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2022-05-16
C'era una volta l'infermiere
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Quando si pensa alla sanità, le riflessioni spesso e volentieri convogliano sui medici, e ancora più spesso sui medici di base. Sono quelli più in vista, quelli con cui tutti hanno un contatto più o meno diretto ed è risaputo ormai che i medici sono pochi, perciò, per esempio, i tempi di attesa per ricevere un riscontro dal medico di famiglia si dilatano. Se però la mancanza di medici diventa sempre più problematica e fa impallidire addetti ai lavori e pazienti, davanti alla carenza degli infermieri si può solamente tremare.
Il diciassettesimo Rapporto Crea Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) è molto netto sulla carenza infermieristica. Spiega che la questione peculiare rimane quella dell’adeguatezza degli organici. A livello internazionale, in termine di numeri di medici che praticano attivamente la professione, il nostro Paese, secondo i dati Oecd, è in cima alle graduatorie. Nel 2018 in Italia si contano 4,06 medici per 1.000 abitanti contro 3,17 in Francia ed i 2,84 nel Regno Unito. La Spagna presenta un valore simile all’Italia (4,0), mentre in Germania si registrano 4,3 medici per 1.000 abitanti. E pensare che la percezione della popolazione è ben diversa. Per il personale infermieristico attivo la situazione si ribalta e nel nostro Paese si registra un tasso molto inferiore alla media europea. Nel 2018 in Italia operano 5,5 infermieri per 1.000 abitanti contro i 7,8 del Regno Unito, i 10,8 della Francia ed i 13,2 della Germania. Solo la Spagna si avvicina a noi con un tasso pari a 5,8 ogni 1.000 abitanti.
Il Rapporto sottolinea che in assoluto il surplus di medici di traduce in un’eccedenza di quasi 29.000 unità, mentre gli infermieri mancanti sarebbero oltre 237.000. In particolare, con riferimento alla sola fascia over 75, che è in continua crescita per effetto della scarsa natalità e l’allungamento di vita, «il numero di medici ogni 1.000 abitanti over 75 risulta essere inferiore rispetto a quello della media dei Paesi europei considerati e, a maggior ragione, quello degli infermieri: allo stato attuale, mancherebbero all’appello più di 17.000 medici e 350.000 infermieri». A seconda, dunque, delle fasce di popolazione in esame il deficit di personale infermieristico passa da un minimo di 237.282 unità a un massimo di 350.074.
È evidente che servirà nei prossimi anni un intervento massiccio sul settore sanitario, non solo preventivando una maggior spesa sul costo del personale, entro cui un ruolo fondamentale potrebbe avere il Pnrr, ma sincerandosi della capacità produttiva degli Atenei. Anche nell’anno accademico 2021-2022, infatti, il sistema formativo italiano sta continuando a formare meno infermieri del necessario. I posti di primo anno di corso di laurea per infermieri richiesti da Regione e Ordine degli infermieri erano 23.498, ma i posti messi a disposizione dalle Università sono rimasti fermi a 17.394. I corsi sono stati accessibili, dunque, al 26% in meno di quanto richiesto dalle Regioni. A livello nazionale, le domande di accesso al primo anno sono state 27.952. Il 38% delle aspiranti matricole ha visto respinta la propria richiesta. Inoltre, rispetto al 2020 le domande sono aumentate del 13,6%, ma i posti non hanno tenuto il ritmo e sono saliti solo dell’8,6%. Un dato preoccupante si ottiene a Milano, dove solo il 53% dei candidati è riuscito ad entrare al primo anno di corso di laurea per infermiere in una delle quattro università disponibili.
In ogni caso soluzioni a breve termine per una carenza così stringente non sembrano essere presenti, soprattutto per i centri privati che combattono sia con la mancanza di personale, sia con la competizione della sanità pubblica, date le recenti riaperture di graduatorie e concorsi.
Dove questa problematica risulta più evidente è nelle Rsa, dove, da quanto emerge dal quarto Rapporto Osservatorio Long Term Care Cergas Bocconi - Essity, mancano all’appello il 26% degli infermieri, con picchi di gestori che segnalano essere alla ricerca del 50% degli infermieri, il 18% dei medici e il 13% degli Oss. Quelli che ci sono al momento non sono adeguati a rispondere alla domanda dei circa quattro milioni di italiani non più autosufficienti e questo può declinarsi in una possibile compromissione dei servizi. Inoltre, il 100% dei gestori delle residenze sanitarie assistenziali partecipanti all’analisi dichiara di vivere in una situazione critica nella gestione del personale a causa della carenza di unità (94%), di motivazione (56%) e di casi di burnout (38%). I responsabili delle strutture parlano di offerte di assunzioni, a cui non si è presentato nessuno, o, quando presenti, i candidati erano in un numero talmente irrisorio da impedire una vera selezione. Tutte problematiche già presenti dalla primavera del 2020, che il Covid ha sicuramente acuito.
L’unica soluzione per molti centri pare sia quella di aprire le proprie porte all’estero, pagando corsi intensivi online di italiano a infermieri stranieri, purché vengano in Italia a curare i nostri anziani.
Ci curano senza sapere nemmeno l’italiano
La carenza di infermieri in Italia è talmente stringente che le soluzioni delle strutture sanitarie per ovviare al problema sono le più svariate. Nonostante la loro drammaticità, non può che togliere un sorriso constatare come ci si stia arrampicando sugli specchi pur di non lasciare i nostri anziani a farsi le punture da soli.
I casi presenti nelle cronache locali sono numerosi e spaziano in tutta Italia.
Il Consorzio il Solco, a Ravenna, per esempio, ha annunciato, quasi con toni trionfalistici, l’assunzione di 36 infermieri di nazionalità tunisina e albanese. Oltre al periodo di quarantena, i nuovi arrivati hanno dovuto sostenere un corso intensivo online di italiano. Chissà cosa avranno imparato con un mero corso online, non essendo neanche lingue particolarmente affini all’italiano. È immaginabile la confusione che si verrà a creare nella comunicazione fra gli anziani e i nuovi infermieri che non spiccicheranno una parola della nostra lingua. Da fuori potrebbe sembrare un interessante quadretto comico.
Ma procediamo.
