Non è certo nei panni di un repubblicano Maga, che il Papa ha parlato al gruppo dei Conservatori e riformisti dell’Europarlamento, ricevuti ieri in Vaticano. Ai deputati, che in questi giorni erano a Roma per gli «Study days», Leone XIV ha riservato un messaggio speciale: «Ripeto volentieri», ha detto, «l’appello dei miei predecessori più recenti, secondo cui l’identità europea può essere compresa e promossa solo in riferimento alle sue radici giudaico-cristiane».
A Bruxelles drizzino le antenne. Altrimenti, sarà difficile che la stizza per le profezie di Donald Trump, che dà al Vecchio continente massimo vent’anni di vita e ne considera «deboli» i leader, si traduca in una rinascita politica. L’Unione si è ridotta a un comitato d’affari per le lobby, ora automobilistica, ora farmaceutica, ora militare-industriale; è una mega ragioneria, amministrata da burocrati col pallottoliere in mano. E il pontefice ha preso di petto questo problema. Il presidente americano si è limitato a diagnosticare, ancorché con i consueti modi brutali, una patologia: il rifiuto di abbracciare un sistema di principi spirituali e culturali, anziché solo istituzionali, giuridici ed economici.
Robert Francis Prevost ha anche chiarito che il recupero di quel patrimonio ideale non è un atto formale: «Lo scopo di proteggere l’eredità religiosa di questo continente», ha spiegato agli esponenti di Ecr, «non è semplicemente quello di salvaguardare i diritti delle sue comunità cristiane, né si tratta principalmente di preservare particolari costumi o tradizioni sociali, che in ogni caso variano da luogo a luogo e nel corso della storia». Va bene difendere i presepi dalle manipolazioni woke. La vera sfida, però, è arrivare a un «riconoscimento di fatto» delle radici neglette, eppure mai recise.
«Tutti», ha osservato il Papa, «sono beneficiari del contributo che i membri delle comunità cristiane hanno dato e continuano a dare per il bene della società europea. Basti ricordare alcuni sviluppi importanti della civiltà occidentale, specialmente i tesori culturali delle sue imponenti cattedrali, l’arte e la musica sublime e i progressi nella scienza, per non parlare della crescita e della diffusione delle università. Questi sviluppi creano un legame intrinseco tra il cristianesimo e la storia europea, una storia che deve essere apprezzata e celebrata». Il Benedetto Croce di Perché non possiamo non dirci «cristiani» sottoscriverebbe pure le virgole di questo inno all’orgoglio occidentale. Che, fra l’altro, rimarca la distanza di Leone da Francesco, l’uomo venuto «dalla fine del mondo»: l’argentino sensibile al richiamo delle «periferie»; lo statunitense più incline ad accentuare il valore universale e, perciò, cattolico, irradiato dalla civiltà di cui la Chiesa e l’Europa sono state culla e nutrici.
Adottare l’ottica di Prevost non è un esercizio retorico. «Penso», ha dichiarato il pontefice, per illustrare quali «sviluppi» abbia determinato la fioritura della fede, «ai ricchi principi etici e ai modelli di pensiero che costituiscono il patrimonio intellettuale dell’Europa cristiana. Questi sono essenziali per salvaguardare i diritti donati da Dio e la dignità inerente di ogni persona umana, dal concepimento fino alla morte». Chi ha orecchi per intendere, intenda, nel continente dei suicidi assistiti, dei matrimoni gay «egualitari», dell’inverno demografico, dei figli in provetta e di quelli comprati al mercato degli uteri. Quei principi, per il Papa, «sono fondamentali anche per rispondere alle sfide presentate da povertà, esclusione sociale, privazione economica, come anche dalla crisi climatica, dalla violenza e dalle guerre in corso. Assicurare che la voce della Chiesa continui a essere udita, non ultimo attraverso la sua dottrina sociale, non significa ripristinare un’epoca del passato, ma garantire che risorse fondamentali per la cooperazione futura e l’integrazione non vadano perse». E non è un caso che Leone abbia citato Benedetto XVI, col suo invito a mettere in dialogo fede e ragione. Non avvenne quando, nel 2008, a Joseph Ratzinger fu impedito di tenere una lectio magistralis alla Sapienza di Roma: già all’epoca si scorgevano i segni del declino che Trump sta additando non per goderne, bensì per ammonirci.
Anzi, la storia dell’euromasochismo era cominciata addirittura prima. E nemmeno Prevost ne ha parlato per puro compiacimento: anzi, martedì sera, lasciando Castel Gandolfo, ha espresso la preoccupazione che certe «osservazioni sull’Europa» possano portare a «smantellare quella che ritengo debba essere un’alleanza molto importante, oggi e in futuro», tra il Vecchio continente e gli Stati Uniti.
Sul soglio c’era Giovanni Paolo II, quando l’Unione europea compì la madre delle abiure, rifiutando di inserire un cenno alle radici giudaico-cristiane, richiamate ieri di Leone, nella sua Costituzione.
Le discussioni sul documento che doveva diventare, almeno simbolicamente, il propulsore dell’integrazione politica, erano iniziate già nel 2003. Favorevoli a redigere un preambolo che parlasse di religione erano l’Italia di Silvio Berlusconi, la Spagna del popolare José María Aznar e la Polonia cattolica, il Paese di Karol Wojtyla. Contrari, i nordeuropei e la Francia della laïcité. Leggenda vuole che, nel corso degli scintillanti negoziati, l’ex inquilino dell’Eliseo, Jacques Chirac, avesse dato del prete (curé) al Cavaliere.
La Costituzione fu firmata il 29 ottobre 2004, con una cerimonia in eurovisione, a Roma. Solo 24 ore dopo, il governo italiano avrebbe ritirato la candidatura a commissario Ue di Rocco Buttiglione, escluso per le sue posizioni sull’omosessualità («È un peccato», affermò) e la famiglia tradizionale (contestò i nuclei monoparentali). Fu una coincidenza eloquente. La Carta europea andò incontro allo stesso destino che The Donald oggi preconizza per l’Unione: la scomparsa. La vittoria dei «no» ai referendum transalpino e olandese la affossò. Ciò che la soppiantò - il Trattato di Lisbona - era un puro manuale tecnocratico.
Ora, l’Europa è di nuovo al bivio. Può scegliere di ricostruirsi attorno alle vestigia di ciò che l’ha resa grande. Oppure cercarsi un nemico esterno - la Russia. E sostituire, al feticcio dell’euro, quello delle armi. La Bibbia giudaico-cristiana illustra bene come va a finire con gli idoli. Anche questo basta chiederlo al Papa