2023-11-27
Cesara Buonamici: «Non generalizziamo sui maschi. I mea culpa da soli non bastano»
La giornalista, direttore ad personam del tg e opinionista su Canale 5 : «Agli uomini dico: muovetevi se una donna è in pericolo. Il Grande Fratello? Per me è istruttivo».Cesara Buonamici, storica giornalista del Tg5 e autorevole volto di Mediaset, oggi opinionista del Grande fratello, in onda due volte alla settimana in prima serata su Canale 5 con una media di ascolti del 19% di share. Con la tua partecipazione al Gf hai unito generi molto diversi. Hai ricevuto critiche per questa tua scelta? «Ma no. Ho ricevuto questa richiesta dall’azienda e ho risposto sì. È comunque un arricchimento professionale entrare in un mondo prima quasi sconosciuto. In fondo la casa di Gf comincia in modo leggero, ma poi le personalità, i caratteri, le psicologie tendono a emergere, e così quello che è un gioco mostra tanti elementi della vicenda umana, e questo è sempre interessante. Critiche? Per la partecipazione direi di no. Ovviamente in rete non puoi trovare solo elogi. Comunque il programma va bene e Alfonso Signorini sa come condurlo al meglio».Affacciarsi a un programma di intrattenimento è quasi un cerchio che si chiude, visto che hai dichiarato che «il gioco dei fagioli l’ho inventato io prima della Carrà»?«Il mio era solo un dato storico. Il gioco del numero di fagioli in un vaso ho avuto “l’onore” di farlo io per prima a Tele Libera Firenze. Detto questo la Carrà era altra cosa, e non mi posso certo paragonare».Cosa si impara dalle dinamiche di convivenza di Grande fratello? «Non è che insegnino qualcosa di specifico. Ci mostrano però le reazioni umane in certe condizioni. Un lungo isolamento nel quale ciascuno, secondo la propria personalità, offre alternativamente il meglio e il peggio di sé stesso. Mostra quanto la condizione ambientale influisca sui comportamenti e sulla convivenza. Diciamo che comunque è istruttivo. E anche divertente».Di recente sei stata nominata «direttore ad personam» del Tg5, testata ammiraglia diretta da Clemente Mimun: come cambierà il tuo lavoro?«È un riconoscimento del quale sono grata all’azienda e al direttore. Penso che mi sia stato riconosciuto il lavoro svolto in tanti anni. Per il resto il lavoro continua come prima, non possono cambiare la passione e l’impegno. Sono sempre io, senza particolari vanità. C’è la soddisfazione professionale, ma nulla di più».Come potrà l’informazione generalista attrarre le nuove generazioni, i nativi digitali?«Non credo che il giornalismo vada a sparire per colpa della rete. Acchiappare qua e là pseudo notizie non migliora la competenza sulle cose del mondo. Il giornalismo aiuta a capire, offre gerarchie delle notizie, stimola il ragionamento con le analisi e i commenti. Non c’è un modo facile di fare le cose. Bisogna sempre applicarsi, studiare per capire. La banalità non spiega mai nulla».Una donna direttore è sempre un segnale importante. Pensi che in Italia oggi ci sia ancora discriminazione di genere sul lavoro rispetto a qualche decennio fa? «I processi sociali sono complessi e lenti. Quando ho cominciato questa professione, le donne erano poche. Oggi sono tante, e ricoprono ruoli di rilievo nelle tv e nella stampa. Ma ancora ovviamente non siamo a livelli paritari. Non perché si debba agire con la bilancia, con la parità numerica. Ma se andiamo a vedere quante donne sono nella professione e quante hanno avuto la fortuna di arrivare ai vertici, si vede la differenza. Non è una critica, ma la constatazione di un fatto evidente: i sistemi sono vischiosi, fanno resistenza ai cambiamenti. In questo senso la scelta aziendale nei miei confronti è un altro passo avanti. Ripeto, ci vuole tempo ma l’importante è andare avanti, passo dopo passo. Un giorno non ne parleremo più».Il caso di cronaca di Giulia Cecchettin continua ad animare la discussione sul dominio del «patriarcato». La sorella di Giulia ha dichiarato che «gli uomini devono fare mea culpa. Fatevi un esame di coscienza e imparate da questo episodio». Condividi questa dichiarazione?