Nelle case di riposo veronesi si va a pescare oltre oceano. Le fondazioni veronesi Giovanni Meritani, Villa Serena, Pia Opera Ciccarelli e l’Istituto Assistenza Anziani hanno rafforzato le truppe con 25 infermieri provenienti dagli ospedali e dalle cliniche della Repubblica Dominicana e del Brasile. «Dopo la prima selezione sono stati organizzati corsi di italiano nel paese di origine dei candidati, che proseguiranno nelle nostre sedi. È previsto poi un periodo di affiancamento ad infermieri italiani durante i servizi», ha fatto presente Andrea Pizzocaro, direttore della «Meritani», al quotidiano online L’Arena.
Sempre in Veneto, a Padova, la Fondazione Santa Tecla fa da apripista al l’assunzione di sette infermieri keniani. Sì, la situazione si è ribaltata. Vengono dal Kenya in missione in Italia.
E ancora. L’arrivo di 2.000 ucraini in fuga dalla guerra con la qualifica di medici e infermieri è stato preso come una manna dal cielo per le strutture sanitarie. Potranno temporaneamente lavorare da noi fino al 2023, grazie al via libera concesso dal governo con il decreto del 21 marzo. La maggioranza delle richieste per i professionisti ucraini arrivano da strutture di Puglia, Calabria, Sicilia e Veneto, pronto ad assumerne 250, soprattutto infermieri per le case di riposo, ma anche per i Pronto Soccorso e gli ambulatori, pubblici e privati. Insomma, le Regioni li hanno agguantati come i ragazzini le figurine Panini mancanti.
Poi c’è la spola che fanno ogni sera gli infermieri sloveni, attraversando il confine per assistere pazienti delle Rsa di Treviso durante le ore notturne. Da noi gli infermieri mancano e loro ne approfittano, portandosi a casa, come riporta la Tribuna di Treviso, 360 euro a notte, cifre da capogiro.
La ciliegina sulla torta è sicuramente l’idea dell’Asl dell’Alto Adige, che potrebbe essere rinominata «Chi trova un amico trova un tesoro». L’azienda ha inviato una mail ai dipendenti, in cui offriva 400 euro come «premio di produttività aggiunto» ogni nuovo infermiere reclutato. Ne porti due? Premio doppio. L’azienda sanitaria ha poi spiegato che la mail, che ha fatto andare su tutte le furie i sindacati, si trattava solo del primo passo di un progetto che andava ancora formalizzato. «Si voleva» hanno spiegato «semplicemente vedere quale tipo di adesione ci potrebbe essere». Poco importa se la pensata andrà in porto o meno, perché basta a descrivere la situazione disastrosa in cui ci troviamo.
Alla fin fine, gli anziani delle Rsa dovranno ringraziare se a curarli saranno degli ispanici. Almeno la nostra lingua è simile.
«Stipendi bassi per il troppo lavoro»
«Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma, è netto in merito alla situazione emergenziale in cui gravita il settore infermieristico italiano.
Quanto è grave la carenza di infermieri nel nostro Paese?
«È una vera e propria emergenza. Il problema è che gli operatori all’acme della formazione, dopo l’università, la quale prevede che imparino a gestire elevate responsabilità, non vengono considerati per l’elevata potenzialità che hanno, e ciò si riflette anche a livello contrattuale. Questo porta disaffezione alla professione e l’emergenza odierna. Dalla carenza degli anni passati di 60.000 unità, durante la pandemia si sono toccate vette di 85.000, perché con il Covid sono cambiati i servizi assistenziali. Ciò che questo governo vuol fare, attraverso il Pnrr, investendo sulla sanità territoriale e le case di comunità, andrà ad acuire l’emergenza. Ci sono state delle assunzioni durante il Covid, ma paradossalmente sono state per la maggior parte a tempo determinato. Ci ritroviamo con una carenza strutturale che viaggia sulle 80.000 unità, nonostante la pandemia sia passata, per l’introduzione dell’infermiere di famiglia».
Il rapporto Crea individua una carenza di oltre 200.000 unità.
«Tenga in considerazione che i numeri di cui noi stiamo parlando sono quelli minimi per garantire l’assistenza. Se poi vogliamo far riferimento alle medie europee, abbiamo un tasso bassissimo di infermieri per numero di abitanti. Alla luce di quella che sarebbe un’assistenza ottimale, e non ai minimi, servirebbero gli infermieri stimati dal Crea. Il problema è che in Italia non ci sono politiche di programmazione, e la grave carenza di infermieri non viene compensata. La prospettiva di un laureato in infermieristica è di finire in un reparto ospedaliero, in aziende che ti chiedono di fare centinaia di ore di straordinario al mese, senza che le ore vengano retribuite. Da un lato ti dicono che quelle ore le potrai recuperare, ma essendo sempre in emergenza, se manca il personale manca non si sa con chi sostituirlo. Per quale motivo non cedere quando ti arriva l’agenzia interinale inglese o svizzera che ti propone uno stipendio dai 2.500 ai 5.000 euro?».
Quanto incide il fatto che i nostri giovani scappino all’estero a lavorare?
«Con l’emergenza che abbiamo noi, anche dieci unità sono un problema. E le persone che se ne vanno sono decine. Con il sindacato siamo stati costretti a fare accordi con agenzie interinali estere per accompagnare i nostri colleghi a lavorare in Germania e in Inghilterra. Ma le pare normale che con l’emergenza che abbiamo accompagniamo le nostre eccellenze ad andare a lavorare per cittadini di altri Paesi? La politica nostrana al di là delle belle parole non produce fatti, perché gli infermieri stanno chiedendo da anni una valorizzazione».
Qual è l’origine della carenza?
«Gli infermieri sono pochi perché mancano le condizioni per attirare i giovani a svolgere questa professione e perché i nostri ministeri non sono in grado di allargare i posti delle università. La decisione di mantenere il numero chiuso, evidentemente non è una decisione dettata dalla necessità, vista l’emergenza, ma dalla politica. Ho il sospetto che i politici che sanno dell’emergenza sanno anche che se si programma il numero più alto di infermieri da formare ogni anno, questi in un secondo momento dovranno essere assunti e pagati. Non vorremmo mai che questa politica bieca da un lato predichi bene, ma poi non crei le premesse perché gli infermieri vengano formati. Che senso ha il limite annuo alla formazione di infermieri, in piena emergenza, in una situazione in cui servirebbero come il pane? È davvero paradossale che gli infermieri siano meno della media europea, mentre i medici sono di più. I medici ci sono, lo testimoniano i dati. Rispetto agli infermieri non c’è proprio paragone».
