2023-08-12
La brava scrittrice traviata dal mainstream
Michela Murgia è morta a 51 anni ma ha fatto in tempo a vivere tre vite. La prima da autrice di talento. La seconda da militante «anti», scimmiottando Roberto Saviano sull’allarme fascista. La terza, coincisa con la malattia, che ha affrontato con coraggio e dignità.«Non compatitemi!». Non c’è pericolo, lo stanno già facendo i campioni mondiali del politicamente corretto, gli adoratori della setta dello schwa, i radical con il dito su Twitter prima di girarsi sulla schiena all’Ultima spiaggia di Capalbio. Noi non ne abbiamo bisogno, Michela Murgia ha sempre saputo dove trovarci: sulla parte non illuminata del marciapiede. Quella dei critici anche aspri della sacerdotessa dello sbadiglio e delle sue scontate battaglie in favore di vento, con la sinistra seduta in circolo ad applaudire.Per questo, nel giorno del ritorno al Padre (oggi a Roma viene celebrato il funerale nella Chiesa degli artisti), lei può contare sul rispetto di chi non ha condiviso quasi nulla delle sue provocazioni, delle sue battaglie ideologiche fuori dal tempo, delle sue conformiste indignazioni digitali. Dove il «quasi» è contenuto in una sua frase: «Non l’ha ordinato il medico di esprimere sempre un pensiero su tutto».Pur in assenza di ricetta, lei lo ha fatto. E sul consenso femminista mainstream ha costruito un successo straordinario diventando un totem dell’intellettualismo progressista, poi staffetta partigiana militante, infine baluardo della lobby Lgbtqi+ e di ogni pulsione proveniente dal luna park californiano dei desideri universali. Grazie a talk show e social, ha moltiplicato l’impatto dei suoi pensieri sospesi, s’è trasformata troppo presto da scrittrice di valore (era in possesso di un fraseggio importante) in un Roberto Saviano al femminile.Michela Murgia ha avuto tre vite. La prima quando nasce a Cabras nel Campidano di Oristano 51 anni fa e, dopo un diploma tecnico-commerciale, si laurea in Teologia. Insegna religione a scuola, è animatrice dell’Azione cattolica, affina concetti pedagogici ma assapora la vita in mille altre sfaccettature: venditrice di multiproprietà, dirigente in una centrale elettrica, portiera notturna, impiegata del Fisco. Soprattutto operatrice di telemarketing in un call center, spunto decisivo per il suo primo libro, Il mondo deve sapere. Sfruttamento e manipolazione psicologica conditi da ironia, facile per Paolo Virzì trasformare l’affresco in un film (Tutta la vita davanti).La svolta letteraria della sua prima vita avviene nel 2009 con Accabadora, storia originale e forse leggendaria ambientata nella Sardegna profonda degli anni Cinquanta, dove una pietosa donna vestita di nero entrava nella stanza mentre agonizzava un malato pseudo-terminale e gli tirava in testa la bastonata finale. Una sorta di eutanasia rurale. Accanto a lei cresceva una bimba, figlia adottiva, che sarebbe diventata ostetrica. La levatrice dà la vita, l’Accabadora dà la morte. La forza narrativa e il solido successo decretato dal mondo editoriale (premio Mondello e premio Campiello) fanno conoscere l’autrice, la lanciano nell’empireo intellettuale. Il resto è merito o colpa della tv, delle ospitate e della rotta culturale dentro l’alveo fluviale del pensiero progresssita, quindi per sua natura comodo.A metà degli anni Dieci comincia la sua seconda esistenza. Quella segnata dal saggio Istruzioni per diventare fascisti, decalogo dell’italiano medio (che lei odiava). Quella caratterizzata dalle frasi celebri come «In Italia la destra non esiste, esistono fascisti mascherati», «Berlusconi vuol mandare via gli scrittori di sinistra dalle sue case editrici per pubblicare quello che gli pare», «Spero che il coronavirus duri ancora, c’è meno traffico». Quella della conversione a Rifondazione comunista, della campagna elettorale per la Lista Tsipras, della contesa continua con Giorgia Meloni (paragonata alla camorra), del livore contro il governo di centrodestra: «Questo è un esecutivo fascista, dopo il tumore posso dire a fare quello che voglio» (Salone del libro, alla presentazione dell’ultimo lavoro Tre ciotole). Antimilitarista viscerale, attaccò il generale Francesco Figliuolo per la divisa in tv, vide lampi di Decima Mas nella sfilata del 2 giugno. Consapevole che la contrapposizione frontale nell’asilo web funziona, se la prese anche con Franco Battiato: «Viene considerato un intellettuale ma i suoi testi sono minchiate assolute».Se la sua seconda vita è quella delle terrificanti banalità su fascismo, peccato originale e Festival di Sanremo, la terza somiglia a un riscatto. Comincia nel maggio scorso quando, in un’intervista al Corriere della Sera, lei dichiara di essere malata di un carcinoma renale al quarto stadio con metastasi ovunque. Lì comincia quella che definisce «il tempo migliore della mia vita». Decide di raccontare la malattia e non rinunciare all’essenza della felicità. Che per Murgia significa descrivere sul web piccoli e grandi atti di gioia e di dolore, sposare in articulo mortis il regista e musicista Lorenzo Terenzi, condividere con i suoi fans la festa della famiglia allargata, quella che si è scelta. Gli invitati in bianco e sul fondale la scritta «God Save the queer». Finale da Socrate. Oggi proprio i quattro «figli dell’anima» ereditano i suoi beni. E uno di loro si occuperà della curatela dei diritti editoriali.Il cordoglio è unanime, più alto di ogni divisione. Purtroppo non accettato da qualche pigmeo dell’informazione e da qualche pasdaran dell’odio permanente; gente che trova il modo (meschino) di contestare chi si ferma a pregare per una persona partita per l’ultimo viaggio. La premier Meloni ha parole serene: «Era una donna che combatteva per difendere le sue idee, seppur notoriamente diverse dalle mie. Di questo ho grande rispetto». Marina Berlusconi ne riconosce la grinta: «Non è necessario condividere le idee di Michela Murgia per considerarla una donna coraggiosa, appassionata, coerente, oltre che un’autrice originale e di grande talento». Nell’istante supremo, mentre un profilo nero da Accabadora senza bastone entra nella stanza, conta solo ciò che Murgia disse affrontando gli ultimi mesi con grande dignità, senza toni lacrimevoli: «L’importante è che la morte mi trovi viva». Missione compiuta.
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