2024-07-01
«Avere il trasformismo nel dna è un vantaggio per noi italiani»
Arturo Brachetti: «Da bambino grazie ai giochi di prestigio mi prendevo la rivincita su chi mi bullizzava. Il mio segreto? Dieta severa, ginnastica e un’unica droga: il palcoscenico».Il suo sarà uno degli spettacoli di punta del Fringe di Edimburgo, il più importante festival del teatro al mondo, in agosto. Lo raggiungiamo in una breve pausa in Italia, dopo settimane di palcoscenici in tutto il mondo. Ogni tanto confonde i termini, ne sbuca qualcuno in francese o in inglese. Intraducibili alla perfezione. È nella sua casa di Torino ed è di rara cortesia. Racconta che se deve fare oggi un bilancio della vita, una delle cose che più lo appassiona è collezionare curiosità negli incontri, quelli che insegnano. Ne rivela a fine intervista qualcuno con cantanti iper-noti e non più in vita, altri con psicologi. Chiede di non scriverne, sono confidenze. Si apre tanto nel chiacchierare, non svela tutto.Arturo Brachetti - virgola - «il più grande attore trasformista del mondo». Non è mai un peso?«Gigantesco, ma è un po’ come chi ha il record nel mangiare fagioli: dipende a cosa serve».Serve?«A momenti c’è chi riconosce il valore culturale di questo mio lavoro, che è popolare, ludico, eccetera. In Francia mi hanno nominato Cavaliere delle arti e delle lettere. In Italia Commendatore».Cultura, quindi?«L’arte della trasformazione nasce quattro secoli fa e io l’ho riesumata nel 1979. Ed è una cosa nostra, italiana: lo abbiamo nel dna, perché siamo stati invasi dai tedeschi, dai francesi, dagli arabi… Siamo campioni dell’anarchia e del trasformismo».E non lo dice in tono negativo, mi pare?«Anzi, è il pregio degli italiani, il saper adattarsi e organizzarsi anche quando le cose non vanno al meglio».In principio fu per lei il seminario.«Mio padre mi fece entrare a 11 anni, dandomi l’occasione di studiare. A 13 iniziavo i giochi di prestigio per sfidare la mia timidezza e anche come rivincita sociale verso i bulli che mi mettevano all’angolo e pure nel bidone dell’immondizia. Allora non destava scandalo, erano schiamazzi da ragazzi in collegio».Ma con la magia si vendicava?«Sentivo di avere un potere, sì. E poi ho iniziato a travestirmi, e ho incontrato in un libro Leopoldo Fregoli e i suoi successi. Allora ho cominciato a inventarmi i trucchi. Con sei personaggi, sono partito per Parigi e mi hanno preso al Paradis Latin che avevo solo 20 anni».Ne diventò l’attrazione di punta. Scusi la banalità: ma fu solo lei a pensarci, a quest’arte del trasformismo?«È andata proprio così: il mestiere di Fregoli si era perso, come capiterà ad alcuni lavori artigianali di oggi o chissà. I maghi sono abituati a trovare soluzioni preconfezionate, io mi sono inventato tutto senza alcun manuale. Dai sei costumi iniziali, sono poi diventati 450».Oggi di competitor nel trasformismo ne ha?«Ci sono, soprattutto nei talent. C’è qualche donna che è più veloce di me, e non mi vergogno ad ammetterlo. Il punto è che il repertorio dura al massimo 7 minuti e in televisione se ne vedono due. Costume, ombrellino, coriandoli… i numeri sono spesso molto simili. Inizialmente mi disturbava che ci fosse qualcuno che mi imitava o rubava segreti. Poi ho constatato che nessuno ha mai pensato di mescolare i personaggi a riferimenti culturali, nessuno racconta storie, nessuno canta. Puntano tutti alla sorpresa ed è finita lì». Classe 1957, in piena forma fisica. Come fa? I suoi spettacoli devono essere faticosi…«Lo sono. Quando esco di scena corro, continuo a parlare e intanto mi cambio. È il cervello che comanda sull’anagrafe. Seguo una dieta abbastanza severa e faccio ginnastica sempre».Dal palcoscenico un giorno scenderà? Ci ha mai pensato?«La fortuna di un attore è che può restarci finché un proiettore non gli cade sulla testa o gli viene un infarto. Il palco è come una droga e ne parlo in termini quasi scientifici: la scarica di adrenalina e serotonina che regala, ti porta a livelli di esaltazione che nessuno può comparare. D’altra parte, alla mia età mica mi innamoro…».Non accade?«Diciamo così: che per uno come me che non fuma, non beve e non si droga, rimangono il sesso e il cioccolato».Porta un ciuffo sulla testa e ho letto che è un omaggio alla Mole Antonelliana e pure alla Torre Eiffel. È vero?«La prima volta che mi sono tagliato così i capelli era per fare Sogno di una notte di mezz’estate, a metà degli anni Novanta e quindi ogni tanto mi piace dire che me l’ha lasciato in eredità Guglielmo Scuotilancia, ovvero Shakespeare. I francesi dopo il mio one man show degli anni Duemila scrissero che ero l’italiano con la Torre Eiffel sulla testa. È un segno di riconoscimento. L’uomo dai mille volti, qual è quello vero? Quando lavoravo al Paradis non mi avrebbe riconosciuto nessuno, senza parrucca o travestimento».Il vero volto di Brachetti.