Come si sta cercando di colmare la carenza di infermieri?
«Con soluzioni creative. Infermieri dall’estero spesso. Addirittura, la regione Veneto attraverso una delibera ha attribuito funzioni di prassi infermieristiche a operatori sociosanitari, abilitandoli con un piccolo corso. Un rischio per i cittadini. Continuiamo a mettere delle pezze sulla carenza, non valorizzando la professione. Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea».
Quelli che se ne vanno all’estero. «Pagati di più e trattati meglio»
Una diretta conseguenza alla mancanza di personale infermieristico è che le aziende chiedono ai propri dipendenti molte ore di straordinario ed è difficile riuscirsi a prendere qualche settimana di ferie. Lo straordinario però è ormai è diventato routinario e soprattutto le aziende decidono cosa sia straordinario o meno. Perciò, molte ore extra fatte dagli infermieri non vengono retribuite come straordinario, ma segnate come ore da recuperare. Si riesce effettivamente a recuperare questi giorni? Spesso no, non essendoci infermieri a sostituire i colleghi. Si creano allora situazioni paradossali, come quella di Francesca Batani, responsabile del sindacato Nursing Up della regione Emilia-Romagna, che è arrivata ad avere 110 ore di recupero arretrate più 100 giorni di ferie, quelle che si accumulano in tre anni. Inoltre, quando ci sia possibilità di recuperare le ore, è necessario rimanere a disposizione per eventuali emergenze. Francesca Batani racconta anche che molto spesso i giovani che si trasferiscono da un’azienda all’altra non hanno modo di recuperare le ore che spetterebbero loro di diritto. Spostandosi, magicamente tutte quelle ore lavorate scompaiono. L’infermiere regala dunque all’azienda ore di lavoro, che diventano volontariato in un cambio di ospedale.
Non è difficile capire perché molti giovani decidono di provare un’esperienza lavorativa in altri Paesi. In Inghilterra, riferisce Giulia, infermiera neolaureata, attualmente a Bristol, c’è possibilità di crescita. In Italia, dopo la laurea, si comincia a lavorare, mentre se si vuole studiare, sono disponibili master a proprie spese o la laurea magistrale che però non è clinica, ma manageriale. All’estero puoi specializzarti anche a livello clinico e fare carriera. E oltretutto si viene anche retribuiti molto di più.
In base all’esperienza e alla specializzazione si sale di livello, ma oltre a una crescita verticale, è prevista, a livello salariale, annualmente una progressione orizzontale e un aumento del 3% per combattere l’inflazione . Esiste anche la libera professione e gli ospedali hanno la possibilità di assumere infermieri che non lavorano in reparto a tempo pieno, ma i loro turni vengono assegnati in base alle necessità dell’ospedale. Se uno vuole fare la libera professione, che in Italia è considerata extra moenia, esistono agenzie attraverso appalti e paghe orarie diverse che, una volta verificati i requisiti dei singoli, li assegnano a seconda della specialità. Gli infermieri possono anche decidere di aprire aziende in proprio.
L’estero è gremito di stimoli, mentre noi non lasciamo neanche le ferie ai nostri professionisti.
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Il rapporto Crea registra la drammatica carenza di paramedici: ne mancano 350.000, una situazione opposta al resto d’Europa. Ma i fondi destinati alla sanità restano scarsi e i corsi di formazione rimangono a numero chiuso.Per sopperire alla mancanza di personale le aziende reclutano da Kenya, Repubblica Dominicana, Tunisia, Brasile, Ucraina, Slovenia, Albania. Le richieste maggiori dal Veneto e dal Sud. Gli anziani pur di non farsi le punture da soli comunicano a gesti.Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma: «Gli ospedali chiedono di fare centinaia di ore di straordinario non retribuite. I politici nonostante i proclami non vogliono investire».Quelli che se ne vanno all’estero: in Italia turni massacranti e pochi riconoscimenti, a Londra possibilità di carriera.Lo speciale contiene quattro articoli.Quando si pensa alla sanità, le riflessioni spesso e volentieri convogliano sui medici, e ancora più spesso sui medici di base. Sono quelli più in vista, quelli con cui tutti hanno un contatto più o meno diretto ed è risaputo ormai che i medici sono pochi, perciò, per esempio, i tempi di attesa per ricevere un riscontro dal medico di famiglia si dilatano. Se però la mancanza di medici diventa sempre più problematica e fa impallidire addetti ai lavori e pazienti, davanti alla carenza degli infermieri si può solamente tremare. Il diciassettesimo Rapporto Crea Sanità (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) è molto netto sulla carenza infermieristica. Spiega che la questione peculiare rimane quella dell’adeguatezza degli organici. A livello internazionale, in termine di numeri di medici che praticano attivamente la professione, il nostro Paese, secondo i dati Oecd, è in cima alle graduatorie. Nel 2018 in Italia si contano 4,06 medici per 1.000 abitanti contro 3,17 in Francia ed i 2,84 nel Regno Unito. La Spagna presenta un valore simile all’Italia (4,0), mentre in Germania si registrano 4,3 medici per 1.000 abitanti. E pensare che la percezione della popolazione è ben diversa. Per il personale infermieristico attivo la situazione si ribalta e nel nostro Paese si registra un tasso molto inferiore alla media europea. Nel 2018 in Italia operano 5,5 infermieri per 1.000 abitanti contro i 7,8 del Regno Unito, i 10,8 della Francia ed i 13,2 della Germania. Solo la Spagna si avvicina a noi con un tasso pari a 5,8 ogni 1.000 abitanti.Il Rapporto sottolinea che in assoluto il surplus di medici di traduce in un’eccedenza di quasi 29.000 unità, mentre gli infermieri mancanti sarebbero oltre 237.000. In particolare, con riferimento alla sola fascia over 75, che è in continua crescita per effetto della scarsa natalità e l’allungamento di vita, «il numero di medici ogni 1.000 abitanti over 75 risulta essere inferiore rispetto a quello della media dei Paesi europei considerati e, a maggior ragione, quello degli infermieri: allo stato attuale, mancherebbero all’appello più di 17.000 medici e 350.000 infermieri». A seconda, dunque, delle fasce di popolazione in esame il deficit di personale infermieristico passa da un minimo di 237.282 unità a un massimo di 350.074.