«Si può comprendere la posizione della sorella di Giulia. Tanto più che ora vengono fuori episodi non limpidissimi, come un allarme inascoltato, che forse hanno condizionato la tragica conclusione della vicenda. Detto questo, noi donne siamo da secoli vittime di luoghi comuni, di colpe collettive, banalità moralistiche, norme repressive, oltre a modelli comportamentali stereotipati di madre e moglie. Quindi ora, personalmente, vorrei evitare di rigirare una colpa collettiva maschile. Facendo però una distinzione: non basta avere un comportamento umanamente e socialmente corretto verso le donne, bisogna essere coscienti che l’indifferenza può essere una colpa grave. Se si vede qualcosa che minaccia una donna non si può girare lo sguardo altrove. Si deve denunciare, intervenire se serve. Il rischio più comune è la sottovalutazione degli episodi che ci ritroviamo sotto gli occhi. E smettere con quei luoghi comuni pensati come una giustificazione, tipo “se l’è cercata”, “era vestita in modo poco serio”, “in fondo l’uomo l’amava” e altre sciocchezze. Si usa troppo e a sproposito la parola amore. Lo si confonde col possesso, con la passione incontrollata, con la smania di controllo e comando. Quindi nessuna accusa generalizzata al maschio in quanto tale, ma certamente un invito a non chiudere gli occhi, specie quando occorre guardare con attenzione».Possiamo dire che in Italia esiste davvero un’emergenza patriarcato che riguarda tutti gli uomini, o si tratta di una forzatura?«Se si parla dal punto di vista penale è chiaro che la responsabilità è personale, altrimenti si torna indietro di millenni. E non parlerei facilmente di patriarcato. Quella è una struttura sociale. Ma cosa ha a che vedere con il femminicidio? Se guardiamo i femminicidi vediamo che il più delle volte l’autore dell’assassinio confessa, chiama la polizia lui stesso o si suicida, senza nessun interesse per gli eventuali figli. È una lesa maestà il rifiuto della donna di continuare una relazione. E la morte è la giusta punizione, senza chiedersi come mai la donna in questione abbia deciso di non andare avanti. Un egoismo sentimentale ottuso, per il quale l’unica soluzione è la morte dell’altra. L’emergenza non è il patriarcato, ma i mezzi più stringenti di prevenzione e il mutamento culturale. Soprattutto smettere di sottovalutare. Quante migliaia di abusi ci sono oltre agli omicidi? Qui bisogna intervenire».Intravedi il rischio che questa vicenda di cronaca possa essere strumentalizzata politicamente, alla luce della crociata contro il «maschio» padrone?«Vicende del genere non possono essere ignorate dalla politica, con tutte le conseguenze immaginabili. Quelle che contano sono le conclusioni, le norme che si approvano. Ma ancora di più conta il modo col quale queste norme sono applicate e rispettate, da tutti e non solo dalle autorità di polizia o del potere giudiziario. Le norme funzionano quando diventano patrimonio comune».Per paradosso, dice Luca Ricolfi, nelle società più «avanzate», come quelle scandinave, il tasso di violenza sulle donne è più alto rispetto all’Italia. Forse in quei Paesi il successo è considerato un diritto, e dunque non si è «educati» alla delusione e al fallimento?«Può essere una spiegazione. Comunque c’è del vero nel fatto che il “no” sia diventato qualcosa di difficile da tollerare. Così facendo le frustrazioni diventano pesanti da sopportare, intollerabili per l’ego maschile che non sia stato educato ad affrontare la complessità della vita, dove il “no” compare spesso. Il “no” di una ragazza o di una donna sembra includere, per questi tipi mentalmente e sentimentalmente fragili, una specie di giudizio negativo sulla persona. E non capiscono che le simpatie, gli affetti, gli amori rispondono a regole diverse per le quali occorre avere profondo rispetto».È possibile insegnare l’educazione sentimentale nelle scuole, come vorrebbe qualcuno? «Questa educazione sentimentale riporta alla mente l’omonimo romanzo di Flaubert. Mi pare difficile da insegnare a scuola, perché è fatta di tante componenti, legate anche alla personalità di ognuno di noi. La scuola però può insegnare di più i diritti, i comportamenti corretti, il rispetto, l’uguaglianza sostanziale, la non contraddizione tra diversità e uguaglianza, e la differenza tra desiderio e diritto. Certo, una volta i genitori avevano direttrici stabili, chiare, con ruoli predefiniti, relegando le ragazze e le donne a compiti sottomessi. Per fortuna non è più così. Oggi tutto è più complesso, perché i confini tra libertà e doveri si sono sfumati. C’è la rete con i suoi pregi e difetti, c’è una socialità mutata, c’è una crescita “affrettata” dei giovani. Problemi per i genitori e per la società».Oltre a una maggiore presa di coscienza «maschile», credi ci sia bisogno di maggiore «solidarietà» femminile quando si parla di violenza e discriminazione? «Ci vuole, forse, più solidarietà umana. Senza cedere alle versioni delle donne nemiche di loro stesse. È ovvio che ci siano donne che si comportano male verso altre donne. Come uomini verso altri uomini. Il punto resta quello della reciproca comprensione, ci sono caratteristiche “femminili” e caratteristiche “maschili”, sulle quali si costruiscono anche storielle e barzellette. Ma poi siamo tutti individui, col proprio vissuto, che merita rispetto sempre. Con o senza amore».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.