«Se lo ricorda Alighiero Noschese? Era un fantastico imitatore italiano. Morto suicida a 47 anni perché tutti lo volevano per essere altro da sé. L’avvocato Agnelli o Aldo Moro, mai sé stesso».Tra 450 costumi e in 40 anni di carriera, lei invece si è trovato?«Mi rendo conto che sto meglio nella mia pelle ora di quando di anni ne avevo 30. Molto meglio. Al mio arco non ho solo i giochi di prestigio che facevo in adolescenza per impressionare. Ora ho gli incontri di una vita con personalità incredibili; ho vissuto avventure e che ci vorrebbero due pagine per raccontargliele… Il bagaglio di Arturo con il ciuffo è molto piacevole da portare».Sempre in viaggio?«La mia missione è fare spettacoli nei quali si sogna. Che evocano emozioni, a cavallo tra la fantasia e al limite della magia. Questo è il mio “Ikigai”, direbbero i giapponesi. Che si può tradurre con il senso della propria vita, una sorta di predestinazione, la ragione di vivere su questa Terra».È una soltanto, per i giapponesi?«Sì, una. È una cosa che si realizza a una certa età, perché da giovane sei tra il sogno e la realtà. A un certo punto ti rendi conto. C’è chi ha il “superpotere” di saper ascoltare gli altri. Chi è un bravo panettiere. Chi sa allevare figli straordinari. Non è mai una cosa da niente, non vale mai poco».C’entra anche con la vocazione?«Non proprio, anche se sì. In fondo la vita è come la carota: finché la hai davanti, e cerchi di prenderla, hai un orizzonte. Quando la prendi, magari ti rendi conto che era solo una carota e che non basta».A 17 anni uscì dal seminario: fare il prete non era la sua ragione di vita.«Non era tanto la castità il limite che sentivo. La libertà, però, quella sì. Appena potevo uscivo di notte in gran segreto per andare a vedere spettacoli di magia o i film. Ricordo ancora la paura di essere beccato dopo Profondo rosso: con un amico camminavamo al buio e i corridoi facevano paura».Con lei don Silvio Mantelli, poi diventato il mago Sales.«Siamo rimasti amici ed è con lui che svolgo il mio impegno sociale: so che nessuna offerta va perduta e che è molto rigoroso».Erano severi, con voi, i preti del seminario?«Per niente. Erano salesiani e non gesuiti. E poi don Bosco è il patrono dei giocolieri, degli illusionisti e dei saltimbanchi perché un giorno salì su una corda per far recitare alla folla il rosario. Ha sempre promosso il teatro come mezzo educativo».Ci crede anche lei? All’educazione attraverso la recitazione?«Lo consiglierei a chiunque abbia un figlio timido. Dietro alla maschera tiri fuori te stesso quasi senza accorgertene e poi ti rendi conto che è facile recitare la verità».Gliel’hanno già chiesto un commento alle parole del Papa sugli omosessuali tra i preti?«Ovviamente. E ho risposto che a me non è mai successo niente di torbido e che se il presupposto è che tra il 5 e il 10% degli uomini ha tendenze omosessuali, così sarà in seminario ma pure nell’esercito o nella sanità. Che vogliamo fare? Impedire loro il mestiere del prete o qualsiasi altro? In tutti gli ambiti c’è il timido e il gradasso, e pure la ragazza lesbica. Fortuna che non esiste, la cosiddetta normalità: siamo tutti meravigliosamente unici e speciali». La domanda più cercata online accanto al suo nome è ovviamente come fa a cambiarsi tanto in fretta. Ma sarà un segreto…«Glielo posso dire, invece. I trucchi sono due. Uno, i costumi di cui le parlavo: sono vere opere di ingegneria sartoriale che costano anche moltissimo, fino a 5.000 euro l’uno e non lo nascondo». Come si creano?«All’inizio fu mia madre a cucirli, fece i primi tre. Con grande pazienza. Ora ha 87 anni ed è una forza della natura, uno dei segreti della mia longevità. Poi mi sono rivolto alle sartorie teatrali, seguendo per settimane i lavori, anche con due prove al giorno. Provare, adattare, crederci. Ci metto del mio: in casa mia ho una stanza che in torinese direbbero la stanza del malardriss, ovvero del disordine e della confusione creativa. Piena di stoffe, trapani, carte e tinture. Sperimento sempre».Secondo trucco? «L’altra cosa decisiva è l’organizzazione dietro le quinte. Alcuni assistenti lavorano con me da 20 anni. Due sono le persone incaricate di toccarmi: letteralmente, mi saltano addosso e mentre esco di scena un braccio è già infilato in un altro costume. Forse però c’è un terzo trucco, ma non l’ho inventato io: sono bradicardico, il cuore va lento. Credo mi aiuti».
Lo stabilimento Stellantis di Melfi (Imagoeconomica)
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