È evidente che servirà nei prossimi anni un intervento massiccio sul settore sanitario, non solo preventivando una maggior spesa sul costo del personale, entro cui un ruolo fondamentale potrebbe avere il Pnrr, ma sincerandosi della capacità produttiva degli Atenei. Anche nell’anno accademico 2021-2022, infatti, il sistema formativo italiano sta continuando a formare meno infermieri del necessario. I posti di primo anno di corso di laurea per infermieri richiesti da Regione e Ordine degli infermieri erano 23.498, ma i posti messi a disposizione dalle Università sono rimasti fermi a 17.394. I corsi sono stati accessibili, dunque, al 26% in meno di quanto richiesto dalle Regioni. A livello nazionale, le domande di accesso al primo anno sono state 27.952. Il 38% delle aspiranti matricole ha visto respinta la propria richiesta. Inoltre, rispetto al 2020 le domande sono aumentate del 13,6%, ma i posti non hanno tenuto il ritmo e sono saliti solo dell’8,6%. Un dato preoccupante si ottiene a Milano, dove solo il 53% dei candidati è riuscito ad entrare al primo anno di corso di laurea per infermiere in una delle quattro università disponibili.In ogni caso soluzioni a breve termine per una carenza così stringente non sembrano essere presenti, soprattutto per i centri privati che combattono sia con la mancanza di personale, sia con la competizione della sanità pubblica, date le recenti riaperture di graduatorie e concorsi. Dove questa problematica risulta più evidente è nelle Rsa, dove, da quanto emerge dal quarto Rapporto Osservatorio Long Term Care Cergas Bocconi - Essity, mancano all’appello il 26% degli infermieri, con picchi di gestori che segnalano essere alla ricerca del 50% degli infermieri, il 18% dei medici e il 13% degli Oss. Quelli che ci sono al momento non sono adeguati a rispondere alla domanda dei circa quattro milioni di italiani non più autosufficienti e questo può declinarsi in una possibile compromissione dei servizi. Inoltre, il 100% dei gestori delle residenze sanitarie assistenziali partecipanti all’analisi dichiara di vivere in una situazione critica nella gestione del personale a causa della carenza di unità (94%), di motivazione (56%) e di casi di burnout (38%). I responsabili delle strutture parlano di offerte di assunzioni, a cui non si è presentato nessuno, o, quando presenti, i candidati erano in un numero talmente irrisorio da impedire una vera selezione. Tutte problematiche già presenti dalla primavera del 2020, che il Covid ha sicuramente acuito.L’unica soluzione per molti centri pare sia quella di aprire le proprie porte all’estero, pagando corsi intensivi online di italiano a infermieri stranieri, purché vengano in Italia a curare i nostri anziani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ci-curano-senza-sapere-nemmeno-litaliano" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> Ci curano senza sapere nemmeno l’italiano La carenza di infermieri in Italia è talmente stringente che le soluzioni delle strutture sanitarie per ovviare al problema sono le più svariate. Nonostante la loro drammaticità, non può che togliere un sorriso constatare come ci si stia arrampicando sugli specchi pur di non lasciare i nostri anziani a farsi le punture da soli. I casi presenti nelle cronache locali sono numerosi e spaziano in tutta Italia. Il Consorzio il Solco, a Ravenna, per esempio, ha annunciato, quasi con toni trionfalistici, l’assunzione di 36 infermieri di nazionalità tunisina e albanese. Oltre al periodo di quarantena, i nuovi arrivati hanno dovuto sostenere un corso intensivo online di italiano. Chissà cosa avranno imparato con un mero corso online, non essendo neanche lingue particolarmente affini all’italiano. È immaginabile la confusione che si verrà a creare nella comunicazione fra gli anziani e i nuovi infermieri che non spiccicheranno una parola della nostra lingua. Da fuori potrebbe sembrare un interessante quadretto comico. Ma procediamo. Nelle case di riposo veronesi si va a pescare oltre oceano. Le fondazioni veronesi Giovanni Meritani, Villa Serena, Pia Opera Ciccarelli e l’Istituto Assistenza Anziani hanno rafforzato le truppe con 25 infermieri provenienti dagli ospedali e dalle cliniche della Repubblica Dominicana e del Brasile. «Dopo la prima selezione sono stati organizzati corsi di italiano nel paese di origine dei candidati, che proseguiranno nelle nostre sedi. È previsto poi un periodo di affiancamento ad infermieri italiani durante i servizi», ha fatto presente Andrea Pizzocaro, direttore della «Meritani», al quotidiano online L’Arena. Sempre in Veneto, a Padova, la Fondazione Santa Tecla fa da apripista al l’assunzione di sette infermieri keniani. Sì, la situazione si è ribaltata. Vengono dal Kenya in missione in Italia. E ancora. L’arrivo di 2.000 ucraini in fuga dalla guerra con la qualifica di medici e infermieri è stato preso come una manna dal cielo per le strutture sanitarie. Potranno temporaneamente lavorare da noi fino al 2023, grazie al via libera concesso dal governo con il decreto del 21 marzo. La maggioranza delle richieste per i professionisti ucraini arrivano da strutture di Puglia, Calabria, Sicilia e Veneto, pronto ad assumerne 250, soprattutto infermieri per le case di riposo, ma anche per i Pronto Soccorso e gli ambulatori, pubblici e privati. Insomma, le Regioni li hanno agguantati come i ragazzini le figurine Panini mancanti. Poi c’è la spola che fanno ogni sera gli infermieri sloveni, attraversando il confine per assistere pazienti delle Rsa di Treviso durante le ore notturne. Da noi gli infermieri mancano e loro ne approfittano, portandosi a casa, come riporta la Tribuna di Treviso, 360 euro a notte, cifre da capogiro. La ciliegina sulla torta è sicuramente l’idea dell’Asl dell’Alto Adige, che potrebbe essere rinominata «Chi trova un amico trova un tesoro». L’azienda ha inviato una mail ai dipendenti, in cui offriva 400 euro come «premio di produttività aggiunto» ogni nuovo infermiere reclutato. Ne porti due? Premio doppio. L’azienda sanitaria ha poi spiegato che la mail, che ha fatto andare su tutte le furie i sindacati, si trattava solo del primo passo di un progetto che andava ancora formalizzato. «Si voleva» hanno spiegato «semplicemente vedere quale tipo di adesione ci potrebbe essere». Poco importa se la pensata andrà in porto o meno, perché basta a descrivere la situazione disastrosa in cui ci troviamo. Alla fin fine, gli anziani delle Rsa dovranno ringraziare se a curarli saranno degli ispanici. Almeno la nostra lingua è simile. