in porto o meno, perché basta a descrivere la situazione disastrosa in cui ci troviamo. Alla fin fine, gli anziani delle Rsa dovranno ringraziare se a curarli saranno degli ispanici. Almeno la nostra lingua è simile. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="stipendi-bassi-per-il-troppo-lavoro" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> «Stipendi bassi per il troppo lavoro» «Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma, è netto in merito alla situazione emergenziale in cui gravita il settore infermieristico italiano. Quanto è grave la carenza di infermieri nel nostro Paese? «È una vera e propria emergenza. Il problema è che gli operatori all’acme della formazione, dopo l’università, la quale prevede che imparino a gestire elevate responsabilità, non vengono considerati per l’elevata potenzialità che hanno, e ciò si riflette anche a livello contrattuale. Questo porta disaffezione alla professione e l’emergenza odierna. Dalla carenza degli anni passati di 60.000 unità, durante la pandemia si sono toccate vette di 85.000, perché con il Covid sono cambiati i servizi assistenziali. Ciò che questo governo vuol fare, attraverso il Pnrr, investendo sulla sanità territoriale e le case di comunità, andrà ad acuire l’emergenza. Ci sono state delle assunzioni durante il Covid, ma paradossalmente sono state per la maggior parte a tempo determinato. Ci ritroviamo con una carenza strutturale che viaggia sulle 80.000 unità, nonostante la pandemia sia passata, per l’introduzione dell’infermiere di famiglia». Il rapporto Crea individua una carenza di oltre 200.000 unità. «Tenga in considerazione che i numeri di cui noi stiamo parlando sono quelli minimi per garantire l’assistenza. Se poi vogliamo far riferimento alle medie europee, abbiamo un tasso bassissimo di infermieri per numero di abitanti. Alla luce di quella che sarebbe un’assistenza ottimale, e non ai minimi, servirebbero gli infermieri stimati dal Crea. Il problema è che in Italia non ci sono politiche di programmazione, e la grave carenza di infermieri non viene compensata. La prospettiva di un laureato in infermieristica è di finire in un reparto ospedaliero, in aziende che ti chiedono di fare centinaia di ore di straordinario al mese, senza che le ore vengano retribuite. Da un lato ti dicono che quelle ore le potrai recuperare, ma essendo sempre in emergenza, se manca il personale manca non si sa con chi sostituirlo. Per quale motivo non cedere quando ti arriva l’agenzia interinale inglese o svizzera che ti propone uno stipendio dai 2.500 ai 5.000 euro?». Quanto incide il fatto che i nostri giovani scappino all’estero a lavorare? «Con l’emergenza che abbiamo noi, anche dieci unità sono un problema. E le persone che se ne vanno sono decine. Con il sindacato siamo stati costretti a fare accordi con agenzie interinali estere per accompagnare i nostri colleghi a lavorare in Germania e in Inghilterra. Ma le pare normale che con l’emergenza che abbiamo accompagniamo le nostre eccellenze ad andare a lavorare per cittadini di altri Paesi? La politica nostrana al di là delle belle parole non produce fatti, perché gli infermieri stanno chiedendo da anni una valorizzazione». Qual è l’origine della carenza? «Gli infermieri sono pochi perché mancano le condizioni per attirare i giovani a svolgere questa professione e perché i nostri ministeri non sono in grado di allargare i posti delle università. La decisione di mantenere il numero chiuso, evidentemente non è una decisione dettata dalla necessità, vista l’emergenza, ma dalla politica. Ho il sospetto che i politici che sanno dell’emergenza sanno anche che se si programma il numero più alto di infermieri da formare ogni anno, questi in un secondo momento dovranno essere assunti e pagati. Non vorremmo mai che questa politica bieca da un lato predichi bene, ma poi non crei le premesse perché gli infermieri vengano formati. Che senso ha il limite annuo alla formazione di infermieri, in piena emergenza, in una situazione in cui servirebbero come il pane? È davvero paradossale che gli infermieri siano meno della media europea, mentre i medici sono di più. I medici ci sono, lo testimoniano i dati. Rispetto agli infermieri non c’è proprio paragone». Come si sta cercando di colmare la carenza di infermieri? «Con soluzioni creative. Infermieri dall’estero spesso. Addirittura, la regione Veneto attraverso una delibera ha attribuito funzioni di prassi infermieristiche a operatori sociosanitari, abilitandoli con un piccolo corso. Un rischio per i cittadini. Continuiamo a mettere delle pezze sulla carenza, non valorizzando la professione. Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="quelli-che-se-ne-vanno-allestero-pagati-di-piu-e-trattati-meglio" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> Quelli che se ne vanno all’estero. «Pagati di più e trattati meglio» Una diretta conseguenza alla mancanza di personale infermieristico è che le aziende chiedono ai propri dipendenti molte ore di straordinario ed è difficile riuscirsi a prendere qualche settimana di ferie. Lo straordinario però è ormai è diventato routinario e soprattutto le aziende decidono cosa sia straordinario o meno. Perciò, molte ore extra fatte dagli infermieri non vengono retribuite come straordinario, ma segnate come ore da recuperare. Si riesce effettivamente a recuperare questi giorni? Spesso no, non essendoci infermieri a sostituire i colleghi. Si creano allora situazioni paradossali, come quella di Francesca Batani, responsabile del sindacato Nursing Up della regione Emilia-Romagna, che è arrivata ad avere 110 ore di recupero arretrate più 100 giorni di ferie, quelle che si accumulano in tre anni. Inoltre, quando ci sia possibilità di recuperare le ore, è necessario rimanere a disposizione per eventuali emergenze. Francesca Batani racconta anche che molto spesso i giovani che si trasferiscono da un’azienda all’altra non hanno modo di recuperare le ore che spetterebbero loro di diritto. Spostandosi, magicamente tutte quelle ore lavorate scompaiono. L’infermiere regala dunque all’azienda ore di lavoro, che diventano volontariato in un cambio di ospedale. Non è difficile capire perché molti giovani decidono di provare un’esperienza lavorativa in altri Paesi. In Inghilterra, riferisce Giulia, infermiera neolaureata, attualmente a Bristol, c’è possibilità di crescita. In Italia, dopo la laurea, si comincia a lavorare, mentre se si vuole studiare, sono disponibili master a proprie spese o la laurea magistrale che però non è clinica, ma manageriale. All’estero puoi specializzarti anche a livello clinico e fare carriera. E oltretutto si viene anche retribuiti molto di più. In base all’esperienza e alla specializzazione si sale di livello, ma oltre a una crescita verticale, è prevista, a livello salariale, annualmente una progressione orizzontale e un aumento del 3% per combattere l’inflazione . Esiste anche la libera professione e gli ospedali hanno la possibilità di assumere infermieri che non lavorano in reparto a tempo pieno, ma i loro turni vengono assegnati in base alle necessità dell’ospedale. Se uno vuole fare la libera professione, che in Italia è considerata extra moenia, esistono agenzie attraverso appalti e paghe orarie diverse che, una volta verificati i requisiti dei singoli, li assegnano a seconda della specialità. Gli infermieri possono anche decidere di aprire aziende in proprio. L’estero è gremito di stimoli, mentre noi non lasciamo neanche le ferie ai nostri professionisti.
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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