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="stipendi-bassi-per-il-troppo-lavoro" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> «Stipendi bassi per il troppo lavoro» «Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». Il presidente del sindacato Nursing Up, Antonio De Palma, è netto in merito alla situazione emergenziale in cui gravita il settore infermieristico italiano. Quanto è grave la carenza di infermieri nel nostro Paese? «È una vera e propria emergenza. Il problema è che gli operatori all’acme della formazione, dopo l’università, la quale prevede che imparino a gestire elevate responsabilità, non vengono considerati per l’elevata potenzialità che hanno, e ciò si riflette anche a livello contrattuale. Questo porta disaffezione alla professione e l’emergenza odierna. Dalla carenza degli anni passati di 60.000 unità, durante la pandemia si sono toccate vette di 85.000, perché con il Covid sono cambiati i servizi assistenziali. Ciò che questo governo vuol fare, attraverso il Pnrr, investendo sulla sanità territoriale e le case di comunità, andrà ad acuire l’emergenza. Ci sono state delle assunzioni durante il Covid, ma paradossalmente sono state per la maggior parte a tempo determinato. Ci ritroviamo con una carenza strutturale che viaggia sulle 80.000 unità, nonostante la pandemia sia passata, per l’introduzione dell’infermiere di famiglia». Il rapporto Crea individua una carenza di oltre 200.000 unità. «Tenga in considerazione che i numeri di cui noi stiamo parlando sono quelli minimi per garantire l’assistenza. Se poi vogliamo far riferimento alle medie europee, abbiamo un tasso bassissimo di infermieri per numero di abitanti. Alla luce di quella che sarebbe un’assistenza ottimale, e non ai minimi, servirebbero gli infermieri stimati dal Crea. Il problema è che in Italia non ci sono politiche di programmazione, e la grave carenza di infermieri non viene compensata. La prospettiva di un laureato in infermieristica è di finire in un reparto ospedaliero, in aziende che ti chiedono di fare centinaia di ore di straordinario al mese, senza che le ore vengano retribuite. Da un lato ti dicono che quelle ore le potrai recuperare, ma essendo sempre in emergenza, se manca il personale manca non si sa con chi sostituirlo. Per quale motivo non cedere quando ti arriva l’agenzia interinale inglese o svizzera che ti propone uno stipendio dai 2.500 ai 5.000 euro?». Quanto incide il fatto che i nostri giovani scappino all’estero a lavorare? «Con l’emergenza che abbiamo noi, anche dieci unità sono un problema. E le persone che se ne vanno sono decine. Con il sindacato siamo stati costretti a fare accordi con agenzie interinali estere per accompagnare i nostri colleghi a lavorare in Germania e in Inghilterra. Ma le pare normale che con l’emergenza che abbiamo accompagniamo le nostre eccellenze ad andare a lavorare per cittadini di altri Paesi? La politica nostrana al di là delle belle parole non produce fatti, perché gli infermieri stanno chiedendo da anni una valorizzazione». Qual è l’origine della carenza? «Gli infermieri sono pochi perché mancano le condizioni per attirare i giovani a svolgere questa professione e perché i nostri ministeri non sono in grado di allargare i posti delle università. La decisione di mantenere il numero chiuso, evidentemente non è una decisione dettata dalla necessità, vista l’emergenza, ma dalla politica. Ho il sospetto che i politici che sanno dell’emergenza sanno anche che se si programma il numero più alto di infermieri da formare ogni anno, questi in un secondo momento dovranno essere assunti e pagati. Non vorremmo mai che questa politica bieca da un lato predichi bene, ma poi non crei le premesse perché gli infermieri vengano formati. Che senso ha il limite annuo alla formazione di infermieri, in piena emergenza, in una situazione in cui servirebbero come il pane? È davvero paradossale che gli infermieri siano meno della media europea, mentre i medici sono di più. I medici ci sono, lo testimoniano i dati. Rispetto agli infermieri non c’è proprio paragone». Come si sta cercando di colmare la carenza di infermieri? «Con soluzioni creative. Infermieri dall’estero spesso. Addirittura, la regione Veneto attraverso una delibera ha attribuito funzioni di prassi infermieristiche a operatori sociosanitari, abilitandoli con un piccolo corso. Un rischio per i cittadini. Continuiamo a mettere delle pezze sulla carenza, non valorizzando la professione. Se si vuole veramente risolvere la situazione gli strumenti ci sono, dal togliere il numero chiuso, al dare uno stipendio dignitoso per il lavoro svolto, che almeno sia nella media europea». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/c-era-una-volta-infermiere-2657324365.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="quelli-che-se-ne-vanno-allestero-pagati-di-piu-e-trattati-meglio" data-post-id="2657324365" data-published-at="1652664188" data-use-pagination="False"> Quelli che se ne vanno all’estero. «Pagati di più e trattati meglio» Una diretta conseguenza alla mancanza di personale infermieristico è che le aziende chiedono ai propri dipendenti molte ore di straordinario ed è difficile riuscirsi a prendere qualche settimana di ferie. Lo straordinario però è ormai è diventato routinario e soprattutto le aziende decidono cosa sia straordinario o meno. Perciò, molte ore extra fatte dagli infermieri non vengono retribuite come straordinario, ma segnate come ore da recuperare. Si riesce effettivamente a recuperare questi giorni? Spesso no, non essendoci infermieri a sostituire i colleghi. Si creano allora situazioni paradossali, come quella di Francesca Batani, responsabile del sindacato Nursing Up della regione Emilia-Romagna, che è arrivata ad avere 110 ore di recupero arretrate più 100 giorni di ferie, quelle che si accumulano in tre anni. Inoltre, quando ci sia possibilità di recuperare le ore, è necessario rimanere a disposizione per eventuali emergenze. Francesca Batani racconta anche che molto spesso i giovani che si trasferiscono da un’azienda all’altra non hanno modo di recuperare le ore che spetterebbero loro di diritto. Spostandosi, magicamente tutte quelle ore lavorate scompaiono. L’infermiere regala dunque all’azienda ore di lavoro, che diventano volontariato in un cambio di ospedale. Non è difficile capire perché molti giovani decidono di provare un’esperienza lavorativa in altri Paesi. In Inghilterra, riferisce Giulia, infermiera neolaureata, attualmente a Bristol, c’è possibilità di crescita. In Italia, dopo la laurea, si comincia a lavorare, mentre se si vuole studiare, sono disponibili master a proprie spese o la laurea magistrale che però non è clinica, ma manageriale. All’estero puoi specializzarti anche a livello clinico e fare carriera. E oltretutto si viene anche retribuiti molto di più. In base all’esperienza e alla specializzazione si sale di livello, ma oltre a una crescita verticale, è prevista, a livello salariale, annualmente una progressione orizzontale e un aumento del 3% per combattere l’inflazione . Esiste anche la libera professione e gli ospedali hanno la possibilità di assumere infermieri che non lavorano in reparto a tempo pieno, ma i loro turni vengono assegnati in base alle necessità dell’ospedale. Se uno vuole fare la libera professione, che in Italia è considerata extra moenia, esistono agenzie attraverso appalti e paghe orarie diverse che, una volta verificati i requisiti dei singoli, li assegnano a seconda della specialità. Gli infermieri possono anche decidere di aprire aziende in proprio. L’estero è gremito di stimoli, mentre noi non lasciamo neanche le ferie ai nostri professionisti.
Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
«Il discorso di Vance a Monaco e i numerosi tweet del presidente Trump sono diventati ufficialmente dottrina statunitense. E come tali, dobbiamo riconoscerlo e agire di conseguenza», riflette il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, nel suo intervento all’Institute Jacques Delors. «Cosa significa? Abbiamo bisogno di qualcosa di più di una semplice energia rinnovata. Dobbiamo lavorare insieme per costruire un’Europa che comprenda che i rapporti tra gli Alleati e le alleanze del secondo dopoguerra sono cambiati. Sappiamo già che Europa e Stati Uniti non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale».
Costa, in buona sostanza, accusa Washington di non avere rispetto: «Gli alleati non minacciano l’interferenza nella vita politica. Nella vita politica interna di questi alleati, ci si rispetta, si rispetta la sovranità gli uni degli altri. Sicuramente molti europei non condividono la stessa visione degli americani su diversi temi ed è naturale che loro non condividano la nostra; quello che non possiamo accettare è questa la minaccia di interferenza nella vita politica dell’Europa». Quindi chiosa: «Gli Stati Uniti non possono sostituirsi ai cittadini europei per scegliere quali siano i partiti buoni e quelli cattivi. Gli Stati Uniti non possono sostituirsi all’Europa sulla visione che abbiamo della libertà di espressione, e su questo bisogna essere chiari», ha aggiunto. «La nostra storia ci ha insegnato che non esiste libertà di espressione senza libertà di informazione. E la libertà di informazione esiste solo quanto più c’è rispetto per il pluralismo. E così non esiste mai libertà di informazione se c’è il monopolio di una sola piattaforma. E non ci sarà libertà di espressione se la libertà di informazione dei cittadini viene sacrificata per difendere gli interessi degli oligarchi tecnologici degli Stati Uniti». Il riferimento è diretto a Elon Musk, che nelle ore precedenti aveva paragonato l’Unione europea al Terzo Reich su X.
Insomma, Costa non l’ha presa bene, ma non è il solo. Anche buona parte dei dem italiani sono sulla stessa lunghezza d’onda. Filippo Sensi , senatore del Pd, ha persino invocato una manifestazione su modello di quella che fu di Michele Serra. «Sarebbe ora, stavolta in Campidoglio per raggiungere il Colosseo illuminato dalla bandiera dell’Unione. Per dire dove siamo, chi siamo, per cosa vale la pena di combattere. Chi ci sta?». Anche la segretaria del Pd Elly Schlein coglie l’occasione. Più per attaccare il governo che per sventolare europeismo. «Questa convergenza nell’attacco all’Ue dimostra quanto sia reale il rischio che denunciamo da mesi. O l’Europa fa un salto in avanti di integrazione politica oppure rischia di essere schiacciata e messa al margine dalle grandi potenze che la circondano e che trovano un obiettivo comune nell’indebolirla. L’Europa sarà federale o non sarà» chiarisce convinta. Poi l’affondo al governo: «Non può far finta di nulla ammiccando in modo subalterno agli attacchi di Trump. La strategia di Putin e anche di Trump è evidente: dividerci, per renderci più vulnerabili singolarmente. E purtroppo trovano sponda in alcuni governi nazionalisti europei. Il governo Meloni non si presti a questo gioco e non si faccia utilizzare per andare contro anche agli stessi interessi dei cittadini italiani».
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Giulio Sapelli (Ansa)
Un cambiamento che resisterà anche una volta che Trump non ci sarà più?
«La classe dirigente americana è molto cambiata. Le trasformazioni sono iniziate negli anni Ottanta con la crescente influenza delle università francesi (con il pensiero decostruttivista di Derrida e Foucault) sull’élite universitaria nordamericana. Questo ha provocato una reazione culturale che ha colpito sia il fronte democratico che quello repubblicano. Tradizionalmente, si pensava che la scuola del multilateralismo fosse di matrice democratica. I “leostraussiani della costa atlantica”, seguaci di Leo Strauss, un importante pensatore critico di Machiavelli, sostenevano l’impetuosità e la necessità dell’intervento americano all’estero. Per motivi umanitari e per portare la libertà».
Era anche l’essenza della dottrina dei neocon…
«Esattamente. Il culmine l’abbiamo avuto con la scenetta di Powell».
La fialetta con le armi chimiche…
«Il tutto a giustificare l’intervento per motivi umanitari in Iraq nel 2003. Il “trumpismo” rappresenta la reazione di una parte dell’establishment americano a questo pensiero dominante. Nasce da un altro filone di pensiero che parte sempre da Leo Strauss, ma che impone agli Stati Uniti la ripresa di temi tradizionalisti originali, inclusa la dottrina Monroe, e dell’intervento per salvaguardare l’interesse americano».
Sempre all’interventismo americano si arriva.
«Come spiegato da Alfred Hirschman in International trade and national power, la politica commerciale è spesso un mezzo per espandere il potere. L’establishment è cambiato radicalmente perché si è creata una cultura di destra completamente nuova, diversa dalla destra classica. Non qualificabile affatto, come fa qualcuno senza basi, nella cultura fascista o nazionalista. È una destra di reazione alla cultura woke. Molti intellettuali americani rifiutano la negazione delle radici giudaico-cristiane dell’Occidente. E si oppongono all’immigrazione gestita dal mercato, vale a dire dai trafficanti di uomini. Nella storia, sempre, le immigrazioni sono state controllate dagli Stati».
C’è una nascita del cattolicesimo negli Stati Uniti secondo lei?
«Di sicuro vedo come il fenomeno woke sia figlio di un intreccio fra neoateismo, transumanesimo e antisemitismo. Questo connubio mi fa veramente paura, e le posizioni trumpiane non sono la cura per questa situazione. Il rischio è che la cura sia peggiore del male».
Venendo al documento National security strategy?
«Segna un ritorno all’importanza degli Stati nazionali. Un ritorno al trattato di Vestfalia, dove ogni Stato è libero di avere la sua religione. Tuttavia, Trump esprime queste idee in forma caricaturale, con cadute di stile come quando si schiera esplicitamente a favore dei partiti di destra. Una cosa che di solito si fa ma non si scrive. Almeno in un documento come quello. Ma è innegabile che vi siano implicazioni rilevanti sul futuro dell’Unione europea. Intanto non è riuscita a darsi una Costituzione. E non può esistere uno Stato contemporaneo senza una costituzione. Invece si è affidata a una “burocrazia celeste”. Personificata alla perfezione da una figura come Ursula von der Leyen, figlia del primo direttore generale dell’Ue».
Ma in Europa i partiti euroscettici non vogliono una Costituzione.
«Nessuna di queste forze politiche pone l’accento sulla necessità di avere una Costituzione europea. Come anche i mandarini. Ecco perché intravedo uno scenario molto negativo. Accanto al ritorno degli Stati nazionali vedo anche il fallimento storico della borghesia europea. Il dirigismo europeo in campo ambientale ha finito per privarla di ampi margini in termini di capacità di azione e proprietà privata. L’esempio dello stop al motore termico è emblematico. I borghesi proprietari delle industrie automobilistiche sono stati espropriati della facoltà di decidere come utilizzare la loro proprietà da un insieme di trattati e decisioni prese da un Parlamento eletto su base nazionale, il quale però si limita ad approvare regolamenti e direttive di una Commissione non eletta. Questo ha distrutto l’industria europea, rendendola sempre più dipendente dalla Cina e strutturalmente dipendente dal fallimento del modello tedesco, che si fondava sull’accordo bipartisan Merkel e Schröder con la Russia».
In questo momento l’Unione europea non ha una strategia di pacificazione del quadrante Ucraina, perché di fatto sembra quasi che stia per intestarsi una sconfitta, quella di Kiev, non supportando il tentativo.
«È paradossale come tutto sia capovolto. Ci si aspetterebbe che a invocare l’uso delle armi e il riarmo fossero le forze di destra tradizionale, invece sono le forze cosiddette democratiche filo Ue che rifiutano il piano americano. E che pensano si possa addirittura creare un esercito comune. Molti esponenti di quelle forze, in un dibattito pubblico al Senato anni fa, mi hanno vilipeso e bollato come “guerrafondaio” semplicemente perché a suo tempo mi ero opposto all’abolizione della leva. Che ora prima o poi ritornerà».
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Xi Jinping (Ansa)
I dati delle Dogane cinesi, pubblicati l’8 dicembre, spiegano tutto. A novembre l’export della Cina è balzato del 5,9%, l’import è salito dell’1,9%, e il surplus mensile ha raggiunto 111,68 miliardi di dollari. Nei primi undici mesi dell’anno il surplus ha superato i mille miliardi, con un aumento del 22,1% rispetto al 2024. Numeri che indicano una Cina ancora in grado di muoversi con agilità nelle rotte globali. Con gli Stati Uniti, però, la situazione è opposta. Le esportazioni verso il mercato americano sono crollate del 28,6% a 33,8 miliardi, lontane dai 47,3 miliardi dell’anno precedente. I dazi restano al 47,5% medio sui prodotti cinesi. Una barriera altissima. Inevitabile che le aziende cinesi devino le vendite verso altri mercati.
Ed è qui che scatta l’irritazione di Trump. L’Europa assorbe ciò che l’America respinge. Lo scorso mese il flusso verso l’Ue infatti è cresciuto del 14,8%, secondo quanto riporta la Reuters. Un trend già evidente nel 2024, quando le esportazioni cinesi verso l’Europa avevano superato i 516 miliardi di dollari. L’Europa diventa così la valvola di compensazione della Cina. Quella che permette a Pechino di mantenere attivo il motore dell’export anche mentre gli Stati Uniti montano barriere.
Per Trump questa dinamica non è un incidente collaterale. È un problema strategico. Lui vede la scena in termini di competizione commerciale globale. Se gli Stati Uniti chiudono il loro mercato a un concorrente, lo fanno per ridurre la capacità di quel concorrente di crescere. Ma se un altro grande mercato, come l’Europa, raccoglie tutto ciò che l’America respinge, l’effetto dei dazi si diluisce. Washington alza un muro. Bruxelles costruisce un ponte. Risultato: il traffico scorre, solo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.
È qui che si accende il Trump imprenditore. Nella sua visione, l’Europa si comporta come un «free rider commerciale»: beneficia del confronto tra Stati Uniti e Cina senza pagarne il costo politico. Acquista prodotti più economici, vede scendere i prezzi al consumo, non alza barriere, non si espone. In pratica, mantiene la Cina in piedi mentre gli Stati Uniti cercano di metterla alle corde. Da questa lettura derivano parte dei suoi attacchi sempre più duri verso Bruxelles. Non è un giudizio culturale sul Vecchio Continente. È una reazione da uomo di affari che vede i propri strumenti perdere potenza. E che percepisce l’Europa come un competitor passivo-aggressivo: non attacca, ma sottrae efficacia. Non sceglie il blocco americano, ma ne usa i risultati per garantirsi prezzi migliori. Il ragionamento di Trump si muove lungo due assi. Primo: la Cina va fermata. Secondo: nessun grande mercato deve aiutare Pechino a compensare il colpo. L’Europa lo sta facendo, anche se non dichiaratamente. Per questo, agli occhi di Trump, diventa un bersaglio. Non principale. Ma necessario. La pressione verso Bruxelles è un modo per riprendere il controllo del campo di gioco. Per chiudere anche la seconda uscita di sicurezza cinese. Per impedire che l’export deviato continui a trovare strade aperte.
Intanto la Cina procede. Il Politburo punta su più domanda interna, politiche fiscali attive e una monetaria accomodante. Ma la vera forza resta l’export. Le merci scorrono, cambiano rotta, si adattano. La guerra dei dazi non ha fermato la Cina. Ha ridisegnato le mappe. E nella nuova mappa l’Europa è il porto dove attraccano sempre più container cinesi. Trump, nel suo linguaggio pragmatico, vede esattamente questo. E reagisce. Perché per lui la partita non è ideologica. È una questione di affari. E in questa partita, la Cina resta l’avversario più importante.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Di recente, al coro di Trump e Musk si è unito uno che da molti è ritenuto il maggior banchiere al mondo, Jamie Dimon, secondo cui «l’Europa ha dei seri problemi. Ha scoraggiato le imprese, gli investimenti e l’innovazione». La preoccupazione principale di Dimon è che la lentezza della burocrazia e l’eccessiva regolamentazione abbiano soffocato la crescita, causando una riduzione della quota di Pil mondiale dell’Europa. Il banchiere sostiene che un mercato europeo snello e integrato sia essenziale per l’innovazione e la forza globale. Il punto è che un sondaggio di due realtà importanti come Ert e The Conference Board dà ragione a un «big» come Dimon. Stando a un sondaggio svolto tra il 16 e il 31 ottobre 2025 la fiducia degli amministratori delegati in Europa ha smesso di precipitare, ma resta in territorio negativo, mentre le motivazioni per investire nel continente continuano a diminuire rispetto agli Stati Uniti e ad altre aree del mondo.
La «Measure of Ceo Confidence for Europe» è a quota 44, dopo essere crollata a 27 nella primavera 2025 in concomitanza con le tensioni commerciali tra Ue e Usa. Il livello 50 rappresenta la neutralità: 44 implica che il sentiment è ancora chiaramente negativo. È la prima volta da quando esiste questa rilevazione che la fiducia dei ceo rimane sotto 50 per tre edizioni consecutive, segnalando un pessimismo che non è più solo ciclico.
Nello studio si sottolinea come il divario tra Europa e resto del mondo si stia ampliando. Le condizioni di business al di fuori del continente migliorano, mentre in Europa la traiettoria resta discendente, soprattutto per la debolezza delle prospettive di investimento e occupazione. In altri termini, il sondaggio registra un disallineamento crescente tra il potenziale percepito all’estero e quello disponibile nel mercato europeo.
Il punto più sensibile del report riguarda la geografia dei piani di investimento. Per l’Europa, solo una piccola quota di ceo intende investire più di quanto previsto sei mesi fa: appena l’8% dichiara di voler aumentare gli investimenti rispetto ai piani originari, mentre oltre un terzo ha ridotto i programmi o messo in pausa le decisioni in merito. Gli Stati Uniti, al contrario, registrano una dinamica opposta: il 45% dei ceo ha rivisto i propri piani per investire nel mercato americano più di quanto inizialmente previsto.
Il problema è che un anno fa, circa l’80% dei leader Ert esprimeva entusiasmo per le raccomandazioni di Mario Draghi sulla competitività europea, con l’idea che una loro piena implementazione avrebbe riportato gli investimenti verso l’Ue. Oggi la narrativa è capovolta: il 76% dei ceo afferma di aver visto poco o nessun impatto positivo dalle iniziative europee per tradurre in pratica le raccomandazioni Draghi e Letta su semplificazione regolatoria, completamento del mercato unico, politica di concorrenza e costo dell’energia.
All’interno dello studio, la Commissione europea ottiene un giudizio relativamente meno negativo: circa il 30% dei ceo riconosce progressi, ma il 60% si dichiara deluso. Il Parlamento europeo è percepito in modo ancora più critico, e i governi nazionali risultano i peggiori: il 74% dei ceo giudica «insufficiente» la performance degli Stati membri nel dare seguito alle raccomandazioni di Draghi e Letta. L’indagine insiste su un punto non banale: il tradizionale riflesso di imputare i ritardi a «Bruxelles» non regge più. Secondo i ceo, il collo di bottiglia principale è costituito dai governi nazionali riuniti in Consiglio, che rallentano o annacquano le riforme in nome di interessi domestici di breve periodo.
Viene, insomma, da sperare che le profezie del duo Trump-Musk non siano corrette. Secondo il presidente degli Stati Uniti, «nel giro di vent’anni l’Europa è destinata a sparire dalla scena», mentre per il miliardario ed ex vertice del Doge, il Dipartimento dell’efficienza governativa, creato durante il secondo mandato Trump, l’Unione europea «andrebbe smantellata, restituendo la piena sovranità ai singoli Stati, così che i governi tornino a rappresentare davvero i propri cittadini».
Musk ha messo nero su bianco queste posizioni in un post su X, pubblicato poche ore dopo la maximulta da 120 milioni di euro comminata da Bruxelles alla sua piattaforma per violazione del regolamento Ue che, da febbraio 2024, impone alle big tech nuovi obblighi di trasparenza e responsabilità sui contenuti. Si tratta della prima sanzione nell’ambito del Digital Services Act europeo. Inoltre, Musk ha fatto saltare l’intero pacchetto di spazi pubblicitari utilizzato dalla Commissione europea su X, accusandola di aver sfruttato in modo improprio una falla tecnica del sistema; subito dopo ha pubblicato un post in cui l’Unione europea veniva assimilata al «Quarto Reich», accompagnato da un fotomontaggio che affiancava la bandiera con le dodici stelle a una svastica.
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